Fic Challenge 2016: Racconti

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Var

Quel giorno la porta della casetta di legno ruotò sui cardini molto presto. Ragnar e Olof ne vennero fuori con qualche sbadiglio, saggiando la penetrante aria invernale che irrigidiva i vetri delle finestre venandoli di ghiaccio. Ragnar tirò su con il naso, ruttando e passandosi due dita sulla lunga barba bionda, ancora macchiata da qualche residuo di idromele. Gettò uno sguardo al ragazzo, e in un cenno di intesa i due si avviarono lungo la Sprengisandur, le canne da pesca in spalla e due piccoli contenitori rettangolari nelle mani libere, dove tenevano ami ed esche. L’Islanda era ancora immersa nella sua fatale stasi perenne: il cielo era trapunto di stelle in dissolvenza, mentre la luna cedeva placidamente il posto al sole, che pure, i due lo sapevano, avrebbe faticato anche quel giorno a farsi strada fra le tenebre da cui era oppresso. Olof pensò che c’era una sorta di essenza connaturata al suo piccolo cerchio di mondo in cui viveva: una melanconia dolce come la voce di un violino, la cartina al tornasole dei sogni dell’umanità. Aveva solo una vaga idea di ciò che poteva accadere lontano dall’isola, non avendo mai messo piede fuori; il vecchio televisore che tenevano nella casa non funzionava tanto bene, e Ragnar non si era mai dato la pena di aggiustarlo. Diceva di odiare quello che, a sua detta, era un pudore sociale che la civiltà aveva trascinato con sé durante la sua ascesa, e ora aveva infettato come un morbo virale quasi ogni angolo del pianeta. Meno sento, meglio sto, gli era stato ripetuto più e più volte, quando Ragnar decideva di prendere la parola dopo un notiziario.

« Cavalco, cavalco, cavalco sulla sabbia
il sole sta tramontando dietro Arnarfell.
Da queste parti ci sono molti sporchi spiriti
perché sta facendo buio sul ghiacciaio.
Signore, guida il mio cavallo,
l'ultimo tratto di strada sarà difficile.
Sssh! Sssh! Sssh! Sulla piccola collina correva una volpe
la sua bocca asciutta vuole essere bagnata con il sangue.
O forse qualcuno stava chiamando
con una voce maschile stranamente oscura.
Fuorilegge a Ódáðahraun
stanno forse radunando alcune pecore segretamente.
Cavalco, cavalco, cavalco sulla sabbia
sta facendo buio su Herðubreið.
La regina degli elfi sta imbrigliando il suo cavallo
sarebbe meglio non incontrarla.
Darei il mio migliore cavallo

per raggiungere Kidagil ».

Olof lasciò che Ragnar terminasse la sua ode mattutina. Era una tradizione, e lo avrebbe seccato molto non mantenerla.
« La buona vecchia Á Sprengisandi » commentò Ragnar, soddisfatto. « Siamo vicini, Olof ».
Olof lo seguì. Le acque del fiume Skjálfandafljót si infrangevano per una decina di metri nel ventre delle cascate di Goðafoss, in un fortissimo riverbero etereo. Per quel che ne sapeva, Olof era nato lì. O caduto, come Ragnar gli faceva spesso notare. Ma qualunque fosse la risposta alla sorte che gli era toccata, quei luoghi desolati bagnati dal canto del silenzio rimanevano, concreti e reali, e tanto ad Olof bastava. L’acqua che scintillava tenue, i merluzzi che schizzavano in ogni direzione, lo sfavillio del ghiaccio che si rifletteva nelle sfumature della cascata... Olof, immancabilmente, si aprì in un largo sorriso.
« Di qui, Olof ». Ragnar lo esortò.
Si avvicinarono al suo costone di roccia preferito, dove si aprivano due piccole faglie in prossimità del fiume, l’ideale per stare seduti abbastanza comodi e catturare qualche preda. Betulle, abeti e pini occupavano i dintorni della zona, vecchi guardiani dai tronchi pieni di cicatrici ai quali la terra brulla aveva concesso asilo. Gli aghi dei pini erano così intirizziti a causa del freddo da sembrare, da quella distanza, grossi spilli acuminati. I due si affacciarono sulla superficie dell’acqua, che rimandò appena indietro i profili dei loro volti. C’era quello di Ragnar, duro, con una fronte da cavernicolo, il naso leggermente schiacciato, i folti capelli crespi e la barba che avrebbe potuto avvolgergli il collo; e quello di Olof, allampanato, più giovane, senza barba e con un unico ciuffo di capelli corvini. Non esattamente la fisionomia di un islandese che vive a nord dell’isola, si era sempre detto fra sé e sé.
« Su, sbrighiamoci » proseguì Ragnar, schiarendosi la voce.
Lasciarono che le esche attaccate agli ami infrangessero delicatamente il pelo dell’acqua, per poi sistemare le canne da pesca sui loro sostegni. Uno stormo di pulcinelle di mare, gli stridii festanti che arrancavano nelle loro stesse scie luminose, invasero l’aria come mille ragnatele che luccicavano nel vento. Le seguirono con lo sguardo, infagottandosi meglio che poterono nei loro cappotti, e attesero. Olof considerò che in un’attività come la pesca uno imparava a fare i conti con il tempo. Imparava a trattarlo, a meditarci costantemente, ad osservare le numerose facce di quell’unico prisma. In genere, con lui il tempo sapeva essere infruttuoso: quel tempo che con la sua docilità tossica si insinuava nei percorsi del cervello disvelando gradualmente l’amara verità di non aver catturato niente. Per Ragnar era diverso: lui era un pescatore esperto. Poteva anche aver imparato a pescare con Odino, Thor e Freyr, per quanto Olof ne sapeva.
« E se mi chiedi perché amo la pesca, Olof » disse Ragnar, estraendo un’altra bottiglia di idromele da una tasca del suo immenso pastrano, « ecco a te la risposta. Salute ». E bevve.
« Ti piace proprio quell’idromele, Ragn » rilevò Olof, accucciato nel suo minuscolo incavo di roccia con le ginocchia strette vicino al petto.
« Bevo la bevanda degli dei alle cascate degli dei ». Ragnar fece spallucce. « Mi sembra un atto di educazione per tutta quella gentaglia che ci guarda da lassù, eh? » Ruttò di nuovo, stavolta più sonoramente.
« Non c’era un unico Dio, per te? »
« I fatti non ci lasciano altra spiegazione ». Ragnar tracannò un altro sorso di idromele, prima di raccogliere un lupino che ondeggiava piano accanto alla suola della sua scarpa. Accarezzò con una delicatezza sorprendente, per le sue dita rudi, le infiorescenze pervinca che correvano lungo lo stelo del fiore. « Sai perché le cascate di Goðafoss sono dette le cascate degli dei? »
« Un... Qualcuno un giorno decise di rendere il Cristianesimo religione ufficiale dell’Islanda, mille anni fa, giusto? E... E gettò le statue degli dei dell’antico nord nella cascata ».
« Corretto » approvò Ragnar.
Olof sospirò. Non gli piaceva essere messo sotto esame, ma alle volte capitava. C’erano tanti libri nella casa dove vivevano. Aveva da sempre memorie degli scaffali polverosi che traboccavano volumi di ogni sorta, dalla fantascienza alla filosofia, passando per le biografie di guerra di qualche soldato americano, le storie d’amore di Emily Brontë e i gialli di sir Arthur Conan Doyle. Ragnar, se non pescava, leggeva. Diceva che rigettare se stessi in un libro era una forma di oblio seconda solo al sonno e alla morte. Una volta, Olof gli aveva domandato se avesse mai scritto nulla, ma la risposta di Ragnar era stata categorica: non c’è ragione di scrivere, Olof. Scrivere è una profanazione. Se io proiettassi le idee in cui credo integralmente su un pezzo di carta, ecco, quelle idee conterebbero meno per me. Era stata una risposta ambigua, come era Ragnar la maggior parte del tempo. E nonostante fossero trascorsi anni, Olof aveva sempre rimuginato sull’intensità di quelle parole. Non parlavano mai troppo, in casa, e lo stesso valeva per la pesca. Olof si era ritrovato spesso ad aprirsi più con il signore a cui vendevano il pesce alla stazione commerciale nei pressi del vulcano Hekla, che non con Ragnar e i suoi lunghi raccoglimenti meditabondi. Ecco perché, quel giorno, erano stati toccati picchi di eloquenza raramente esplorati prima.
« E tu, Olof? Credi in Dio? »
Olof inarcò le sopracciglia. Ragnar non lo stava guardando: teneva gli occhi fissi sulla parete del cielo, oltre le montagne, dove i primi screzi luminosi strappavano la coperta della notte. Piano piano, le nuvole si stavano facendo meno dense, schiudendosi attraverso la bruma lattiginosa. Faceva troppo freddo perché il vento potesse anche solo esalare un respiro; persino le pulcinelle di mare avevano arrestato il loro corso, abbarbicandosi sui rami di una betulla. Olof contò i loro becchi colorati, prima di dare una risposta. Quegli strani incroci fra un uccello e un pinguino gli avevano sempre suscitato simpatia.
« Non so. Se Dio c’è, sembra quasi che si sia dimenticato di questo posto ».
« Tu dici? A me sembra il contrario ».
« Non fraintendermi, io... Sono felice di vivere qui. Ma è tutto così buio. Immobile. Come se la luce del mondo risplendesse altrove, e noi vivessimo in penombra ».
« Ti avevo capito benissimo, Olof ». Ragnar sorrise. « E continua a sembrarmi il contrario ». Annuì a se stesso, battendosi una manona sul ginocchio. La canna da pesca tremò appena sul suo sostegno.
« E allora perché... » tentò di dire Olof, ma l’altro lo interruppe.
« Non so se ci sia un Dio, ma se c’è, be’, penso che l’averci assegnato a questo posto ci renda dei privilegiati. Terre come questa ricordano ad una persona che cosa è ».
« Non ti seguo, Ragn ».
« Non lo so, Olof. Pensa a quegli uomini incravattati che abbiamo visto al telegiornale, la settimana scorsa ».
Olof se li ricordava: figure longilinee, tutte uguali, gli abiti inamidati, scuri, le scriminature dei capelli perfette, le scarpe laccate, le ventiquattrore alla mano. C’era stato un meeting dalle parti di Reykjavík, e quegli uomini provenienti dall’America vi avevano preso parte per questioni di governo. Ad Olof, dalla piccola finestra quale era la sua mente, erano parsi così indaffarati, presi da ragioni più grandi, assuefatti da un caldo cerchio di umanità che a lui non era mai appartenuto.
« Sì. Me li ricordo » rispose. Quale problema avrebbe mai potuto rappresentare il non riuscire a catturare uno stoccafisso da vendere per guadagnare qualche corona, quando a pochi chilometri da lì si discuteva del destino economico della nazione?
« Ecco, vedi, io credo che, Dio o no, la spiritualità sia importante per un uomo. Io credo che le coscienze di quelle persone abbiano preso il sopravvento su di loro. Che siano più consapevolezza che anima, oramai. E questo accade in ogni parte del pianeta, sai, mentre la civiltà fagocita gli ultimi scampoli di noi stessi che ci sono rimasti ». La voce di Ragnar tracimava amarezza. Rigurgitava rancore.
« Continuo a non seguirti ». Olof spalancò un po’ di più gli occhi. Quei discorsi, oltre al fatto che Ragnar pareva leggergli nel pensiero, lo spaventavano, e aveva sempre avuto il sentore che aleggiassero come spettri attorno alla figura dell’uomo. Ora, totalmente all’improvviso, stavano assumendo precisa consistenza.
« Vedi, Olof, sono tutti così sicuri del proprio essere reale. Qualcuno li ha proiettati fin qui, e ora la loro esperienza sensoriale ha costituito un individuo unico, dotato di uno scopo. Tutto questo è per me! Sì, Dio, grazie di rendere il mio destino indimenticabile! Questo è quello che si raccontano. Così sicuri di essere più che una somma di bisogni. Desiderio e ignoranza, Olof. Con la morte, poi, tutti i fili cadono. Capisci che tutto questo dramma, in cui ti sei agitato furiosamente mentre eri solo pulviscolo, è sempre stato e sempre rimarrà un grande sogno. Non devi aggrapparti così forte alla vita. Ti lasci andare. Tutto termina. E ti senti meglio. Rilassato ».
Ragnar chiuse gli occhi, assaporando la brezza della sua Islanda. Due pulcinelle di mare si staccarono dal ramo, dando vita ad un buffo inseguimento a mezz’aria. I frulli delle loro ali riempirono per un po’ quel silenzio ovattato, finché Olof non trovò la forza di controbattere. Con una fitta di ansia, immaginò se stesso di lì a trent’anni, in compagnia di quel vecchio lacustre e solitario, a condividere una solitaria galletta nella loro casa, trasformata in una catapecchia erosa dal tempo. Due fragili dorsi ripuliti dalla tragedia di non essere andati più in là dei loro nasi, di non aver avuto la costante preoccupazione che, là fuori, c’erano altri cuori che pulsavano. Altra gente e altre coscienze.
« Non pensavo fossi così pessimista, Ragnar ».
In realtà, lo sapeva. Le tonalità più cupe che lo spettro di colori della personalità di Ragnar abbracciava erano sempre state lì, a stratificarsi nel corso degli anni. Sin da bambino, Olof tratteneva, impressa, quella faccia burbera, i lineamenti rozzi nei quali la barba aveva affondato le sue radici, il cipiglio rabbuiato quando c’era un passo di un libro che non lo trovava d’accordo. Il suo scrittore preferito era Dostoevskij: aveva raccontato a Olof di amare quel miscuglio di distruzione ed eroicità al contrario che caratterizzava i personaggi di Dostoevskij. Erano tutte figure che aveva oltrepassato un limite, secondo Ragnar: assurte a ranghi semidivini, animati da una passione per l’estremo che lo aveva sempre affascinato.
« Filosoficamente mi definiresti così, forse » replicò Ragnar. « Ma ritengo solo di essere una persona lucida, Olof. Di avere avuto l’incommensurabile fortuna di essere arrivato a vedere l’essenza delle cose, e proprio per tale motivo, in qualche maniera, sono certo che sarei andato a cercarmi esattamente un posto come questo, per vivere, se non ci vivessi già. La lucidità, in fondo, è la qualità eminente di una persona, non trovi? »
« Non saprei, io... »
« La qualità per eccellenza. Quella di una persona che ha compreso, Olof. Nella vita, ci sono veramente poche persone che hanno compreso. Tu sei giovane. Sul tuo cammino avrai ancora molto da vedere, scoprire... Ti renderai conto da solo, un giorno, di aver stretto conoscenza con gente talentuosissima. Grandi scrittori, artisti, persone che eccellono in ciò che fanno, e che non valgono niente. Al contrario, incontri qualcuno per strada, in un bar... Ed è una rivelazione, una persona che ha approfondito, e ciò è terribilmente interessante, sai, anche sul piano religioso... » Un altro sorso di idromele. L’invettiva di Ragnar si stava facendo sempre più appassionata e intensa.
« ... Le persone più interessanti che ho incontrato in vita mia non hanno avuto una formazione intellettuale completa, sai. Eppure devo a quelle persone un debito di riconoscenza, perché è grazie a loro che so chi sono. E potrà sembrarti pretestuoso che un pescatore si esprima in questi termini, ma vedi... È stato quasi automatico adattarmi perfettamente a questa vita. Stare in disparte, rispetto all’agire, agli atti, il circolo dell’esistenza... E a me sta bene ».
La bottiglia era quasi terminata. Le due pulcinelle di mare, sempre più bellicose, svolazzavano in circolo attraverso il corpuscolo che danzava a qualche metro dal letto del fiume. La rugiada era scivolata sulle rocce, rigandole di fresco. Olof si guardò le punte dei piedi. Quei discorsi, ogni volta, lo puntellavano di dubbi cosmici. Veniva rigettato in un sorta di limbo cronico, dal quale non riusciva a venir fuori. Ad esempio, una decina di anni prima, aveva deciso di regalare qualcosa a Ragnar per il suo compleanno. Era stata un’idea spontanea, nata dai suoi più ingenui impulsi da bambino; così, aveva rimediato un pezzetto di legno quadrato, e cominciato ad intagliarlo faticosamente notte dopo notte, in vista del grande giorno. La lama del coltello aveva ritagliato i contorni del viso, scavato gli occhi, inciso le guance e le orecchie, tracciato una bocca sorridente, un arcobaleno al contrario. Olof aveva trovato della paglia consunta fra i resti del caminetto, e l’aveva utilizzata per realizzare la barba e i capelli. Alla fine, il piccolo alter ego in legno di Ragnar aveva preso vita fra le ceneri ammantate della casetta, durante le soffuse albe che Olof aveva vissuto da insonne. La fatidica mattinata, al rientro di Ragnar dalla stazione commerciale, il dono faceva capolino dalla superficie del tavolo, fra il cesto della frutta e la bottiglia vuota di idromele, in spasmodica attesa. Olof aveva spiato tutta la scena da uno spiraglio della cucina; lo sguardo sommerso, il pigiama troppo largo, gli occhi traslucidi, il cuore che vibrava un colpo dopo l’altro all’interno della cassa toracica. Ragnar aveva solo borbottato qualcosa prima di intascare l’oggetto, confinato alla prigione del suo pastrano. Aveva incassato la sua sagoma nella poltrona sfondata, affrancato dalle fatiche, il cimelio già dimenticato. Probabilmente se ne era sbarazzato il giorno successivo. Olof non ebbe mai la forza di fargli gli auguri o domandare chiarimenti. E ora si ritrovava lì, incavato in quella pietra decorata dalla rugiada come Ragnar e la sua poltrona. Di colpo, non seppe chi era, ma solo che aveva molta voglia di calpestare quel riflusso acido di affermazioni.
« Io invece voglio viaggiare. Cercare qualcosa per cui una fiamma mi bruci dentro, Ragnar. Io... So di essere stato molto fortunato, arrivato fin qui. Ma è solo l’inizio del viaggio, non posso pescare per sempre, e se tu te lo fai bastare be’, io invece... » Olof aveva gli occhi sonnambuli di chi si è innamorato del mondo.
« Ti fermo subito, Olof ». Un angolo della bocca di Ragnar si arricciò, scoprendo una serie di denti irregolari. Denti che avevano ingoiato l’inferno. « Non ho la presunzione di importi nessuna convinzione. Non ho con me quel senso di responsabilità che mi lega agli altri, mai avuto... » Scosse la testa. « Però ci tengo a metterti in guardia. Io sono vecchio. E giunto a quest’età, anche il cinismo, come attitudine, viene meno... È la vita. C’è una specie di logorio intrinseco accompagnato all’esistenza, Olof. Tutto invecchia, appassisce, si raffredda. I colori, le gioie, i sentimenti, le luci, le verità... Nel momento in cui ogni cosa assume una forma, ecco che il caos, la volatilità, se la porta via. Il tempo la usura. Odi un nemico un giorno, quello dopo dimentichi cosa ti ha fatto. Vuoi averlo perdonato, ma è solo e sempre quella vecchia, solita usura che ti ha offuscato la memoria. E sta tutto qui, Olof. Mediocre quest’esistenza, non è così? Non ci trovo niente di male nella mediocrità ».
« Tutto qui? Dovrei ritenere la vita insopportabile? Smettere di essere felice? A sentire te la felicità è una specie... Non lo so, un narcotico, qualcosa che ci seda, che ci rende ciechi davanti alle cose, e... È questo che pensi, Ragnar? Sul serio? »
« Tu mi vedi infelice, Olof? Io ho tutto questo ».
Un cenno del capo di Ragnar aprì il sipario su quell’alba. La natura trattenne il fiato.
« Tutto questo ». C’era del biasimo nella voce tremante di Olof. « Dimmi, Ragnar. Quella notte, tanti anni fa... Ti sei pentito? Forse sarebbe stato meglio ignorarmi, lasciare che morissi al gelo? Non aprire la porta di casa a... A un neonato abbandonato senza nome né famiglia, di cui nemmeno a Dio importava niente... » Alcune lacrime gli scolarono le palpebre. La mano di Ragnar, intanto, era affondata per la seconda volta nella tasca del pastrano. Le sue unghie sporche grattarono sulla superficie ruvida di quella testolina di legno sulla quale la paglia era stata incollata male, percorsero le incisioni tremolanti, accolsero con calore i piccoli arti tozzi. I pallori cremisi del sole incendiarono le creste delle colline. Gli alberi erano illuminati come una schiera di candele.
« Bevi un po’ di idromele con me, Olof ».
 
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“Like Me”
L’urlo nello Specchio

di Stefano S.

*1 You shouldn't waste your pretty face like me

Fissava il suo naso riflesso nello specchio, ossessionato. Provava un viscerale disgusto per quella macchia antiestetica sul suo bellissimo volto. In tenera età era tutto sommato sopportabile, ma in età adulta, da poco tempo raggiunta, per lui era diventato insopportabile.

Sapeva tuttavia che questo tormento non sarebbe durato ancora molto.
Stava uscendo dall’ambulatorio del chirurgo, dopo aver tenuto il colloquio. L’incontro si era concluso in modo positivo: presto il suo viso sarebbe diventato levigato come quello di quando era bimbo.
La rinoplastica comunque era solo il primo dei piccoli ritocchi che aveva progettato di eseguire.

La nascita di questa sua ossessione estetica forse era in parte imputabile all’abuso che faceva dei social network. Per lui niente era più appagante di una pioggia di like che scrosciavano sul suo profilo. Quest’idea di ricorrere alla chirurgia plastica era nata dal fatto che qualche d’uno dei suoi contatti gli aveva fatto notare piccole imperfezioni in uno dei suoi tanti selfie, imperfezioni che i filtri non erano riusciti bene a nascondere o migliorare.
L’idea che le persone, i suoi followers, lo innalzassero ad esempio da seguire lo stuzzicava parecchio. Così lui voleva accontentarli.

Oltre al pavoneggiarsi comunque, Jamal aveva anche altri interessi. Era un ingegnere elettronico ed aveva coronato il suo sogno di lavorare per un’importante colosso nella ricerca medica e nello sviluppo di nuove biotecnologie all’avanguardia.
Proprio l’azienda per cui lavorava si occupava anche di fornire gli strumenti e le apparecchiature all’ospedale. Il primario, non a caso, diede l’autorizzazione all’utilizzo delle ultime tecnologie, sperimentali, esclusivamente per quest’operazione.

*2 Bought a hundred dollar bottle of champagne like me?

I social network non erano l’unica cosa di cui Jamal abusava. Le creme, costosissime creme per mantenere la pelle sempre giovane (od almeno così promettevano), erano una costante uscita economica dal suo portafogli.
Il lavoro importante era adeguatamente retribuito e gli consentiva comunque di mantenere il suo stile di vita molto costoso: non poteva mancare di farsi vedere al locale più in del momento nei fine settimana, né di ordinare la bottiglia di vino più pregiato. Era uno scapolo molto ambito per questo motivo, cosa che ovviamente in lui provocava solo piacere.

Le avventure erotiche non mancavano e, quasi in preda ad una assuefazione carnale, proprio per questo evitò di trovarsi “una fissa dimora”, cioè un’unica compagna.

Anche se i soldi non mancavano, per l’intervento aveva comunque dovuto fare qualche sacrificio, mettere qualcosa da parte, sapeva in ogni caso che sarebbe tornato presto in auge (“merito delle creme che avrebbero accelerato la guarigione di eventuali cicatrici”, così pensava) ed ancora più desiderato di prima.

*3 Do the people whisper 'bout you on the train like me?

Jamal comunque non era sempre stato così sicuro di sé, anzi. Prima il curare il proprio aspetto non era nemmeno considerato da lui.
I vestiti non erano ricercati o all’ultima moda e la vita mondana non era ancora parte di lui.

Ciò che lo spinse a cambiare fu il profondo timore di cosa gli altri pensassero di lui. Questa fobia lo mandava in esaurimento, era terrorizzato perfino dalle persone che gli stavano accanto, che potessero parlare male di lui alle sue spalle.
In compagnia per non andare contro nessuno “si annullava”, cioè faceva in modo di non avere un’opinione personale, di non commentare mai nessuno e di non esternare troppo le proprie emozioni.

*4 Are you insane like me?

Iniziò perfino a sentire delle voci inesistenti, dei sussurri che lui interpretava come critiche nei suoi confronti, ma senza riuscire a capire se l’origine di quelle voci fosse un’allucinazione... si convinse che era il caso di consultare un esperto psicologo per non impazzire.
Dopo un lungo percorso di lavoro sull’autostima, Jamal si sentiva rinato. Questa sua nuova sicurezza traspariva anche agli occhi di chi lo aveva cresciuto.

Era diverso anche nel comportamento e nel modo di porsi. Da ragazzino scialbo capace di restare inosservato anche sotto un riflettore a personaggio accattivante ed ammaliante: rimaneva completamente al centro del discorso e catturava l’attenzione di tutti. Iniziò a bramare questa sensazione.

Da quando i complimenti per l’aspetto ed il fascino cominciavano a giungere alle sue orecchie, complici alcune foto provocanti pubblicate sul suo profilo, il suo ego cresceva a dismisura e lo specchio diventò il suo miglior compagno.

Lo specchio rappresentava la sua narcisissima metà. Doveva vedersi perfetto in ogni particolare, ogni dettaglio doveva essere al suo posto.
Al tempo stesso, lo specchio era anche il suo opposto e quindi il suo onnipresente cruccio, ma gli portava anche un sincero rispetto: sincerità nuda e cruda, poiché mostrava sempre e solo la verità, ovvero ciò che gli altri vedevano di lui.

*5 Do you tear yourself apart to entertain like me?

Una forte componente quotidiana per Jamal fu anche quella della cocaina. Aveva iniziato, come quasi tutto il resto nella sua riprovevole vita, per una traccia recondita di quel timore pregresso d’esser giudicato o tagliato fuori dagli altri.
Ora che era riuscito a risollevarsi e farsi bello agli occhi di così tante persone, questa paura era l’ultima cosa che desiderava vedere realizzarsi.

Al colloquio con il medico che si sarebbe occupato della sua operazione non aveva accennato a questi suoi spregiudicati modi di fare.
Le conseguenze furono devastanti e si mostrarono irrimediabilmente una volta uscito dalla sala operatoria.

*6 Been in pain like me?

Complicanze.
In un’epoca moderna come questa sembra ridicolo sentirne ancora parlare, ma l’operazione di Jamal non andò come sperato.

Quando si svegliò, ancora intontito, sentì l’infermiera parlare, ma ancora non collegava bene: “osteotomia interposta”, “depressione laterale” e “retrazione della columella” erano le poche distaccate parole che spiccavano sul resto della frase e che era riuscito a riconoscere. Inutile dire che lo spaventarono a morte.

La faccia, che era ancora fasciata a metà, grondava un’abbondante emorragia, “abbastanza consueto post intervento”, lo avevano avvisato prima di sottoporsi all’operazione.
L’infermiera consigliò di aspettare a rimuovere il bendaggio, ovviamente non le diede ascolto.

Trovò tutte le energie che aveva in corpo, ancora intorpidito, per avanzare all’unica cosa di cui si fidava: lo specchio.
Iniziò a togliersi le bene, con la ragazza che tentava di bloccarlo, ma le diede uno spintone che la fece indietreggiare ed atterrare sul colpo.
Voleva... no, doveva vedere cos’era successo.

*7 And all the people say: « you can't wake up, this is not a dream »

Sbiancò di fronte alla vista di quello che era diventato il suo nuovo naso, facedo comunque fatica a riconoscere cosa fosse materiale di scarto e cosa fosse ancora attaccato alla sua faccia. A prima vista, era solo un enorme crosta di carne e cartilagine esposte.
Sapeva bene che dopo un intervento chirurgico si comincia una discreta lunga serie di cure tra pomate e quant’altro, ma il risultato finale di quella che a lungo termine sarebbe diventata la sua nuova faccia gli era facilmente prevedibile e non poteva comunque essere accettabile.

Pensando a com’era precedentemente, il viso si rigò di lacrime e sangue.
Si passava le mani sul volto, sperando, ingenuamente, di riuscire a rimodellarsi e riparare al danno.
Urlava straziato di dolore, ma non era solo fisico.

L’infermiera, che nel frattempo si era ripresa, si rialzò da terra e chiese l’aiuto dei soccorsi.
Somministrarono un sedativo al paziente, ormai impazzito, dato che la situazione stava via via peggiorando.
Una volta calmato e rimesso a letto, entrò il medico a porgere le sue più sentite scuse.
Inutile dire cosa Jamal stesse pensando di tali discorsi: ormai non gliene poteva più importare nulla.
Accasciato sul letto, sperava solo di svegliarsi da quell’incubo, ma il dottore non gli faceva che confermare la crudele realtà che aveva visto riflessa nello specchio.

*8 With your face all made up, living on a screen

L’equipe operatoria discusse sul da farsi e mise le mani avanti, inserendo il nome di Jamal con altissima priorità in lista d’attesa per un’operazione di ripristino, come tentativo di rimediare al danno.
Tutti i legali dell’azienda ospedaliera si aspettavano un feroce attacco prima o poi, ma non ne seppero più nulla.
In realtà, nessuno ebbe più notizie di lui, non solo l’ospedale.

Quando non guardava le sue vecchie foto, fissava il suo riflesso per ore ed ore. Il viso, prima così armonioso, ora era invece distrutto. Da quei filamenti di pelle appesi traspariva anche tutto il suo sentimento di rabbia e malinconia che portava dentro: ancora una volta lo specchio era sincero, ma brutale. Il suo naso, che gli pareva così orribile in passato, ormai era solo un lontano ricordo: adesso gli mancava addirittura.

La sua “vita sullo schermo” si spense inevitabilmente. Staccò la spina da ogni social network.
Un’idea balenava nella sua testa: doveva nascondersi. Voleva cancellare ogni foto salvata, ogni prova di quello che era stato… e non pensarci più, anche se continuare a farlo era più forte di lui.
Queste erano le cose, secondo la sua logica, più importanti da fare adesso: aveva completamente perso la percezione della realtà.

*9 Low on self esteem, so you run on gasoline.

Non farsi vedere da nessuno fu la parte più semplice.
Le amicizie, costruite sulla superficialità, erano facilmente evaporate. Nessuno venne quindi a cercare Jamal, o chiedere se stesse bene. Anche i suoi fan virtuali presto si dimenticarono chi fosse.
Questo per lui fu un durissimo colpo alla sua autostima, che tornò ad essere precaria come in passato.

Paradossalmente non ci diede troppo peso, quanto invece fece ad un pensiero che lo tormentava: quello di non esser voluto più da nessuna compagna. Doveva porvi rimedio.

Fu relativamente semplice anche avere accesso ad alcune attrezzature speciali dal suo laboratorio. Non aveva intenzione di ripresentarsi a lavoro, quindi fu costretto a “prenderle in prestito” e portarsele a casa. Ambiente che non era molto adatto, comunque, ad ospitare un certo genere di fonti energetiche e di calore.
Sottovalutando questo fatto, il risultato fu abbastanza scontato, poiché dell’abitazione non rimasero che le ceneri.

Pochi attimi prima della deflagrazione, nel suo ultimo istante circondato dal fuoco, Jamal capì tristemente di aver sbagliato tutto: di non essersi accettato per quello che era veramente, di non desiderare a tutti i costi di essere qualcos’altro o di limitarsi per quello che pensassero gli altri di lui. Si sarebbe risparmiato tanto di quel dolore inutile, di fatica e di pressioni… mentre adesso era colmo del rimpianto di un’intera vita non vissuta come avrebbe voluto.

Ripensò al suo naso, al suo viso delicato; poi guardò minaccioso lo specchio, una volta così fedele, complice di avergli eseguito il lavaggio del cervello.
Sbirciò con un ultimo sguardo, illuminato dalle fiamme, cosa vi era riflesso: adesso era irriconoscibile, gli sembrava di vedere uno schermo con l’immagine di qualcuno che non era lui. Infuriato, gli diede un colpo netto, con più potenza che aveva in corpo: in un istante il vetro si deformò per l’onda d’urto e poi, nello stesso momento insieme a tutto il resto, esplose in frantumi.

Nei giorni seguenti, qualcuno giurò di aver visto scappare dalla dimora una figura poco prima che l’incendio divampasse, ma di lui non rimasero tracce.


Inspired by Halsey - 


 

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Gattina Pazza

MAYA

Ehi, Maya. Lo sai? Credo che la visuale da quassù ti piacerebbe. Non appena messo piede sul tetto, è stato il primo pensiero a sorgermi alla mente. Avanzo di qualche passo, il vento gelido che modella sul mio corpo il leggero vestito bianco. Forse ho azzardato troppo, data la stagione; ma so benissimo quanto adori questo abito, Maya, e mi sono convinta di doverti almeno quest’ultima gentilezza. Si domina l’intera città, da qui; è come trovarsi su un’altura di cemento e vetro. Ricordi la gita in montagna dell’estate scorsa? Il sole che ci inondava di raggi dorati, le risate e le corse in mezzo al bosco. Anche se è trascorso un solo anno, è come se un tempo lunghissimo mi separasse da quel momento; è bastato poco perché la mia felicità si frantumasse in mille, finissimi frammenti di vetro. Qualcosa dentro di me si è spezzato ed io non ho la forza sufficiente per ripararlo. Sono stanca ormai, Maya. Non ne posso più di dibattermi inutilmente per rimanere a galla, aggrappata a quelle gocce di luce che il passato mi riversa addosso. Ho un corpo troppo pesante, molto più del tuo, e lo sento sprofondare ogni istante che passa. 
Sono arrivata alla balaustra che cinge il perimetro del tetto, ora. Socchiudendo gli occhi, assaporo l’aria della sera, pregna dell’odore della pioggia appena caduta. Ecco, tu odi questo profumo, Maya, ma a me ha sempre fatto impazzire. Un giorno mi è capitato di pensare che avrei dovuto dirtelo, ma non mi si è mai presentata l’occasione adatta. Quante cose vorrei dirti… ma so che non avrò il tempo di farlo. 
Lentamente poso lo sguardo sulla città sottostante. Penso a te; mi domando se ti stai svegliando in questo momento dopo il solito sonnellino pomeridiano, temporeggiando per rimanere ancora un po’ tra le coperte. In futuro ti capiterà di ripensare a questi momenti; di incolpare te stessa perché mentre la tua migliore amica avanzava verso i confini del mondo, tu eri ancora immersa nel sonno. Ti conosco, so che non riuscirai mai ad affrontare quello che sto per fare senza farti travolgere dal rimorso. Ti voglio bene, Maya, come non ne ho mai voluto a nessuno in vita mia. Se fossi qua, probabilmente capiresti quello che sta per accadere. Se potessi vedermi, il tuo volto impallidirebbe; e cercheresti di correre verso di me e di afferrarmi. Ma ormai non ho più confini, il corpo non è che una convenzione. E tutte le convenzioni possono essere superate. Se fossi qua, Maya, non coglieresti che la disperazione. Vorrei poterti mostrare la luminosità di quello che ci circonda; indicarti la via attraverso le tenebre, che ti porterà oltre lo straziante pensiero della mia morte. 
Sì, io sto per morire. Sta per succedere, Maya, e intendo assaporare ogni istante di un evento così irripetibile. Ho sempre pensato che la nostra morte non ci appartenesse, se non nei pochi secondi che ci separano da essa. No, la mia morte sarà tua, Maya; e dei miei genitori, di Edward, dei nostri amici. Sarete voi a venirne travolti, non certo io: questo avvenimento che racchiude in sé tanta grandiosa potenza distruttiva e che non si protrarrà per più di qualche secondo si abbatterà su di voi, come un’onda su una nave in balia dell’oceano.
Non ho paura. Al cospetto dell’immensità che si schiude ai miei piedi, non posso che aprire le braccia e assaporare la selvaggia energia che avvolge ogni cosa. Sento salire dal profondo un richiamo ancestrale che mi spinge verso l’ignoto. Non ho la minima idea di ciò che mi attende una volta varcato il confine del mondo, ma non ho paura. È così, Maya. Ti ho scritto una lettera, la troverai sulla mia scrivania, profumata e imbustata diligentemente. Non è molto lunga, anzi; non ho vergato che una singola frase in calligrafia perfetta, al centro della pagina. Sei l’unica a cui ho deciso di svelare un indizio, l’unica a cui ho avuto il coraggio di mostrare la follia che rivesto di un manto di sanità. 
Il vento soffia più impetuoso, ora, e ha cambiato direzione. Mi lambisce da dietro, come se due mani premurose si posassero sulle spalle per spingermi delicatamente verso dove devo andare. Non sono per nulla superstiziosa, a differenza tua. Lo sai bene. Però in momenti come questo mi ritrovo a pensare che effettivamente esista qualcosa. Non saprei nemmeno come appellarmi a lei, quale nome corretto attribuirle. Ma c’è. La corrente indirizza il corso del fiume in una direzione ben precisa; non ha una consistenza o una forma, ma è dotata di una forza a cui nulla si può opporre. Dall’acqua che scorre nell’alveo ai rami che vi sono caduti, tutto deve necessariamente piegarsi alla volontà della corrente. Ecco, quel “qualcosa” di cui percepisco l’esistenza può esserle paragonato con poco margine di errore. Tu, io, i miei genitori, il mondo in cui viviamo, siamo immersi in un fiume che ci sta portando ad una meta ben definita; e ci sono avvenimenti che necessariamente accadranno, per permetterci di giungere là dove dobbiamo arrivare. Il vento scema d’intensità, si trasforma in una brezza leggera che mi accarezza. Desidera lasciarmi il mio tempo, affinché compia quello che devo solo nel momento in cui sarò pronta. Un gesto irreparabile va compiuto con la giusta consapevolezza. 
Arriverai a capire tutto questo dalla semplice frase che ti ho indirizzato? Io credo di sì. Nessuno mi conosce meglio di te, Maya. Se c’è qualcuno che può riuscire a comprendere la confusione che si agita in me, quella sei tu. 

Dove sto andando?

È l’unico indizio che ho voluto lasciarti. Immagino che ti occorreranno decenni per trovare una risposta. I primi mesi saranno colmi di confusione, straziati dal pianto e quindi dall’ira più cupa; mi rimpiangerai per poi odiarmi dal più profondo del cuore. A volte la nostra mente è di una semplicità quasi sconvolgente. Al senso della perdita si sostituirà la rabbia: urlerai e piangerai, mi lancerai addosso le peggiori maledizioni. Mi odierai, Maya, tu che un tempo mi hai amata più di chiunque altro. Infine subentrerà il vuoto. Ti guarderai intorno e percepirai la voragine che si apre nel tuo cuore. Solo allora ti ricorderai della mia lettera criptica; è stata pensata appositamente per quell’istante in cui ti accorgerai di non avere più nessun desiderio o interesse. Riempirà il tuo vuoto, o almeno questo è ciò che spero. 
Dove sto andando? 
Non ho pensato ad altro che a questo negli ultimi tempi. E sono giunta ad una conclusione che mi ha terrorizzata al punto da condurmi qui. A camminare con decisione fino ai confini del mondo. Non sto andando da nessuna parte, ecco tutto. Sono ferma immobile, Maya, e questo mi spaventa. Probabilmente penserai che sono impazzita e forse chissà, potresti avere ragione. Hai sempre nutrito la convinzione che la mia vita fosse perfetta; e ti dirò, non eri l’unica. Chiunque mi conosce lo crede fermamente. Più di una volta mi è capitato di leggere nei tuoi occhi un’ammirazione incondizionata; e se la prima volta che me ne accorsi mi sentii lusingata, infine tu divenisti il promemoria di tutto quello che detestavo, Maya. Vorrei che non ti sentissi in colpa, se un giorno arriverai a capire le mie motivazioni. Se fino ad ora non ho ancora portato a compimento la mia risoluzione, è stato soltanto perché esistevi tu, Maya. Ho procrastinato per molto tempo l’idea che domina la mia mente. Ma ora, al termine della mia lunga esitazione, nulla potrà più fermarmi. 
Per arrivare al punto, Maya: dove sto andando? L’esistenza che ho vissuto finora mi ha sempre vista vincitrice incontrastata e padrona del mio destino. Da questo punto di vista la mia vita è davvero perfetta. Di cosa potrei lamentarmi? Cosa mi manca per definirla tale? Ho una famiglia affettuosa, un’amica fidata al fianco e un ragazzo pazzo di me; viviamo nell’agio e questa situazione in futuro non potrà che migliorare: dati gli ottimi voti e l’impegno che profondo nello studio, nessuno potrebbe dubitare della carriera brillante che mi si prospetta dinnanzi. Non vi sono molte mie conoscenze che possono dire di detestarmi, né a me importerebbe se così fosse: quanto sono sicura di me stessa non ti è oscuro, Maya. Mi sento felice. Lo sono al punto che penso potrei esplodere. 
E proprio qui si annida l’insidia. Quello che ti ho appena descritto è l’ “apice” della mia intera vita. In nessun altro momento futuro potrò raggiungere un simile livello di perfezione e felicità. Ho afferrato questa consapevolezza atroce all’età di soli vent’anni: d’ora in poi il mio cammino non potrà che rivolgersi verso il basso. 
Con cautela, tenendomi stretta, scavalco la balaustra che cinge il terrazzo. Ora non c’è davvero più nulla a separarmi dal mio obiettivo: un solo passo e il piano potrà dirsi compiuto. Le punta dei piedi nudi sporgono oltre il bordo dell’edificio, avvertono la sensazione di vuoto, che solleticandole risale le gambe. Ho le mani serrate sulla sbarra e questo mi costringe a tenera una posizione scomoda, con le braccia piegate verso l’interno. Ma non voglio rischiare di scivolare prima di essere pronta. 
Ho vissuto l’anno appena passato in questa condizione, Maya: camminando su un confine labile, sempre in bilico, con la voragine che si apriva ai miei piedi. Un semplice errore e sarei caduta. Un fallimento e il piedistallo su cui io per prima mi ero posta si sarebbe sgretolato. Avrei roteato nel vuoto per il resto della vita, scivolando inevitabilmente verso il fondo. E quando lo avessi raggiunto, mi sarei sfracellata al suolo e lì sarei rimasta. Immobile. Scomposta. Incapace di risalire faticosamente per conquistare nuovamente la vetta. Immagina una bambola di pezza che viene gettata a terra, Maya. Quella sarebbe stata la mia fine. Quello era il luogo in cui stavo andando. 
La notte sta calando velocemente. Già s’intravede nell’azzurro sfumato del cielo una falce di luna che ricorda vagamente un sorriso. Stringo più forte la balaustra, ora è calato su di me un gelo improvviso e silenzioso, che mi si è insinuato dentro penetrando nelle ossa. Mi sono ribellata all’idea del mio destino con veemenza. Dopo la disperazione e la rabbia, è scesa su di me una calma inquietante; ho trascorso lunghe notti insonni a riflettere. Doveva esserci un modo per evitare la tragedia ed io l’avrei trovato. E così è stato. L’idea non si è presentata come una sorta di rivelazione inaspettata; si è aperta strada in me con lentezza, progressivamente, giorno dopo giorno. Per lungo tempo l’ho ignorata volutamente, rifiutandomi di prenderla in considerazione. Ma nel momento in cui l’ho fatto, ne sono stata soggiogata completamente. Dopo una riflessione lucida e disincantata, ho compreso che mi trovavo al cospetto dell’unica soluzione possibile, oltre che della migliore. Da quel momento non ho più vacillato nella mia convinzione. 
È il prezzo da pagare per eternarmi in questo attimo di gloria, che presto si sarebbe consumato, e spento. In tal modo lascerò la partita da vincitrice, prima che il castello mi crolli addosso. Desidero che tutti voi mi ricordiate così, all’apice del successo e della felicità. Cerca di capirmi, Maya. So bene che mi disprezzerai, additandomi come una codarda che rifugge dalla possibilità del fallimento. Forse… anzi, probabilmente è così. Un giorno sbaglierò, capita a tutti di farlo; ma non posso permettere che ciò accada. Le aspettative del mondo gravano su di me come mille spade appuntite pronte ad affondare nella carne al primo errore. Quante persone deluderei? La sola idea della risposta mi fa impazzire. Devo impedire che ciò accada. E questo è l’unico modo. 
Spero che un giorno capirai, Maya, e che potrai perdonarmi. Che avrai pietà di me e dalla mia ossessione, del terrore che ho di deludere chi ha fiducia in me. Ho ripercorso con la mente il mio cammino alla luce del sole morente nella vaga speranza che questi sentimenti ti raggiungano, prima o poi. Ho affidato la risposta alla domanda della lettera al mondo che mi circonda, come un naufrago che consegna le sue ultime volontà al messaggio in una bottiglia. Prego affinché le onde dell’oceano un giorno ti raggiungano e ti trasmettano la verità su di me. Forse non accadrà mai, Maya, ma mi piace pensare che non sia così. Che la forza di cui ti parlavo prima realizzi il mio ultimo desiderio. 
Sono pronta, ora. Allento un poco la presa delle dita contratte attorno alla balaustra. Il cuore batte a mille, le mani sono sudate e scivolose; ma il mio sguardo è fisso in avanti. Osservo le luci della città accendersi come fiammelle tremule. Non riesco più a trattenermi per l’eccitazione; ancora tenendomi stretta mi piego con il busto in avanti. Una curiosa sensazione di vuoto mi prende lo stomaco e rimango appesa ancora per qualche istante in quella posizione. 
È solo allora che mi accorgo delle lacrime che mi sgorgano dagli occhi. Perché sto piangendo? Non è paura, e nemmeno un estremo ripensamento. Rimorso? Rimpianto? L’idea che forse non vi rivedrò mai più, Maya, né te né la mia famiglia, mi attraversa la mente come un lampo. Non credo nella vita dopo la morte, il che significa che il nostro viaggio insieme si è concluso. Questa è l’ultima volta che ci troveremo nello stesso mondo, respirando la stessa aria. 
Poi scuoto la testa. Che sciocca sono. Farmi cogliere da simili stupide preoccupazioni a un passo dalla mia meta. Grazie al gesto che sto per compiere, rimarrò con voi per sempre; il mio ricordo splenderà luminoso ed eterno nei vostri cuori e non ne verrà mai bandito. Non commetterò errori che potrebbero allontanarmi da voi. 
La mia mano destra abbandona la balaustra e afferra saldamente l’oggetto nella tasca del vestito. L’abito che indosso e quello che stringo tra le dita sono tutto ciò che desidero portare con me in questo attimo di gloria. La presa sul corrimano, ultimo legame con questa realtà, inizia a vacillare. Lascio che la vita scivoli via da me, e chiudo gli occhi. 
Il mio ultimo pensiero sarà per te, Maya. Lo prometto. 

19.13 e quattro secondi dello stesso giorno. Maya Nilsson si sta recando al palazzo della sua migliore amica per una visita a sorpresa. È allora che vede un angelo precipitare dal cielo. Uno strano presentimento s’impadronisce di lei. Inizia a correre. 
19.15 e ventiquattro secondi. Maya Nilsson rinviene il cadavere della sua migliore amica sfracellato al suolo. Indossa un abito bianco e in una mano stringe la collana regalatale da Maya. 
19.15 e ventinove secondi. Maya Nilsson comprende in cinque secondi le ragioni dell’amica. Crolla a terra lentamente. Il giorno dopo le verrà consegnata la sua breve lettera, ma a lei non serve. Ha già capito ogni cosa. La conosce meglio di chiunque altro e non ha dubbi sul perché del suo gesto. 
19.17 e undici secondi. Dopo alcuni minuti di silenzio, Maya Nilsson scuote la testa e mormora a fior di labbra il suo addio all’amica. “Stupida. L’unico errore che avrebbe potuto deludermi e farti odiare, l’hai appena commesso. In nessun altro modo avresti potuto perdere la mia stima e il mio affetto”. 
19.17 e diciotto secondi. Maya Nilsson si alza senza aggiungere una parola. Dopo aver dato la schiena al cadavere, si allontana. Maya Nilsson non dimenticherà mai la sua amica. Ma non la ricorderà come lei avrebbe voluto, nel suo apice di successo e perfezione. 
Una falce di luna illumina la scena e il vento accarezza i corpi delle sue due protagoniste. Il sipario cala dolcemente sul dramma appena consumatosi e la quiete prende nuovamente il sopravvento sulla notte.
 

Snorlite

Fetta di torta
Wiki
Jenny

Scusa, papà 


E’ incredibile come tutte le scelte che facciamo, anche se a volte sono giuste, portino sempre a qualcosa di negativo. Non esistono scelte perfette.
Ma esistono scelte catastrofiche.
Ogni giorno ripenso alla mia, di scelta.
Alla distruttiva, terrificante, pessima e straziante scelta…

* * *
La sveglia suona alle sette in punto come ogni mattina. Fa un suono assordante, ogni giorno mi verrebbe voglia di buttarla fuori dalla finestra e tornare a dormire, invece di spegnerla, prepararmi e andare a scuola.
Oggi entro alla seconda ora, non ho voglia di alzarmi, penso. Disattivo la sveglia con un pugno e rimango a letto. Le coperte sono calde, soffici, è sempre un tale trauma doverle abbandonare, anche se tra un’ora dovrò farlo comunque…
– Alzati, Adam. Devi andare a scuola! – dice mio padre spuntando dalla porta. Lo odio, lui e il suo continuo starmi dietro per la scuola. A 17 anni, una persona dovrebbe essere autonoma, e io lo sono. Purtroppo però il suo cervello inesistente non lo ha ancora capito.
Non ho proprio voglia di abbandonare le coperte per seguire delle stupide lezioni che tanto non avrei seguito. Alla prima ora ho pure l’interrogazione in latino, cazzo no! penso Non ho neanche studiato! Non posso presentarmi lì e fare scena muta. Sono già insufficiente, prenderei il debito pure in quella materia, e di conseguenza, con cinque materie sotto, sarei bocciato. Ovviamente a mio padre non lo posso dire, perché sicuramente mi manderebbe a scuola con la forza, per farmi prendere “il brutto voto che mi merito per non aver studiato”. Lo detesto.
– Oggi si entra alle nove, manca la prof – mento, mezzo addormentato. Dentro spero si beva la bugia.
– Non hanno dato nessuna comunicazione, non ne sapevo niente – corruga la fronte. Non mi crede del tutto, però lo sto convincendo. Non succede praticamente mai, sono sorpreso.
– La coordinatrice si è dimenticata di metterlo nel registro elettronico. – dico. Lui non proferisce parola. Sembra stia pensando a qualcosa. Magari mi lascerà rimanere a casa! Il mio cuore comincia a battere forte.
– Preparati lo stesso e andiamo. Non è la prima volta che mi menti riguardo la scuola. Se non troviamo nessuno, mi farò perdonare, promesso – no. No. No! NO!
– Madonna papà, arrivo a scuola distrutto se mi fai alzare subito! E poi cosa faccio un’ora lì da solo? Non posso ritornare a casa e rimettermi a letto, se dopo devo ritornare a scuola! Abbi fiducia in me per una volta! – sbotto arrabbiato. Non posso essere bocciato, finire in una classe di persone più piccole di me, con dei bambini. Verrei preso in giro da tutti quelli della mia età. E tutto per una stupidissima interrogazione di latino…
– Uffa, e va bene – sospira mio padre – Rimani pure a letto. Ma alle nove in punto devi essere a scuola, chiaro? – oddio penso si è bevuto la bugia! Sono diventato un ottimo attore! Sono troppo felice! Mi sono appena salvato, ancora non ci credo.
Rimango a dormire, ancora per un’oretta. Mi alzo con fatica alle otto e dieci, felice però di essere riuscito a saltare l’interrogazione, mi preparo e vado.
Frequento il liceo scientifico. Una pessima scelta, perché studiare è una rottura, però in terza media, quando feci l’iscrizione, ero ancora convinto che studiare sarebbe servito a trovare lavoro più facilmente. Tanto però, che tu non abbia alcun tipo di diploma o che tu sia laureato, rimani comunque disoccupato.
A scuola, le due cose positive sono le seguenti: sono uno dei più popolari e sono corteggiato da belle ragazze.
Se dovessi definire la mia vita, direi che è quasi perfetta. Quasi a causa di mio padre. Lui è ciò che a scuola definiamo tutti uno “sfigato”. Si è diplomato al liceo scientifico col massimo dei voti ed era il classico secchione asociale. All’università ha sempre ricevuto voti che normalmente la gente si sogna. Fu lì che conobbe mia mamma e si fidanzò.
Ora è professore all’università ed è molto apprezzato. Sulla carta, mio padre è quasi un esempio da seguire. Dentro invece, è una persona di merda. Quando avevo 13 anni, tradì mia madre, con una studentessa del secondo anno. Quell’episodio non fece male solo a lei. Fu come se tradisse anche me in quel momento. Immediatamente mia mamma volle il divorzio, da lui non volle nulla, quindi andò a vivere in una casa piccola, facendo un lavoro umile e non aveva abbastanza soldi per mantenermi. Quindi dovetti andare a vivere con quell’essere che è mio padre.
All’inizio della prima liceo, alcuni dissero che gli somigliavo, così cominciai a fare di tutto per non essere come lui, fino a quando non mi venne naturale essere quello che sono ora: un uomo. Tra una settimana poi, compirò gli anni! 18 anni, finalmente maggiorenne.
Arrivo a scuola per la seconda ora, invento una scusa per i professori e dico che porterò la giustificazione domani.
– Ti sei salvato oggi! La prof prima voleva interrogarti. Come hai fatto a convincere quello sfigato di tuo padre? – mi chiede Lucas. Non lo so nemmeno io in realtà penso. Sogghigno e gli dico – Nessuno può mettermi i piedi in testa. Nemmeno quello. – il mio amico ride e mi dà una pacca sulla spalla.
Sì, la mia vita era quasi perfetta. Lo sarebbe stata del tutto, se non fosse stato per lui. O almeno, così pensavo.

* * *
Tornato a casa da scuola mi metto al computer a chattare con Erika, una delle ragazze più carine della scuola. Ho sentito che si è invaghita di me, e non c’è niente di male nel flirtare un po’ con lei per vedere com’è.
Il pomeriggio sta andando benissimo, anche se c’è mio padre in casa. Di solito una volta all’ora circa spunta con una domanda diversa tra Che fai? Studiato? Vuoi qualcosa da mangiare? Da bere? Com’è andata a scuola? Ti sto disturbando? cerca sempre di fare conversazione e non capisce che io non voglio in nessun modo interagire con lui.
Oggi però non è venuto a parlarmi neanche una volta. Beh, meglio così penso sogghignando.
– Adam – mio padre compare sulla porta. Oh no…Pensi al diavolo ed ecco che spuntano le corna! me l’ero tirata.
– Cosa cazzo vuoi? – sbotto innervosito. Scommetto dieci euro che dirà la sua solita frase.
– Non ti rivolgere così a me – replica con tono severo.
Appunto. Non rispondo e continuo a fissarlo. Lui mi guarda per qualche minuto con lo stesso sguardo di prima, poi sospira e dice – Preparati. Usciamo a fare una passeggiata dai. Così ti stacchi un po’ anche dal pc!
– Non ne ho voglia, passo – rispondo ritornando a scrivere ad Erika.
– Non era una proposta. Era un ordine. Preparati. Usciamo insieme. Punto. – che palle penso. Saluto Erika con una scusa e mi metto la giacca. Dopo di che, usciamo.
Perché cavolo vuole fare una passeggiata con me?
Ed è da qui, che la mia scelta, determina il divenire delle cose.

* * *
Arriviamo fino a un parco quasi desolato. Durante il tragitto non parlo, se non per rispondere a monosillabi alle domande che mi fa, ovvero le stesse che mi fa ogni giorno.
Mi invita a sedere su una panchina, e comincia a parlarmi. Io non lo guardo in faccia –Ti ho portato qui perché mi sembra il posto più adatto per parlare. Poi non fa neanche tanto freddo, non trovi? – non gli rispondo. Lo sento inghiottire la saliva, poi continua – Ad ogni modo, ti devo dare un avviso importante. Ho trovato una casa niente male appena fuori città. E’ più vicina all’università e anche alla tua scuola. Oltretutto l’appartamento è anche più spazioso di quello dove siamo adesso! Tra circa tre settimane faremo il trasloco. – Cosa?!
– Ma così la mamma dovrà prendersi due treni al posto di uno… E lei fa già fatica ad arrivare ora… Così… – non ho ancora realizzato ciò che mio padre mi ha detto.
– Beh sì, ci verrà a trovare meno spesso. Ma la vedrai comunque dai, mica non verrà più! – “ci verrà a trovare meno spesso” no. No. No! Non lo accetto! Dentro di me ribolle una tale rabbia, un tale odio che non riesco più a trattenermi.
– Tu mi devi detestare proprio tanto per farmi questo! Sei un coglione! E vuoi sempre fare conversazione, chissà per quale cazzo di motivo! Così mi spingi solo a non rivolgerti proprio la parola! Dopo aver fatto soffrire la mamma e me a causa della tua cazzata, e dopo le continue sofferenze che subisco a causa tua, mi vuoi anche allontanare dall’unica persona che considero la mia vera famiglia? Ma cos’hai nel cervello? Col cazzo che cambiamo casa! – urlo, mi alzo e batto un piede a terra. Troppa ira, dentro di me.
– Adam, so che è difficile all’inizio ma dopo vedrai che non sentirai la differenza! Non ti sto dividendo da tua madre, non è che non verrà mai più da noi! Inoltre, data la tensione che c’è tra noi e lo stress che ha al lavoro, forse stare un po’ più lontano da me la rasserenerà di più – sembra piuttosto in ansia. Forse non si aspettava la mia reazione. Non cambia niente, sempre stronzo rimane.
– Certo, sta più serena se le porti via sempre di più suo figlio! No papà, ragioni come un coglione, che è ciò che sei. Noi non cambiamo casa, punto. Già odio stare con te di solito, figuriamoci se è anche più distante da lei! – troppo, troppo incazzato.
– Ormai è già tutto deciso, non possiamo tornare indietro. Figliolo, questa è la mia scelta. Forse sarà sbagliata, ma per il momento ritengo sia la più giusta per tutti. Te lo assicuro, non sentirai la differenza! – i suoi occhi sono tristi. Forse in qualche modo con la mia rabbia ho detto qualcosa che lo ha ferito. Ma non me ne frega niente, perché lui sta ferendo me e l’unica persona a cui voglio bene: mia mamma.
Le mie grida sono quasi diventate stridule, mi viene anche da piangere – No. No! NO! Ma perché devi sempre rovinarmi le giornate? Sei un pezzo di merda, la peggiore persona che esista al mondo! L’essere più coglione dell’universo. TI ODIO!
– Adam, calmati, non fare così… – è impossibile fermare la mia rabbia.
– Beh sai che ti dico? Tu hai fatto la tua scelta! Io faccio la MIA di scelta! Non voglio continuare a vivere con te! Vado dalla mamma!
– Sai bene che non puoi, non può mantenerti! Adam per favore, smettila di urlare…
– Urlo quanto mi pare! Non prendo ordini da te. Lascerò la scuola e mi troverò un lavoro, e mi manterrò da solo, e sarò finalmente libero e felice, con una persona che mi vuole veramente bene!
– Smettila di dire sciocchezze, io ti voglio…
Lo interrompo urlando con la voce ancora più acuta – Tu non mi vuoi bene! Se no non mi faresti questo! Io ti odio, papà. Lo hai capito o no? Ti odio, hai rovinato la vita sia a me che alla mamma. Ci hai tradito anni fa, e non hai mai fatto niente di buono neanche dopo! Io non ti voglio nella mia vita. Spero tu sparisca presto da questo mondo! – comincio a correre più forte che posso. I soldi in tasca per prendere il treno li ho. Non è un problema andare da mia madre.
Mio padre mi rincorre. Arriviamo fino alla strada. Sono convinto della mia scelta, e della scelta del comportamento che sto adottando.
– Adam, fermati cazzo! – urla mio padre. Ho avvertito una sorta di tremolio nella sua voce. Mi fermo in mezzo alla strada e gli urlo di risposta – Smettila di segui…– non faccio in tempo a finire la frase, perché la conseguenza della mia scelta avviene lì.
Succede tutto in fretta.
Sento un clacson suonare fortissimo. Proviene dalla mia sinistra.
Sento urlare il mio nome – ADAAAAAAAAAAAM – mio padre.
Mi sento spinto e cado a terra sul marciapiede. Sento lo stridio dei freni e il rumore di uno schianto.
Riapro gli occhi e vedo una macchina ferma sulla strada. Vedo un uomo che si avvicina verso un corpo che giace a terra. Verso mio padre.
Cazzo no! penso Papà! corro verso di lui. Gli metto una mano sul petto. Non si muove. Cazzo no! Papà, svegliati! Papà!
Il conducente della macchina mi ordina di chiamare un’ambulanza. Con le lacrime agli occhi obbedisco, lui cerca di rianimare mio padre.
– Non ci riesco – dice l’uomo – il suo cuore non batte.
Provo io.
Niente.
Piango.
Piango tantissimo. Piango disperato. Urlo, lo chiamo ripetutamente – Papà…Papà. Papà! PAPÀ!
All’ospedale, la mia paura si conferma realtà.
Mio padre è morto sul colpo, quando la macchina lo ha investito.
Mi ha salvato la vita.
Mio padre, è morto.
* * *
Mia mamma è l’erede dei beni di mio padre. Sono andato a vivere con lei. Tra qualche giorno ci sarà il funerale di mio padre. Oggi è il mio compleanno, i miei amici mi hanno chiamato allegri al telefono chiedendomi di vederci. Ho risposto loro di no.
E’ tutta la mattina che sto sul letto e fisso il soffitto. Sono in attesa che mio padre apra la porta della stanza e mi faccia una delle sue solite domande per parlare un po’ con me. Tanto so che non arriverà mai…
Mia mamma bussa alla porta. Per un piccolo istante ho pensato fosse lui, però poi sono ritornato alla realtà – avanti – dico sull’orlo del pianto.
– Ho trovato questa, tra le cose di tuo padre… E’ una lettera, destinata a te – mi dice dolcemente. Me la porge e mi da un bacio in fronte – Ancora buon compleanno, tesoro. Ricorda che se hai bisogno sono di là. – non sa come tirarmi su di morale. Sotto sotto, anche lei soffre. Annuisco e aspetto che se ne vada, poi apro la busta e leggo la lettera.

Caro Adam,
quando leggerai questa lettera sarai già maggiorenne. Non sono molto bravo con le parole, penso tu lo sappia bene.
Sappiamo bene tutte e due, che i rapporti tra noi in famiglia sono cambiati, dopo che io…Beh, ho tradito tua madre, e non solo. Ho tradito tutta la famiglia. Non starò a cercare motivi per giustificarmi, perché ciò che ho fatto, qualsiasi ragione ci sia stata, è stato un madornale errore, che ha portato a dividerci, e ha portato tanta sofferenza sia a te che a tua madre. Credimi però, che non ho mai smesso di voler bene a tua madre e soprattutto a te: il regalo più bello che la vita mi ha dato.
Diciotto anni sono un traguardo importante. Da oggi in poi possiedi una grande responsabilità: quella delle scelte. Le scelte determinano il futuro, e soltanto facendo le scelte giuste potrai raggiungere i tuoi sogni, costruire la tua vita, ed essere un adulto.
Il percorso che ti aspetta è difficile, pieno di ostacoli e tentazioni. Sono sicuro che ce la farai senza problemi. E ricordati che, qualsiasi cosa succederà, non sarò mai arrabbiato con te. Ti vorrò sempre bene.
Passa un buon compleanno, e benvenuto nel mondo degli adulti, Adam.
Papà.

I sensi di colpa si fanno avanti, piango. Vorrei che fosse lì con me. Ti prego, bussa a quella cazzo di porta, aprila e chiedimi se ho studiato.
No. Non lo farà mai più.

* * *
Sono passati 5 anni dalla morte di mio padre. Oggi ho 23 anni, frequento l’università di ingegneria meccanica, la facoltà dove insegnava lui.
L’Adam di tanto tempo fa, penserebbe che ora la mia vita è uno schifo. Dopo la morte di mio padre mi veniva sempre e solo da piangere. Non parlavo con nessuno se non dicendo “si” o “no” ad alcune domande fatte da mia mamma. I miei amici, vedendo che non ero più figo come prima, piano piano mi abbandonarono. Le ragazze pure, nessuno voleva stare con uno che non parlava mai e che piangeva solo. Inoltre cominciai a studiare, recuperando le cose non fatte in passato, riuscendo così a finire la quarta e a fare la maturità per bene, prendendo un ottimo voto, 85. Se avessi studiato fin dalla terza, sarei riuscito a prendere 100.
Lo facevo per fare felice mio padre. Lo faccio tutt’ora: cerco di assomigliare a lui in tutto, studiando e frequentando l’università che aveva fatto lui. Il mio obbiettivo è di insegnare lì, in quella facoltà.
Per quanto però possa cercare di essere simile a lui, non potrò mai essere come lui. Io sono molto peggio. Io sono una persona orribile, lui era fantastico.
Mi hanno consigliato uno psicologo, ma ho sempre rifiutato. Niente può riparare l’errore che ho fatto. L’unica cosa che mi fa stare un pochino meglio, è che gli sforzi fatti da mio padre e da mia madre, non sono stati vani. Anche se non mi merito ciò che hanno fatto e che mia mamma fa ancora.
Ogni giorno, vado al cimitero a visitare mio padre. Mi porto sempre la roba da studiare e studio con lui. Solo così riesco ad imparare ciò che leggo nei libri e a fare gli esercizi.
Quando finisco il lavoro che mi sono portato dietro, gli racconto come ho passato la giornata, e quando ho concluso il mio racconto, sto in silenzio, con lui.
E’ incredibile come tutte le scelte che facciamo, anche se a volte sono giuste, portino sempre a qualcosa di negativo.
Non esistono scelte perfette.
Ma esistono scelte catastrofiche.
Ogni giorno ripenso alla mia, di scelta.
Alla distruttiva, terrificante, pessima e straziante scelta…Quella che mi ha diviso da mio padre. Quella che ha portato mio padre alla morte.
La scelta di una persona immatura che pretendeva di essere adulta.
Ogni giorno ripenso e ritorno al passato. Ogni ricordo di quell’episodio è limpido in me. Sembra sia successo ieri.
E una volta rientrato nel presente, non riesco a dire niente, se non due parole, difficili da pronunciare. Ho sempre le lacrime agli occhi.
Scusa, papà. Scusami, davvero.
– Scusa, papà – sussurro.
 

Snorlite

Fetta di torta
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Bias

Un eremita e la sua mucca



Guardavo l'orizzonte seduto sul prato, all'ombra del grosso albero alla destra della mia capanna. Il cielo era terso e si avvicinava al tramonto. Il sole si stava pian piano nascondendo dietro al monte Hood, garantendomi come al solito uno degli spettacoli più belli della natura. Quello spettacolo che a lungo avevo cercato e desiderato. Ogni sera, al calare del sole, prendevo posto sotto l'albero e ammiravo la pace nel mio piccolo sprazzo di paradiso. Respiravo fiero e rilassato la dolce aria incontaminata del mio Oregon, mentre ripensavo alla vita che avevo deciso di abbandonare molti anni prima.
Era il lontano duemilasedici ed io ero solo un ragazzo di vent'anni quando avevo deciso di scappare ed isolarmi dal mondo intero. Avevo lasciato indietro la mia famiglia, i miei amici, i miei probabili amori e sopratutto i miei obblighi, quelli che mi costringevano ad andare contro le mie volontà.
L'obbligo di lavorare, l'obbligo di mantenere i miei genitori, l'obbligo di piegarmi ad un sistema corrotto, dove solo i ricchi e potenti potevano trarre vantaggi, a discapito dei poveri lavoratori. Mi sentivo soltanto un inutile schiavo. Schiavo delle imprese, schiavo dei miei genitori, schiavo dell'amore e delle guerre... schiavo di qualsiasi cosa. Tutto ciò che desideravo, ai tempi, era solo di poter vivere come avevo voglia io, di poter fare ciò che più mi appagava. Ma tutti mi tarpavano le ali, nessuno mi concedeva il diritto di vivere.
Fu così che una notte presi le poche cose che mi servivano e scappai da Chicago, senza lasciare traccia. Viaggiai sui miei piedi per un buon anno, prima di trovare quella vallata sperduta e solitaria. All'inizio fu molto dura, sopravvivere da solo in mezzo alla natura, improvvisarmi cacciatore e pescatore per nutrirmi, cercare degli anfratti per ripararmi dalle piogge abbastanza frequenti. Avevo messo da parte un budget decente che avevo intenzione di usare solo per comprare una mucca, alcune galline, due polli, un fucile ed una pistola e pagare un tizio per costruirmi una capanna ed un pollaio decenti, in modo da dover scendere davvero pochissime volte a Portland.
Una volta che la capanna fu pronta, mi rintanai per sempre nel mio angolo di pace e solitudine. Divenni un eremita, che viveva del latte della sua mucca, delle uova delle sue galline, di pesca e di caccia.
Quando il sole fu quasi totalmente oscurato, mi ridestai dai miei soliti quesiti, nei quali mi chiedevo che fine avessero fatto i miei genitori e tutti gli altri, durante quei quindici anni della mia assenza. Non che me ne importasse davvero, era pura curiosità.
Mi rialzai calmo e mi incamminai verso la capanna, quando l'urlo di una gallina attirò la mia attenzione verso il pollaio. Era insolito, nessuna gallina aveva mai urlato in tutti quegli anni. Qualcosa non andava.
Cautamente corsi dentro e presi il fucile appeso all'ingresso. Entrai silenziosamente nel pollaio dalla porticina che mi ero fatto costruire nella capanna. Mi fermai sulla soglia e guardai attentamente intorno a me. I polli parevano tranquilli, alcune galline dormivano mentre altre beccavano il terreno nervose. Uscii pian piano dall'altro lato del pollaio, ma prima che potessi raggiungere la porta, la mia attenzione venne attirata da un rumore regolare che proveniva dall'esterno.
Mi strinsi il fucile e uscii fuori, la porta era stata lasciata leggermente aperta. Trattenni il respiro e girai l'angolo puntando l'arma. Ciò che vidi mi lasciò perplesso per un istante. Un uomo in divisa militare era in ginocchio, di spalle, e muoveva freneticamente ed energicamente le braccia.
Cosa ci faceva un soldato in quella zona dimenticata dall'uomo e da Dio?
In silenzio mi avvicinai all'uomo e senza troppi complimenti lo colpii in testa col piede del fucile, facendolo svenire sul colpo, il sangue scendeva pian piano dalla sua testa. Vidi ciò che la sua schiena mi celava: la gallina che aveva urlato era diventata un ammasso di membra, penne strappate e pezzi di carne tagliati in maniera irregolare. Guardai la divisa dell'uomo, era americano. Ma ciò che più mi diede fastidio era il sangue della mia gallina sui suoi vestiti. Era il classico soldatino rasato, con gli zigomi alti e la mascella spessa, il naso largo e tozzo. Lo presi di forza e lo portai nella capanna, lo legai alla sedia e aspettai.

******

Ci volle circa un'ora prima che il mio ospite riuscì a svegliarsi. Probabilmente venne attratto dall'odore del brodo di gallina che stavo preparando sul focolare. Si guardò intorno, spaesato ed intontito. Apriva e chiudeva gli occhi di continuo, come se volesse scacciare qualcosa di fastidioso. Solo dopo si rese conto di essere legato, dunque cercò di divincolarsi con foga. Mi sedetti a terra, di fronte a lui.
« Buonasera » dissi tranquillamente.
« Chi sei? » mi rispose furiosamente. « Perché mi hai legato? Dove sono? »
Rimasi basito per la sua faccia tosta. Restai in silenzio per qualche secondo, per formulare correttamente ciò che avrei voluto esprimere. Erano anni che non instauravo una conversazione con un essere umano. Capitava solo quando ero costretto a scendere in città per procurarmi delle galline e mucche più giovani, o le munizioni che mi facevano comodo durante la caccia, dunque molto raramente, come io volevo.
« Non so dove tu riesca a trovare il coraggio di farmi tutte queste domande, Jason, così c'è scritto sulla tua targhetta » iniziai guardandolo negli occhi. « Ma penso che qui l'unico ad aver diritto di fare domande sia io. Hai invaso la mia proprietà, hai rubato una delle mie galline e l'hai massacrata. Ora, credo, potrai comprendere il perché io ti abbia stordito e legato ad una sedia. E spero tu possa capire come mai io non sia disposto a rispondere alle tue domande. Adesso, caro soldatino, tu mi devi una gallina ».
Il soldato sgranò gli occhi e mi guardò rancoroso, ma nel suo sguardo notai un lato di rassegnazione. Sapeva di essere colpevole.
« Ho fame » rispose. « Non mangio da due giorni »
« Avresti potuto chiedere »
« Non avrei potuto... non avevo abbastanza tempo » disse guardandosi intorno nervoso.
Notai che era preoccupato per qualcosa che andava oltre alla situazione cui lo avevo costretto.
« Raccontami la tua storia, ragazzo » invitai. « Sembra interessante »
« Non ho tempo! » sibilò lui. « Lasciami andare ti prego, ti darò i soldi della gallina! »
« Temo non sia possibile » affermai, andando a girare l'acqua del brodo. « Dei soldi non me ne faccio nulla. O almeno, non è ciò che voglio. Vedi, ho costruito questo posto per stare il più lontano possibile dal mondo e dagli altri esseri umani. Ho voluto isolarmi da tutto e tutti ed ora tu, vieni qui ad ammazzarmi una gallina e pretendi che io vada in città a comprarmene un'altra con i tuoi soldi? Pretendi che io abbia altri contatti con gli esseri umani? Non se ne parla proprio. Mi ripagherai andando tu stesso a procurarmi un'altra gallina ».
Jason cominciò a guardarmi incuriosito. Il suo sguardo sembrava essersi posato su qualcosa di nuovo e bizzarro allo stesso tempo. Come se io fossi stato un fenomeno da baraccone.
« La città hai detto? » mi chiese.
« Sì, Portland »
« Amico, capisco che tu voglia stare isolato e non mi interessa il perché, sinceramente, ma sul serio non ti tieni informato su ciò che succede da queste parti? »
« No, ovviamente. Non è mia intenzione sapere cosa accade in questo mondo di merda »
« Questo è un errore » mi disse irritato. « Uno di quelli grossi. Amico, siamo in guerra. Portland è stata occupata dai cinesi »
« I cinesi? » rimasi sorpreso. « Ricordo che, quando ho abbandonato la civiltà, i nemici erano dei terroristi islamici che si divertivano a farsi esplodere. Ora cosa succede? ».
Jason prese frettolosamente a raccontarmi la nuova situazione globale, dove Cina e Russia erano alleate e si mettevano ad attuare nuovi test nucleari senza il consenso delle varie nazioni unite. Erano riuscite ad assoggettare al loro controllo metà del nord Europa e combattevano al fronte con il Medio Oriente, finito fra le mani di Stati Uniti e Francia intorno all'anno venticinque, e spedivano truppe nella nostra terra.
« Insomma, nulla di nuovo » commentai alla fine. « C'è sempre qualcuno che vuole il potere e cerca di spaventare tutti col nucleare. Il mondo è malato, ed è anche per questo che ne sono scappato »
« Ci hai visto lungo » affermò il soldato.
Mi tornò in mente il motivo per il quale eravamo lì seduti a chiacchierare.
« Mi dicevi di avere poco tempo » dissi sospirando. « Che ti è successo? »
« Ero ostaggio di un plotone di cinesi » rispose nervoso. « Una decina di uomini. Sono riuscito a scappare e mandarne qualcuno all'inferno. Sono sulle mie tracce »
Fissai il focolare. Il fuoco aveva sempre avuto un certo fascino su di me. Le fiamme che divampavano energicamente con movimenti irregolari, lo scricchiolio del legno che bruciava e il calore e la luce che invadevano i suoi dintorni. Riusciva a farmi pensare a tutto ciò che era positivo, riusciva a tenermi vivo in qualunque occasione.
Mi alzai, presi l'ascia e mi avvicinai al ragazzo. Notai il suo sguardo impaurito e mi venne da sorridere. Tagliai le corde e tornai vicino al focolare.
« Penso tu voglia riempirti lo stomaco prima di andartene » dissi prendendo il pentolone.
Lo sguardo di Jason si illuminò.
« Mi stai simpatico, dopotutto » presi due ciotole e cominciai a versare il brodo. « E comunque non sono così bastardo da lasciar morire una persona. Sai, qui dentro c'è quella gallina che hai ammazzato, non era saggio buttarla via. Sarai contento di poterne approfittare »
« Assolutamente sì, grazie! » disse il disperato, prendendo energicamente la ciotola.
« Ho sempre odiato le guerre » ragionai ad occhi sgranati. « Mandare dei ragazzi a morire per i propri capricci. Non c'è nulla di peggio. Ti lascerò andare e mi darai solo i soldi, mi arrangerò con una gallina in meno per ora »
« Sei un brav'uomo » mi disse Jason. « Non mi hai detto come ti chiami »
« Brandon » risposi. « Il cognome non ce l'ho più ».

******

Trangugiò alla svelta due ciotole e cominciò a versarsi la terza, quando dall'esterno delle voci attrassero la nostra attenzione. Presi il fucile e guardai dal tendaggio alla finestra. Cinesi. I cinesi avevano trovato la mia dimora, probabilmente attratti dall'odore della gallina.
« I cinesi » sussurrai.
Jason si alzò di scatto rovesciando la ciotola. Guardai di nuovo all'esterno, avevano notato la capanna. Corsi verso un tappeto polveroso e rovinato, lo alzai scoprendo una botola con la quale si accedeva ad un buco nel terreno che usavo come magazzino per tenere la carne della selvaggina in fresco.
« Nasconditi qui dentro! » sibilai furioso. « E prendi quella fottuta ciotola, se ne vedono due siamo fregati entrambi! »
Il soldato mi diede ascolto senza ripensarci e si buttò nella botola. La richiusi in fretta, coprii tutto col tappeto, posai il fucile e mi sedetti sulla sedia a far finta di mangiare, come se nulla fosse successo.
Dopo qualche interminabile secondo, sentii bussare alla porta. Lentamente posai la ciotola e mi alzai dalla sedia. Aprii la porta.
Mi trovai davanti due ometti dagli occhi a mandorla, alti circa un metro e settanta, forse qualche centimetro in meno. Magrissimi e con l'uniforme color fango. I loro volti erano l'unica cosa che li rendeva diversi. Uno aveva il muso schiacciato e il naso largo, l'altro aveva il naso appuntito e gli zigomi alti, avevano in comune solo la loro aria stupida e maligna.
« Buonasera » dissi, sforzandomi di essere gentile. Non avevo avuto contatti con gli esseri umani per molto tempo e ora mi ritrovavo fra le calcagna ben tre soldati.
« Non ti muovere e rispondi! » debuttò sfacciatamente quello dal muso schiacciato.
« Quanta scortesia » dissi noncurante. « Cosa vi porta da queste parti? »
« Silenzio! » ordinò l'altro. « Facciamo noi le domande ».
Entrambi parlavano con un inglese ai limiti del comprensibile, dovetti stare molto attento per carpire il significato di ciò che dicevano.
« Ai vostri ordini! » esclamai esibendo il saluto militare.
Non la presero bene. Mi puntarono addosso le pistole.
« Ora la smetterai di fare il gradasso, spero » disse quello col naso appuntito.
Sorrisi.
« Facciamo in fretta! » disse l'altro impaziente. « Un prigioniero è scappato. Ha ucciso tre nostri compagni. Sappiamo per certo che sia passato da queste parti. Ci chiedevamo se tu avessi visto qualcosa, bifolco »
« Che carino! » commentai sarcastico, le loro armi non mi spaventavano. « Comunque, effettivamente, qualcuno è passato di qui. Un deficiente. Ha ucciso una mia gallina ed è scappato »
« Lo hai visto? »
« No, ho fatto troppo tardi. Ho sentito la gallina urlare e sono andato a... »
« E se io non ti credessi? » disse quello col naso a punta.
« Puoi andare a vedere dietro la capanna, c'è sangue di gallina sparso ovunque » invitai mantenendo un tono poco amichevole.
Si guardarono e parlottarono in cinese. Quello col naso a punta si allontanò e fece il giro della capanna. Ritornò dall'altro lato e fece un segno affermativo con la testa.
« Chi ci dice che non hai ucciso tu la gallina? » riprese quello col muso schiacciato. « Noi sentiamo odore di gallina in brodo. Non siamo stupidi »
« A me sembra di sì! » osservai. « Ho cucinato la gallina che quell'idiota ha massacrato, era uno spreco buttarla a quel punto »
« Vuoi dire che ha lasciato la gallina lì? »
« Sì » risposi annoiato. « Si sarà cagato addosso perché ho urlato e ho minacciato di sparare ».
Si scambiarono un'occhiata perplessa.
« Se non mi credete potete entrare e verificare voi stessi » dissi spazientito.
« Spostati! » ordinò quello col muso schiacciato. « E tieni le mani bene in vista! »
« Va bene capo! » dissi alzando le mani sulla testa.
Entrarono lanciandomi un'occhiataccia. Ricambiai.
Eccoli lì, due cinesi cercavano un tizio nascosto nella mia capanna, buttando nel cesso anni di sacrificio per costruire la mia solitudine. Curiosavano su tutto ciò che attirava la loro attenzione: il pentolone col brodo, il focolare, le corde appese alla parete, il tavolo, la sedia, il fucile e i vari coltelli... non che ci fosse molto altro. Mi davano i nervi. Passarono più e più volte sul tappeto dove sottostava Jason nella botola, ma fortunatamente non gli venne mai in mente di spostare il tappeto. Si avvicinarono alla porta del pollaio. Quello col naso allungato puntò l'arma, l'altro si mise di lato e aprì la porta; sembrava la scena di un vecchio film sulle teste di cuoio. Entrarono nel pollaio e ci stettero qualche minuto. Ritornarono delusi e rancorosi, lanciandomi nuovamente occhiatacce.
« Avete gradito il giro? » chiesi leggero.
« Ancora non hai capito con chi hai a che fare, americano! » disse quello col muso schiacciato.
Mi diede un calcio all'addome, non era tanto forte, ma feci finta di sentire dolore.
« Sei fortunato » riprese. « Non abbiamo il permesso di uccidere civili »
« Non sappiamo se tu abbia aiutato quel bastardo » disse l'altro. « Fatto sta che qui non c'è e non abbiamo prove contro di te. Tuttavia, la tua arroganza ti è nemica. Per punizione ci prenderemo la tua mucca, così domattina la scuoieremo e mangeremo un bel pezzo di carne, come non ne mangiamo da tanto. Spero tu sia soddisfatto! ».
Tali parole mi ipnotizzarono. Volevano prendere la mia vacca. La vacca per la quale avevo fatto tanti sforzi. Non potevano. Non dovevano. Avevo già perso una gallina, non potevo perdere anche la mucca.
« Io di cosa vivo? » chiesi loro, alzando lo sguardo rabbioso.
« Chiedilo a te stesso » rispose quello col muso schiacciato. « La prossima volta sarai meno arrogante! ».
« Non ti muovere! » disse l'altro puntando la pistola. « Potrei disobbedire e dire che ci hai attaccati, se qualcuno scoprisse qualcosa ».
Rimasi in ginocchio, in quelle condizioni non potevo fare nulla. Due contro uno e senza un riparo, col fucile lontano da me. Dovetti rassegnarmi e stare a guardare, mentre gongolanti si portavano via la mia vacca. Una lacrima scese sul mio viso. Tutto ciò che odiavo del mondo, tutto ciò dal quale ero sfuggito, si era manifestato davanti a me nel giro di un'ora. Egoismo, malvagità, belligeranza e odio avevano invaso la mia quiete e, tutto, per colpa di una sola persona.
Aspettai di essere al sicuro. Spostai furioso il tappeto e aprii la botola con foga.
« ESCI! » urlai sprezzante.
« Grazie » bisbigliò Jason, pallido in volto.
« GRAZIE UN CAZZO! SI SONO PRESI LA MIA MUCCA, A CAUSA TUA!»
« Diavolo, mi hai salvato la vita! » esclamò lui. « Ti pagherò anche la mucca! »
« Oh no, caro mio » dissi, con gli occhi sgranati su di lui. « Questa volta è diverso. Hanno invaso la mia proprietà e si sono presi qualcosa che è mio, per puro diletto. Questa volta non basterà pagarmi. Mi sono fatto il culo per procurarmi quella vacca, dopo che era morta la prima. Nessuno può portarsi via qualcosa per la quale mi sono impegnato a fondo »
Jason sembrava aver capito cosa stessi per dire.
« Oh, no Brandon! Non puoi pensare davvero di... »
« Tu verrai con me in quell'inferno e mi aiuterai a riprendere ciò che è mio! »
« Io lì non ci torno, mi ammazzerebbero a vista! »
Presi il fucile e glielo puntai contro.
« Allora lo farò io e bada che faccio sul serio ».
Sapeva di non avere scelta.

******

Cominciava a far freddo in quella notte di novembre. I nostri passi venivano attutiti dall'erba umida e fresca. Poche nuvole ricoprivano la Luna, il cui chiarore illuminava il viso già pallido di Jason. Camminava davanti a me, col fucile puntato alla schiena, facendomi strada. Ogni tanto si girava a guardarmi, quasi per implorarmi di cambiare idea e tornare indietro. Ovviamente non sarei mai tornato indietro. Nessuno poteva permettersi di portare via qualcosa di mia proprietà, specie quella mucca alla quale ero anche affezionato, faceva parte della poca compagnia che avevo.
Ci dirigevamo a sud-est, proprio verso il punto dal quale era arrivato Jason. Camminammo circa un'ora e mezza, prima di sentire degli schiamazzi poco più distanti. Ci nascondemmo per bene fra gli alberi ed ascoltammo attentamente. Urla, risate e irritanti canti cinesi provenivano dal basso, vicino al ruscello. Mi sporsi per vedere, intravidi un fuocherello. Strinsi la presa su l'ascia e silenziosamente invitai il mio compagno ad avanzare.
Scendemmo di qualche metro, fino a trovarci al limite della foresta, da quel punto cominciava a vedersi bene la situazione vicino al ruscello. Ci nascondemmo dietro una grande rupe e mi sporsi per verificare. Tre cinesi ridevano a crepapelle guardando più avanti, allungai lo sguardo e vidi il tizio dal muso schiacciato che cavalcava la mia mucca. Davanti a loro quello col naso lungo attirava la vacca con dei ciuffi d'erba. Non era abbastanza ciò che mi avevano fatto, dovevano anche giocare con la mia proprietà. L'odio prese piede in me.
« Sono in cinque » dissi. « Ne mancano due all'appello, no? ».
Jason si sporse a guardare.
« Sì » rispose vuoto. « Di certo sono a fare la guardia nei paraggi, solitamente ci si da il cambio »
« Bene, aspettiamo il cambio e vediamo in che direzione vanno »
« Tu sei pazzo » disse Jason, sprezzante.
« Forse » risposi nervoso.

******

Passarono altre due ore, prima che si fecero vivi gli altri due tizi. Appena arrivarono, si sedettero vicino al fuoco e due di quelli seduti andarono in direzioni opposte. Uno ad est e uno ad ovest. Intimai a Jason di sbrigarsi, dovevamo fare il giro per intero se volevamo prenderli entrambi. Andammo prima verso est. Tenemmo il profilo basso e camminammo lentamente evitando di fare rumori e guardandoci costantemente intorno. Non ci volle molto prima di sentire dei rumorosi passi sulla nostra via. Due scarponi schiacciavano senza pietà i ramoscelli sul terreno, delineando la posizione del nemico. Seguimmo il rumore e una volta vicini ci fermammo dietro l'ennesimo albero. Lo vidi. Basso e magro, non riusciva a misurare i passi. Portai l'ascia sulla mano destra. Trattenni il respiro contando fino a tre. Mi incamminai rapidamente e silenziosamente verso di lui, sfruttando gli alberi. Mi ritrovai qualche metro avanti a lui.
Aspettai il suo arrivo.
Gli saltai addosso con violenza. Lo bloccai al terreno con le ginocchia e tenni ferma la testa al terreno con la mano sinistra, sfruttando il fucile. Menai l'ascia sul suo volto. Battei, battei e battei, fino a quando la sua faccia divenne un mucchio di carne maciullata e sangue. Ad ogni colpo, il sangue schizzava copiosamente su di me. Mi piaceva. Mi sentii sadico e voglioso di altro sangue, come se non aspettassi altro da una vita intera.
Jason venne a fermarmi mentre cominciavo a colpire di nuovo.
« Basta! » mi disse. « Non è necessario ».
Fissai il mio volto su di lui. Non reggeva il mio sguardo.
« Andiamo! » ordinai.
Con lo stesso metodo, ci ritrovammo dall'altro lato e cominciammo a cercare la guardia. In quel punto, gli alberi erano meno fitti, era più difficile nascondersi. Non stavamo mai troppo tempo fermi nello stesso punto, ci fermavamo solo ogni tanto a riprendere un attimo il fiato. In quei momenti riuscivo ad ascoltare il mio cuore battere freneticamente, nessun altro rumore poteva essere tanto forte. Volevo trovare l'altro e massacrarlo.
Girai dietro ad un albero e mi ritrovai, per sfortuna, faccia a faccia col cinese. Non riuscii a distinguerlo bene. Non avemmo il tempo di puntarci le armi a vicenda. Un colpo risuonò nella notte. La testa del cinese divenne una fontana di sangue e carne.
Jason col suo fucile d'assalto fumante.
« CORRI! » urlò.
Corsi con lui. Sentimmo le urla degli altri cinesi da lontano. Cambiammo versante il più in fretta possibile, fino a ritrovarci al punto di partenza. Ci nascondemmo dietro la stessa rupe. Guardai al loro accampamento. In due si erano mossi, probabilmente erano andati sul luogo dello sparo. Gli altri stavano in piedi, tenendo ben strette le armi. Dovevamo approfittare di quel momento di disgiunzione. Scesi rapidamente verso un'altra rupe e mi nascosi. Mi sporsi per vedere quanto ero distante. Distinguevo chiaramente i bersagli. Mirai col fucile a quello più vicino. Sparai. Vidi la sua gola esplodere e i compagni girarsi di scatto. Una raffica di proiettili di Jason li costrinse a cercare riparo. Uno rimase ferito ad un braccio. Eravamo entrati in una situazione di stallo, ma sicuramente gli altri due erano in arrivo. Ci spostammo verso est garantiti dal fuoco di copertura che poteva darci il fucile di Jason. Rientrati in una zona più folta evitammo di sparare, per non delineare la nostra posizione.
Vidi gli altri due cinesi arrivare vicino alla rupe dove stavamo prima. Feci un cenno al mio compagno. Stavano seguendo le tracce che ci siamo lasciati dietro, attendemmo il loro avvicinarsi. Presi la pistola per avere la possibilità di sparare più colpi. Arrivarono a portata di tiro. Demmo vita all'inferno. Non riuscii a contare i colpi che sparai, ma vidi i loro corpi contorcersi colpiti da due fuochi e poi accasciarsi inermi. Non sapevo quanto di tutto questo era dovuto alle nostre capacità e quanto alla fortuna, fino a quel momento, ma fatto stava che ci portammo in parità numerica.
Guardai i due cadaveri nascosto dietro al mio albero. Uno dei due era quello col naso lungo, ben gli stava.
Scorsi a guardare i due rimasti in riva al ruscello. Erano spariti. Avevano deciso di addentrarsi fra le fronde per prenderci di sorpresa a loro volta. Ci spostammo di nuovo. Attimi di tensione interminabili. La cosa stava prendendo una piega troppo lunga. Tremavo e facevo fatica a tenere il dito fermo sul grilletto. Ci ritrovammo vicino alla riva del ruscello. Il mio sguardo cadde sulla mia mucca, se ne stava lì in mezzo a quello spiazzo impaurita e senza capire cosa stava accadendo.
Persi la pazienza. Andai allo scoperto e sparai al cielo per attirare la loro attenzione, dopodiché andai a nascondermi in una delle loro tende. Vidi Jason guardarmi male per tanta noncuranza. Ma non importava, dovevamo finirla. Lui rimase al suo posto. Sparai di nuovo verso l'alto.
Ne vidi uno arrivare dalle parti del mio compagno. Sparai in fretta, mancandolo. Jason capì e sfruttò il momento nel quale il cinese si girò verso la tenda, per piombargli addosso e infilargli il pugnale nelle tempie. Tornò a nascondersi. Guardò verso di me e mi segnalò di aver visto l'ultimo muoversi dietro la tenda. Sparai di nuovo in alto e andai a piazzarmi sul fondo della tenda. Feci un piccolo buco, con l'ascia, per vedere fuori. Vidi i suoi piedi dietro l'albero più vicino. Sparai e lo stesso fece Jason, che decise di tenere il fuoco vivo. Squarciai la stoffa con l'ascia e corsi verso l'albero, sfruttando il fuoco di copertura. Un proiettile del cinese mi sfiorò. Girai dietro l'albero e sparai con la pistola due colpi. Lo colpii al fegato. Cadde seduto con la schiena appoggiata al tronco. Diedi un calcio e allontanai la sua arma. Era il cinese col muso schiacciato che mi aveva dato un calcio.
« Sono venuto a riprendermi la mucca » dissi freddo. « Ora non fai più lo stronzo ».
Sparai un colpo in mezzo ai suoi occhi increduli. Infierii con l'ascia. Fendente dopo fendete, il suo sangue mi schizzava addosso, come quello del primo che uccisi. Il sapore della vendetta mi rendeva felice. Quando persi il fiato, lui era irriconoscibile.
Mi sdraiai esausto. Jason arrivò di corsa, guardò il cadavere schifato. Mi diede una mano a rialzarmi. E mi accompagnò verso il fuoco. Prendemmo un attimo il fiato insieme, in silenzio. Poi mi alzai e andai verso la mucca. Lui mi seguì.
« Brandon » mi chiamò. « Immagino che questo è un addio »
« Sì, lo è »
« Potrei accompagnar... »
« No, è stato abbastanza » dissi secco. « È bastata la comparsa di un uomo per trasformarmi in una macchina omicida. Non ne voglio più sapere »
« Beh, permettimi di salutarti almeno »
« Va bene » acconsentii.
Si avvicinò per darmi la mano.
Puntai la pistola e gli sparai in faccia. Cadde all'indietro morente.
« Idiota » insultai. « Pensavi davvero che ti lasciassi andare, rischiando che tu dicessi a qualcuno dove trovarmi? ».
Mi lavai la faccia nel ruscello per pulirmi dal sangue. Presi la mia mucca e mi incamminai verso casa. Tornai verso la pace che mi ero costruito, lasciandomi alle spalle guerra e morte.
Tornai verso la mia amata solitudine.
Tornai a fare l'eremita, insieme alla mia mucca.
 

Snorlite

Fetta di torta
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Ponty

Una storia d'amore ai tempi delle funzioni

Noia. Una condizione esistenziale abbastanza fastidiosa che può intercalarsi fra te ed il tuo obiettivo. Poiché, seppure è giusto considerare il continuo struggersi per raggiungere l'obiettivo come qualcosa di appagante di per sé, è anche vero che tendere a raggiungere un obiettivo basandosi solamente sulla propria forza di volontà, sapendo che le possibilità sono bassissime, beh, porta in un certo senso ad una condizione di apatia, mancanza di compiere qualsiasi azione, tranne domandarsi "perché continuo nel mio percorso"?

Però è meglio non pensarci. Si, decisamente. Riflettere su qualcosa del genere mi porterebbe soltanto ad allontanarmi dal mio obiettivo. Sviarmi causerebbe enormi danni, probabilmente irreparabili. La fermata non è contemplata, è una corsa per la vita, una corsa per la conquista del tesoro più grande che una eventuale presenza ancestrale ci ha messo a disposizione, l'Amore. Da un certo punto di vista mi lamento, pensando "hey, un Dio del genere potrebbe realmente esistere? Farmi sgobbare in questo modo è abbastanza maleducato da parte sua", però poi, riflettendoci un attimino in più, mi rendo conto che se veramente esiste un essere del genere, la testimonianza più grande è proprio rappresentata dal sentimento d'amore. Potreste cercare tutte le spiegazioni, reazioni chimiche, impulsi elettrici, a me sinceramente, poco importa di queste quisquilie. L'importante è il fatto indissolubile, che io la ami. Ma non chiedetemi giustificazioni filosofiche, o spiegoni sul perché io ami proprio lei, non sarei capace di pensare in modo così profondo. D'altro canto, io sono solo una funzione.

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La nuova giornata ebbe inizio, ma in realtà per Limmy la giornata non era mai cambiata. Lei era sempre là in alto, a far da Dio scrutinatore, esaminava dall'alto il tentativo del suo caro amico, o forse rappresentava qualcosa di più... chissà! Neanche lei riusciva a comprendere benissimo quel sentimento di trepidazione, non riusciva a spiegarselo, le sembrava di perdere la retta via ogniqualvolta lui le rivolgesse la parola. Non avendo nessun altro con cui parlare, stava lì, a ragionare sulle casualità dell'esistenza. Quante possibilità c'erano di finire in una situazione simile? E di trovarsi vicino a qualcuno di quello stampo, di quel vigore, di quella forza? Probabilmente le probabilità rasentavano lo zero, o forse qualche altro numero. Limmy non era brava in matematica, sapeva che quello era il suo posto, e non si era mai posta domande, le bastava esser lì, esistere, e farsi quattro chiacchere di tanto in tanto. Molti la avrebbero potuta prendere per stupida, ma in realtà, quello anormale era Funz. Sapeva che la normalità consisteva nel non porsi domande, nell'obbedire al destino beffardo che li aveva relegati su quel foglio, eppure non riusciva a comprendere il motivo per il quale era a conoscenza di tutte quelle cose. Era come se fosse stata segnata alla nascita, da una sorta di imprinting matematico. Ma per oggi, Limmy aveva già speso fin troppe energie mentali a riflettere su questioni superflue, o così le parse. Era meglio andare a parlare un po' con Funz.

"Hey Funz! Come te la passi?" Chiese Limmy dall'alto. Una situazione un po' ironica, visto che Limmy era distante da Funz uno spazio così infinitesimale da essere indistinguibile ad occhio nudo, eppure quel muro invisibile ma invalicabile continuava a pesare su di loro come un monito atto a ricordare loro che così nacquero e così dovran vivere per il resto della loro esistenza. A rendere il tutto ancora più imbarazzante, era l'altezza a cui si trovava Limmy. Infatti, era sempre un passo avanti, sempre in una posizione più in alto rispetto al suo caro amico, e volente o nolente non poteva smettere neanche lei. Ma Funz non si era mai sentito in soggezione, anzi, ciò gli aveva dato la carica giorno dopo giorno, e sembrava che questa sensazione continuasse a pervadere ogni punto della sua linea sin dal loro primo incontro.

"O-Oh... Ciao Limmy. Come te la passi? Eh... io sto faticando. Ancora, si. Purtroppo ciò mi tocca! Ma oggi mi sento un passo più vicino di ieri, lo sai? Potrà sembrarti ripetitiva come affermazione, ma ti giuro, non è solo una mia sensazione, sento che la distanza tra di noi si sta lentamente accorciando... è un segno del destino! Ehm... sempre che a te vada bene."

Funz rispose, un po' agitato, non era molto abituato a reggere la tensione. Era uno dei suoi difetti che agli occhi di Limmy lo rendeva fuori dagli schemi, l'incognita che, seppure rovinando l'equazione, è ciò che maggiormente attira l'attenzione. Però Limmy lo sapeva, a Funz non piaceva vantarsi di se, giusto quel minimo necessario per autogiustificare la sua corsa infinita, e poi stop. Il resto della conversazione doveva essere unilaterale, dedicato completamente a ciò che Limmy aveva da dire. Era la sua linfa vitale. Niente riusciva a tirargli su il morale se non qualche sogno fatto da Limmy durante la notte.

Perché, anche se non sembra, ogni elemento matematico sogna. Dai limiti, alle radici, agli integrali. E' tutto quello che hanno. La notte arriva per tutti. E seppure sono bistrattati come semplici segni inanimati su fogli di carta, quando gli va bene e non sono un ammasso di pixel cancellabile con un tasto, hanno ottenuto il diritto di sognare. Ironico vero? La parte migliore della loro vita era il momento in cui si estraniavano dalla loro stessa esistenza. Ma cosa sognavano? Beh, i sogni sono materiale classificato, non possono mica essere spifferati in giro come un nonnulla.

"Ti piacciono così tanto? Io non li trovo mai nulla di speciale. Vabeh, magari ci prenderai ispirazione inconsciamente, chissà! Ultimamente non ho sognato niente di eclatante, sai, la solita sbobba melensa che noi ragazze tendiamo a sognare ogni tanto... Ah aspetta, un bel sogno m'è venuto effettivamente, ma lo classificherei più come incubo. Vuoi sentirlo lo stesso?" Limmy rispose con nonchalance, a differenza di Funz, era abile nell'utilizzo delle parole, e non aveva alcuna remora nell'esprimere i suoi pensieri, specialmente con un amico, o forse qualcosa di più, come Funz.

"A me le storie cupe son sempre piaciute di più a dirla tutta. Sono tutto orecchi" aggiunse quella misantropica funzione.

"Beh sai... ho sognato di trovarmi in una enorme prateria bianca, divisa in quattro grossi quadranti da due enormi rette... come Atlante tenne su di se il peso del mondo, probabilmente loro permettono al nostro universo l'espansione continua di cui necessitiamo per il nostro continuo sviluppo. E non ero sola, c'eravamo tutti, incluso te. Tutti i simboli, tutte le lettere, tutte le incognite e le costanti. E ridevamo, oh se ridevamo. Alcuni piangevano dalla gioia, perché eravamo liberi di muoverci. Nessuna regola a contenerci, nessuna strada da rispettare, eravamo noi Limiti di noi stessi." Una breve pausa in cui un silenzio tombale calò sulla scena. Con Funz che andava via via a preoccuparsi se chiedendo a Limmy di raccontare quella storia non le avesse fatto uno sgarbo, o peggio l'avesse messa faccia a faccia qualcosa che aveva deciso di lasciarsi alle spalle.

"Hai mai pensato di morire, Funz?" Una domanda inaspettata, che avrebbe mandato nel panico qualsiasi altra esistenza, organica e non. Ma Funz, no, lui era troppo anticonformista per uniformarsi alla massa in un momento del genere.

"Beh sai, ci ho pensato, eccome se ci ho pensato. Mi son spesso domandato chi me lo facesse fare. Ad un certo punto avevo anche pensato di mandare a cagare tutto, teoremi assiomi e corollari, e decidere per conto mio del mio destino. E' giusto che qualcuno decida per noi, che qualcuno ci abbia regalato il fantomatico dono dell'esistenza senza che noi stessi glielo chiedessimo? Sinceramente mi sono interrogato per un bel po' di tempo su ciò. E ti rispondo con un sincero: non lo so. E quindi nel dubbio, avrei agito di testa mia perchè va bene essere ligi delle reogle, ma c'è un limite a tutto. A costo di morire? ma ci metterei tranquillamente la firma!"

Limmy era completamente shockata. Cosa avrebbe dovuto fare? Non aveva mai visto questo lato di Funz. Era a tratti affascinante, ma non c'era tempo di mettersi a contemplarlo, la situazione sarebbe potuta degenerare da un momento all'altro... "Ok Funz ho detto una cazzata, adesso smettila di pens-" Una brusca interruzione era avvenuta, non era mai successo che Funz prendesse le redini della discussione. Un sentimento di angoscia stava iniziando a nascere all'interno di Limmy, insieme ad una brutta, bruttissima sensazione.

"Due secondi, vorrei finire. Dicevo, sinceramente non ci penserei 2 volte a farmi fuori se potessi, anzi sarebbe anche una liberazione, ma sai cosa vuol dire tendere continuamente, infinitamente, seguendo una direzione prestabilita? Una NOIA mortale!

Eppure c'è qualcosa che mi ha fermato, e sai cos'è? Sei tu. Non sono mai riuscito a compiere quel passo fatale, perché la speranza di incontrarmi con te ha sempre preso il sopravvento, proprio nell'ultimo minuto in cui pensavo che tutto fosse ormai perduto. Se uccidendomi dovessi perdere la mia vita, ci starei tranquillamente. Ma se ciò significasse buttare via l'opportunità di incontrarti... purtroppo non riesco a farlo."

Funz non era triste, non piangeva lacrime d'amore, era semplicemente dispiaciuto di aver tirato in ballo quell'argomento. Ma rispondere onestamente era sempre stata una delle sue prerogative, e sentiva l'impellente bisogno di dire la sua sulla questione. Limmy dal canto suo era rimasta colpita. Si, colpita dalla stupidità di Funz. Ed in quel momento comprese il suo sentimento d'Amore. Perché sotto sotto sapeva che Funz non sarebbe mai riuscito ad incontrarsi con lei, e Funz stesso era conscio di ciò, ne era certa. Eppure continuava, imperterrito, nella sua corsa contro le leggi della matematica, per farle piegare alla forza dell'Amore. Un Amore basato sulla distanza. Una distanza incolmabile, ma proprio per questo motivo, proprio perché andando contro ad ogni possibilità, credendo soltanto nelle proprie convinzioni, in quel preciso istante, quell'Amore si sublimava nel sentimento più puro di tutto il creato. Ed in quel momento Limmy capì che se entrambi potessero provare un sentimento del genere, alla fin fine, a loro andava bene così.

"Certo che ne pensi di roba strana tu. Non saprei sinceramente come risponderti. Ti va bene se ti dico che ti amo? Continua a correre, e non fermarti mai. Perché l'inseguimento del desiderio è l'innegabile, inconfutabile prova che siamo dopotutto degli esseri umani."
 
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