Dxs
Var
Quel giorno la porta della casetta di legno ruotò sui cardini molto presto. Ragnar e Olof ne vennero fuori con qualche sbadiglio, saggiando la penetrante aria invernale che irrigidiva i vetri delle finestre venandoli di ghiaccio. Ragnar tirò su con il naso, ruttando e passandosi due dita sulla lunga barba bionda, ancora macchiata da qualche residuo di idromele. Gettò uno sguardo al ragazzo, e in un cenno di intesa i due si avviarono lungo la Sprengisandur, le canne da pesca in spalla e due piccoli contenitori rettangolari nelle mani libere, dove tenevano ami ed esche. L’Islanda era ancora immersa nella sua fatale stasi perenne: il cielo era trapunto di stelle in dissolvenza, mentre la luna cedeva placidamente il posto al sole, che pure, i due lo sapevano, avrebbe faticato anche quel giorno a farsi strada fra le tenebre da cui era oppresso. Olof pensò che c’era una sorta di essenza connaturata al suo piccolo cerchio di mondo in cui viveva: una melanconia dolce come la voce di un violino, la cartina al tornasole dei sogni dell’umanità. Aveva solo una vaga idea di ciò che poteva accadere lontano dall’isola, non avendo mai messo piede fuori; il vecchio televisore che tenevano nella casa non funzionava tanto bene, e Ragnar non si era mai dato la pena di aggiustarlo. Diceva di odiare quello che, a sua detta, era un pudore sociale che la civiltà aveva trascinato con sé durante la sua ascesa, e ora aveva infettato come un morbo virale quasi ogni angolo del pianeta. Meno sento, meglio sto, gli era stato ripetuto più e più volte, quando Ragnar decideva di prendere la parola dopo un notiziario.
« Cavalco, cavalco, cavalco sulla sabbia
il sole sta tramontando dietro Arnarfell.
Da queste parti ci sono molti sporchi spiriti
perché sta facendo buio sul ghiacciaio.
Signore, guida il mio cavallo,
l'ultimo tratto di strada sarà difficile.
Sssh! Sssh! Sssh! Sulla piccola collina correva una volpe
la sua bocca asciutta vuole essere bagnata con il sangue.
O forse qualcuno stava chiamando
con una voce maschile stranamente oscura.
Fuorilegge a Ódáðahraun
stanno forse radunando alcune pecore segretamente.
Cavalco, cavalco, cavalco sulla sabbia
sta facendo buio su Herðubreið.
La regina degli elfi sta imbrigliando il suo cavallo
sarebbe meglio non incontrarla.
Darei il mio migliore cavallo
per raggiungere Kidagil ».
Olof lasciò che Ragnar terminasse la sua ode mattutina. Era una tradizione, e lo avrebbe seccato molto non mantenerla.
« La buona vecchia Á Sprengisandi » commentò Ragnar, soddisfatto. « Siamo vicini, Olof ».
Olof lo seguì. Le acque del fiume Skjálfandafljót si infrangevano per una decina di metri nel ventre delle cascate di Goðafoss, in un fortissimo riverbero etereo. Per quel che ne sapeva, Olof era nato lì. O caduto, come Ragnar gli faceva spesso notare. Ma qualunque fosse la risposta alla sorte che gli era toccata, quei luoghi desolati bagnati dal canto del silenzio rimanevano, concreti e reali, e tanto ad Olof bastava. L’acqua che scintillava tenue, i merluzzi che schizzavano in ogni direzione, lo sfavillio del ghiaccio che si rifletteva nelle sfumature della cascata... Olof, immancabilmente, si aprì in un largo sorriso.
« Di qui, Olof ». Ragnar lo esortò.
Si avvicinarono al suo costone di roccia preferito, dove si aprivano due piccole faglie in prossimità del fiume, l’ideale per stare seduti abbastanza comodi e catturare qualche preda. Betulle, abeti e pini occupavano i dintorni della zona, vecchi guardiani dai tronchi pieni di cicatrici ai quali la terra brulla aveva concesso asilo. Gli aghi dei pini erano così intirizziti a causa del freddo da sembrare, da quella distanza, grossi spilli acuminati. I due si affacciarono sulla superficie dell’acqua, che rimandò appena indietro i profili dei loro volti. C’era quello di Ragnar, duro, con una fronte da cavernicolo, il naso leggermente schiacciato, i folti capelli crespi e la barba che avrebbe potuto avvolgergli il collo; e quello di Olof, allampanato, più giovane, senza barba e con un unico ciuffo di capelli corvini. Non esattamente la fisionomia di un islandese che vive a nord dell’isola, si era sempre detto fra sé e sé.
« Su, sbrighiamoci » proseguì Ragnar, schiarendosi la voce.
Lasciarono che le esche attaccate agli ami infrangessero delicatamente il pelo dell’acqua, per poi sistemare le canne da pesca sui loro sostegni. Uno stormo di pulcinelle di mare, gli stridii festanti che arrancavano nelle loro stesse scie luminose, invasero l’aria come mille ragnatele che luccicavano nel vento. Le seguirono con lo sguardo, infagottandosi meglio che poterono nei loro cappotti, e attesero. Olof considerò che in un’attività come la pesca uno imparava a fare i conti con il tempo. Imparava a trattarlo, a meditarci costantemente, ad osservare le numerose facce di quell’unico prisma. In genere, con lui il tempo sapeva essere infruttuoso: quel tempo che con la sua docilità tossica si insinuava nei percorsi del cervello disvelando gradualmente l’amara verità di non aver catturato niente. Per Ragnar era diverso: lui era un pescatore esperto. Poteva anche aver imparato a pescare con Odino, Thor e Freyr, per quanto Olof ne sapeva.
« E se mi chiedi perché amo la pesca, Olof » disse Ragnar, estraendo un’altra bottiglia di idromele da una tasca del suo immenso pastrano, « ecco a te la risposta. Salute ». E bevve.
« Ti piace proprio quell’idromele, Ragn » rilevò Olof, accucciato nel suo minuscolo incavo di roccia con le ginocchia strette vicino al petto.
« Bevo la bevanda degli dei alle cascate degli dei ». Ragnar fece spallucce. « Mi sembra un atto di educazione per tutta quella gentaglia che ci guarda da lassù, eh? » Ruttò di nuovo, stavolta più sonoramente.
« Non c’era un unico Dio, per te? »
« I fatti non ci lasciano altra spiegazione ». Ragnar tracannò un altro sorso di idromele, prima di raccogliere un lupino che ondeggiava piano accanto alla suola della sua scarpa. Accarezzò con una delicatezza sorprendente, per le sue dita rudi, le infiorescenze pervinca che correvano lungo lo stelo del fiore. « Sai perché le cascate di Goðafoss sono dette le cascate degli dei? »
« Un... Qualcuno un giorno decise di rendere il Cristianesimo religione ufficiale dell’Islanda, mille anni fa, giusto? E... E gettò le statue degli dei dell’antico nord nella cascata ».
« Corretto » approvò Ragnar.
Olof sospirò. Non gli piaceva essere messo sotto esame, ma alle volte capitava. C’erano tanti libri nella casa dove vivevano. Aveva da sempre memorie degli scaffali polverosi che traboccavano volumi di ogni sorta, dalla fantascienza alla filosofia, passando per le biografie di guerra di qualche soldato americano, le storie d’amore di Emily Brontë e i gialli di sir Arthur Conan Doyle. Ragnar, se non pescava, leggeva. Diceva che rigettare se stessi in un libro era una forma di oblio seconda solo al sonno e alla morte. Una volta, Olof gli aveva domandato se avesse mai scritto nulla, ma la risposta di Ragnar era stata categorica: non c’è ragione di scrivere, Olof. Scrivere è una profanazione. Se io proiettassi le idee in cui credo integralmente su un pezzo di carta, ecco, quelle idee conterebbero meno per me. Era stata una risposta ambigua, come era Ragnar la maggior parte del tempo. E nonostante fossero trascorsi anni, Olof aveva sempre rimuginato sull’intensità di quelle parole. Non parlavano mai troppo, in casa, e lo stesso valeva per la pesca. Olof si era ritrovato spesso ad aprirsi più con il signore a cui vendevano il pesce alla stazione commerciale nei pressi del vulcano Hekla, che non con Ragnar e i suoi lunghi raccoglimenti meditabondi. Ecco perché, quel giorno, erano stati toccati picchi di eloquenza raramente esplorati prima.
« E tu, Olof? Credi in Dio? »
Olof inarcò le sopracciglia. Ragnar non lo stava guardando: teneva gli occhi fissi sulla parete del cielo, oltre le montagne, dove i primi screzi luminosi strappavano la coperta della notte. Piano piano, le nuvole si stavano facendo meno dense, schiudendosi attraverso la bruma lattiginosa. Faceva troppo freddo perché il vento potesse anche solo esalare un respiro; persino le pulcinelle di mare avevano arrestato il loro corso, abbarbicandosi sui rami di una betulla. Olof contò i loro becchi colorati, prima di dare una risposta. Quegli strani incroci fra un uccello e un pinguino gli avevano sempre suscitato simpatia.
« Non so. Se Dio c’è, sembra quasi che si sia dimenticato di questo posto ».
« Tu dici? A me sembra il contrario ».
« Non fraintendermi, io... Sono felice di vivere qui. Ma è tutto così buio. Immobile. Come se la luce del mondo risplendesse altrove, e noi vivessimo in penombra ».
« Ti avevo capito benissimo, Olof ». Ragnar sorrise. « E continua a sembrarmi il contrario ». Annuì a se stesso, battendosi una manona sul ginocchio. La canna da pesca tremò appena sul suo sostegno.
« E allora perché... » tentò di dire Olof, ma l’altro lo interruppe.
« Non so se ci sia un Dio, ma se c’è, be’, penso che l’averci assegnato a questo posto ci renda dei privilegiati. Terre come questa ricordano ad una persona che cosa è ».
« Non ti seguo, Ragn ».
« Non lo so, Olof. Pensa a quegli uomini incravattati che abbiamo visto al telegiornale, la settimana scorsa ».
Olof se li ricordava: figure longilinee, tutte uguali, gli abiti inamidati, scuri, le scriminature dei capelli perfette, le scarpe laccate, le ventiquattrore alla mano. C’era stato un meeting dalle parti di Reykjavík, e quegli uomini provenienti dall’America vi avevano preso parte per questioni di governo. Ad Olof, dalla piccola finestra quale era la sua mente, erano parsi così indaffarati, presi da ragioni più grandi, assuefatti da un caldo cerchio di umanità che a lui non era mai appartenuto.
« Sì. Me li ricordo » rispose. Quale problema avrebbe mai potuto rappresentare il non riuscire a catturare uno stoccafisso da vendere per guadagnare qualche corona, quando a pochi chilometri da lì si discuteva del destino economico della nazione?
« Ecco, vedi, io credo che, Dio o no, la spiritualità sia importante per un uomo. Io credo che le coscienze di quelle persone abbiano preso il sopravvento su di loro. Che siano più consapevolezza che anima, oramai. E questo accade in ogni parte del pianeta, sai, mentre la civiltà fagocita gli ultimi scampoli di noi stessi che ci sono rimasti ». La voce di Ragnar tracimava amarezza. Rigurgitava rancore.
« Continuo a non seguirti ». Olof spalancò un po’ di più gli occhi. Quei discorsi, oltre al fatto che Ragnar pareva leggergli nel pensiero, lo spaventavano, e aveva sempre avuto il sentore che aleggiassero come spettri attorno alla figura dell’uomo. Ora, totalmente all’improvviso, stavano assumendo precisa consistenza.
« Vedi, Olof, sono tutti così sicuri del proprio essere reale. Qualcuno li ha proiettati fin qui, e ora la loro esperienza sensoriale ha costituito un individuo unico, dotato di uno scopo. Tutto questo è per me! Sì, Dio, grazie di rendere il mio destino indimenticabile! Questo è quello che si raccontano. Così sicuri di essere più che una somma di bisogni. Desiderio e ignoranza, Olof. Con la morte, poi, tutti i fili cadono. Capisci che tutto questo dramma, in cui ti sei agitato furiosamente mentre eri solo pulviscolo, è sempre stato e sempre rimarrà un grande sogno. Non devi aggrapparti così forte alla vita. Ti lasci andare. Tutto termina. E ti senti meglio. Rilassato ».
Ragnar chiuse gli occhi, assaporando la brezza della sua Islanda. Due pulcinelle di mare si staccarono dal ramo, dando vita ad un buffo inseguimento a mezz’aria. I frulli delle loro ali riempirono per un po’ quel silenzio ovattato, finché Olof non trovò la forza di controbattere. Con una fitta di ansia, immaginò se stesso di lì a trent’anni, in compagnia di quel vecchio lacustre e solitario, a condividere una solitaria galletta nella loro casa, trasformata in una catapecchia erosa dal tempo. Due fragili dorsi ripuliti dalla tragedia di non essere andati più in là dei loro nasi, di non aver avuto la costante preoccupazione che, là fuori, c’erano altri cuori che pulsavano. Altra gente e altre coscienze.
« Non pensavo fossi così pessimista, Ragnar ».
In realtà, lo sapeva. Le tonalità più cupe che lo spettro di colori della personalità di Ragnar abbracciava erano sempre state lì, a stratificarsi nel corso degli anni. Sin da bambino, Olof tratteneva, impressa, quella faccia burbera, i lineamenti rozzi nei quali la barba aveva affondato le sue radici, il cipiglio rabbuiato quando c’era un passo di un libro che non lo trovava d’accordo. Il suo scrittore preferito era Dostoevskij: aveva raccontato a Olof di amare quel miscuglio di distruzione ed eroicità al contrario che caratterizzava i personaggi di Dostoevskij. Erano tutte figure che aveva oltrepassato un limite, secondo Ragnar: assurte a ranghi semidivini, animati da una passione per l’estremo che lo aveva sempre affascinato.
« Filosoficamente mi definiresti così, forse » replicò Ragnar. « Ma ritengo solo di essere una persona lucida, Olof. Di avere avuto l’incommensurabile fortuna di essere arrivato a vedere l’essenza delle cose, e proprio per tale motivo, in qualche maniera, sono certo che sarei andato a cercarmi esattamente un posto come questo, per vivere, se non ci vivessi già. La lucidità, in fondo, è la qualità eminente di una persona, non trovi? »
« Non saprei, io... »
« La qualità per eccellenza. Quella di una persona che ha compreso, Olof. Nella vita, ci sono veramente poche persone che hanno compreso. Tu sei giovane. Sul tuo cammino avrai ancora molto da vedere, scoprire... Ti renderai conto da solo, un giorno, di aver stretto conoscenza con gente talentuosissima. Grandi scrittori, artisti, persone che eccellono in ciò che fanno, e che non valgono niente. Al contrario, incontri qualcuno per strada, in un bar... Ed è una rivelazione, una persona che ha approfondito, e ciò è terribilmente interessante, sai, anche sul piano religioso... » Un altro sorso di idromele. L’invettiva di Ragnar si stava facendo sempre più appassionata e intensa.
« ... Le persone più interessanti che ho incontrato in vita mia non hanno avuto una formazione intellettuale completa, sai. Eppure devo a quelle persone un debito di riconoscenza, perché è grazie a loro che so chi sono. E potrà sembrarti pretestuoso che un pescatore si esprima in questi termini, ma vedi... È stato quasi automatico adattarmi perfettamente a questa vita. Stare in disparte, rispetto all’agire, agli atti, il circolo dell’esistenza... E a me sta bene ».
La bottiglia era quasi terminata. Le due pulcinelle di mare, sempre più bellicose, svolazzavano in circolo attraverso il corpuscolo che danzava a qualche metro dal letto del fiume. La rugiada era scivolata sulle rocce, rigandole di fresco. Olof si guardò le punte dei piedi. Quei discorsi, ogni volta, lo puntellavano di dubbi cosmici. Veniva rigettato in un sorta di limbo cronico, dal quale non riusciva a venir fuori. Ad esempio, una decina di anni prima, aveva deciso di regalare qualcosa a Ragnar per il suo compleanno. Era stata un’idea spontanea, nata dai suoi più ingenui impulsi da bambino; così, aveva rimediato un pezzetto di legno quadrato, e cominciato ad intagliarlo faticosamente notte dopo notte, in vista del grande giorno. La lama del coltello aveva ritagliato i contorni del viso, scavato gli occhi, inciso le guance e le orecchie, tracciato una bocca sorridente, un arcobaleno al contrario. Olof aveva trovato della paglia consunta fra i resti del caminetto, e l’aveva utilizzata per realizzare la barba e i capelli. Alla fine, il piccolo alter ego in legno di Ragnar aveva preso vita fra le ceneri ammantate della casetta, durante le soffuse albe che Olof aveva vissuto da insonne. La fatidica mattinata, al rientro di Ragnar dalla stazione commerciale, il dono faceva capolino dalla superficie del tavolo, fra il cesto della frutta e la bottiglia vuota di idromele, in spasmodica attesa. Olof aveva spiato tutta la scena da uno spiraglio della cucina; lo sguardo sommerso, il pigiama troppo largo, gli occhi traslucidi, il cuore che vibrava un colpo dopo l’altro all’interno della cassa toracica. Ragnar aveva solo borbottato qualcosa prima di intascare l’oggetto, confinato alla prigione del suo pastrano. Aveva incassato la sua sagoma nella poltrona sfondata, affrancato dalle fatiche, il cimelio già dimenticato. Probabilmente se ne era sbarazzato il giorno successivo. Olof non ebbe mai la forza di fargli gli auguri o domandare chiarimenti. E ora si ritrovava lì, incavato in quella pietra decorata dalla rugiada come Ragnar e la sua poltrona. Di colpo, non seppe chi era, ma solo che aveva molta voglia di calpestare quel riflusso acido di affermazioni.
« Io invece voglio viaggiare. Cercare qualcosa per cui una fiamma mi bruci dentro, Ragnar. Io... So di essere stato molto fortunato, arrivato fin qui. Ma è solo l’inizio del viaggio, non posso pescare per sempre, e se tu te lo fai bastare be’, io invece... » Olof aveva gli occhi sonnambuli di chi si è innamorato del mondo.
« Ti fermo subito, Olof ». Un angolo della bocca di Ragnar si arricciò, scoprendo una serie di denti irregolari. Denti che avevano ingoiato l’inferno. « Non ho la presunzione di importi nessuna convinzione. Non ho con me quel senso di responsabilità che mi lega agli altri, mai avuto... » Scosse la testa. « Però ci tengo a metterti in guardia. Io sono vecchio. E giunto a quest’età, anche il cinismo, come attitudine, viene meno... È la vita. C’è una specie di logorio intrinseco accompagnato all’esistenza, Olof. Tutto invecchia, appassisce, si raffredda. I colori, le gioie, i sentimenti, le luci, le verità... Nel momento in cui ogni cosa assume una forma, ecco che il caos, la volatilità, se la porta via. Il tempo la usura. Odi un nemico un giorno, quello dopo dimentichi cosa ti ha fatto. Vuoi averlo perdonato, ma è solo e sempre quella vecchia, solita usura che ti ha offuscato la memoria. E sta tutto qui, Olof. Mediocre quest’esistenza, non è così? Non ci trovo niente di male nella mediocrità ».
« Tutto qui? Dovrei ritenere la vita insopportabile? Smettere di essere felice? A sentire te la felicità è una specie... Non lo so, un narcotico, qualcosa che ci seda, che ci rende ciechi davanti alle cose, e... È questo che pensi, Ragnar? Sul serio? »
« Tu mi vedi infelice, Olof? Io ho tutto questo ».
Un cenno del capo di Ragnar aprì il sipario su quell’alba. La natura trattenne il fiato.
« Tutto questo ». C’era del biasimo nella voce tremante di Olof. « Dimmi, Ragnar. Quella notte, tanti anni fa... Ti sei pentito? Forse sarebbe stato meglio ignorarmi, lasciare che morissi al gelo? Non aprire la porta di casa a... A un neonato abbandonato senza nome né famiglia, di cui nemmeno a Dio importava niente... » Alcune lacrime gli scolarono le palpebre. La mano di Ragnar, intanto, era affondata per la seconda volta nella tasca del pastrano. Le sue unghie sporche grattarono sulla superficie ruvida di quella testolina di legno sulla quale la paglia era stata incollata male, percorsero le incisioni tremolanti, accolsero con calore i piccoli arti tozzi. I pallori cremisi del sole incendiarono le creste delle colline. Gli alberi erano illuminati come una schiera di candele.
« Bevi un po’ di idromele con me, Olof ».