Silvya Plath
L’acqua aveva appena cominciato a scorrermi addosso, formando dei ruscelli che percorrevano ogni frammento del mio corpo. I capelli erano appiccicati alla fronte e le palpebre appesantite dall’acqua quando sentii il telefono squillare.
Dream.
Chiusi di scatto l’acqua e sentii le tubature borbottare con un suono simile ad una campana. Aprii la doccia e mi fiondai fuori e uscito dal bagno per poco non scivolai. Quando arrivai davanti al telefono lo presi in mano con un senso di delusione.
«Pronto»
«Ci hai messo un po’» fece Camilla dall’altro lato del telefono.
«Ero in doccia»
«Lo sapevo, è per questo che ti ho chiamato. Per dirti di non farlo»
«Non mi devo lavare?»
«Michael» la sentii abbastanza spazientita, forse avevo tirato troppo la corda, potete giurarci. Ma non per quella chiamata, eh. Insomma, nessuno si spazientisce per un abattuta. Intendevo negli ultimi giorni, nelle ultime settimane. Da quando ero tornato da Alola, insomma. «Sono molto favorevole al fatto che tu ti lavi. L’ultima volta che ti avevo visto puzzavi di sudore. Ti sto solo dicendo che non devi andare alla ricerca di Dream»
«Hai visto la notifica?»
«Naturalmente, ed è per questo che ti ho chiamato. Non permettergli di giocare con te, chi diamine è per farlo?»
«Voglio solamente fare una passeggiata, ne ho bisogno»
«Michael» ragazzi, avreste dovuto sentire il tono con cui lo disse. La sua voce era un coltello e stavo sanguinando. «Sono due settimane che non esci di casa, e adesso vuoi farmi credere che casualmente, per caso, ti è venuta voglia oggi? Proprio quando quello là dice di essere a Canalipoli?»
«Cosa devo fare? È più forte di me» e lo era davvero. Ma non so cosa fosse più forte di me. Se Dream, la voglia di vederlo o la mia incapacità di controllarmi. Forse tutte e tre le cose. Fu così che chiusi la chiamata e tornai alla doccia.
***
Come diceva Camilla, erano due settimane che non uscivo di casa. Ufficialmente non avevo voglia di farlo, ma combinato con il fatto che non mi lavassi, che era vero, la questione si era fatta molto più complessa. Ma alla fine si dice che il primo passo per risolvere un problema è riconoscerlo, no?
L’orrore di cui vi parlavo nel capitolo precedente è questo qua. Lo chiamavo “principio di depressione”, lo scorsi tra le corsie del supermercato quando tornai da Alola per fare la spesa. Così lo chiamavo. Principio-di-depressione. Lo avevo stabilito in solitaria, senza conoscenze psicologiche o psichiatriche di sorta.
Suonava bene la parola principio. Me lo immaginavo come un embrione, un germoglio, qualcosa che c’era ma che poteva ancora non essere. Evitava di farmi dire “sono depresso” o “soffro di depressione” perché questa parola da sola non viene più riconosciuta come un messaggio importante, una richiesta di aiuto. Abusiamo del termine “depressione”. Siamo depressi anche nelle giornate storte. Ma dire di avere un principio, questo sì che avrebbe allertato le persone a me care. Nessuno dice mai di avere un principio, le menti non dismettono in automatico principio-di-depressione, non è un’espressione comune, non è un modo di dire colloquiale o popolare, impone di pensare, richiede di sezionare ciascuna parola, capirla e comprendere una situazione di disagio. Era quello che speravo.
Ero in un supermercato, come vi dicevo. Avevo afferrato dal tappo una bottiglia di the al limone dallo scaffale mezzo vuoto dal tappo e mi venne in mente quella canzone di Calcutta in cui diceva che la propria ragazza spremeva limonata e non ce la faceva più, no che non ce la fa più, lo ripete due volte all’inizio. E mentre la canticchiavo con tono basso, la mia voce si ruppe. Non stavo spremendo limonata, stavo solamente comprando una dannata bevanda piena di additivi che del limone aveva solamente il nome eppure mi resi conto che non ce la facevo più neanche io. Avevo sentito le lacrime esser pronte per sgorgare fuori. Il labbro inferiore mi aveva vibrato.
Doveva esser fatto tutto nei minimi dettagli. Immaginavo le persone che potessero scorgermi sull’orlo di un pianto. Dovevo agire come una persona normale. Abbassai il capo e guardai il tappo della bottiglia. Girai la bottiglia tra le mani per leggere la scadenza. Sarebbe scaduta a dicembre di quell’anno. Avevo ancora, vediamo. Settembre, ottobre, novembre, dicembre. Quattro mesi. Era già tanto se sarebbe arrivata alla settimana dopo. Sentivo le lacrime calmarsi dietro i bulbi oculari. Volevo esserne certo. La riappoggiai sullo scaffale e mi ero infilato fino alle spalle al suo interno per prendere proprio la bottiglia che era appoggiata contro la parete di alluminio. E in questa frazione di secondo riuscii a fare un respiro profondo. All’esterno, mi ero detto, doveva apparire come un sospiro per la fatica.
Ero uscito dallo scaffale una volta accertato che la crisi fosse passata. Avevo ripreso a guardare il tappo alla luce del neon. Settembre. Poco male. Non sarebbe arrivata alla settimana dopo in ogni caso.
Non avevo voglia di fare la spesa, a dire il vero. Mi ero costretto perché avevo bisogno di cibo se volevo continuare a campare. Sì, insomma, nonostante il principio di depressione che mi si sarebbe svelato solamente nei giorni e nelle settimane dopo, non ho mai avuto voglia di crepare davvero. È una cazzata quella che se sei depresso allora vuoi crepare. Forse non ero neanche depresso, vai a capire. Fatto sta che andai alla cassa a pagare dopo aver fatto la spesa e la tizia mi disse: «Ah, Signor Butt, come sta? Tornato dalle vacanze?»
Sorrisi, e dissi di sì, che Alola era splendida e che c’era un mare pulito-pulito, cristallino. Il problema di essere un Campione di Pokémon è che la gente ti segue sui social, su Instagram o su Facebook e sa tutto quello che fai. E tu glielo devi far sapere perché se no l’agente si lamenta e dice che non si fanno abbastanza public relations. Che vita di merda quella del mio agente. Ti laurei in ingegneria gestionale, passi cinque anni ad esser preso per il culo dagli altri ingegneri perché la tua non è davvero ingegneria e diventi il manager di uno che ha problemi di depressione, ma che non ne è sicuro ma che non lo fa sapere a nessuno, manco alla propria ragazza.
Ero arrivato a casa e dopo aver appoggiato la spesa per terra, davanti ai mobili della cucina mi sentii stravolto. Stanco. Non avevo proprio voglia di svuotare i sacchetti e metterle nella dispensa, così me ne ero andato in camera, in mutande e mi ero sdraiato sul letto. E quello fu il mio abbigliamento per le successive due settimane.
***
Fissavo la maniglia della porta da qualche istante e non so perché. Non che mi aspettassi di avere i poteri telecinetici come quel tizio del giornale. Ma tutto all’improvviso non avevo granché voglia di uscire. E non avevo più voglia di interessarmi a Dream Grant, dico davvero, lo giuro. Aveva ragione Camilla, non mi meritavo di esser trattato così. E lui cosa aveva in più di me per trattarmi in questo modo?
Beh, oddio, ce l’aveva fatta. Il signor Grant rappresentava tutto quello che avrei voluto essere. Ambizioso e sicuro di sé, di successo, consapevole delle proprie capacità, senza paura a farle vedere. Dream era il sogno americano e il destino manifesto messi assieme, la rappresentazione della potenza dell’essere umano. Se fosse stato statunitense, Dream sarebbe diventato Presidente. Se avesse voluto creare computer avrebbe creato la Applesoft, se avesse voluto diventare uno scienziato avrebbe inventato la macchina per il tempo. Aveva scelto di diventare allenatore di Pokémon e ora una sua vecchia figurina valeva circa cinquecento di dollari su eBay per l’album di figurine degli allenatori del 2001.
E mi sentivo piccolo davanti a queste considerazioni. Vi sentireste piccoli anche voi, perché quindi disturbarlo? Perché quindi indugiare in questo raffronto costante da cui non ne poteva uscire nulla di buono? Era chiaro, io non ero Dream Grant. No, ragazzi, non lo ero. Io ero Michael Butt, anche il nome era diverso. Quello che sapevo è che se Dream poteva essere il Presidente degli Stati Uniti, io potevo essere forse il consigliere dello Studio Ovale. Ma questo lo sapevo io, lo sapete voi e lo sanno tutti gli allenatori là fuori. Quando ci si diploma alla Scuola per Allenatori, tutti gli studenti sanno di voler essere come Dream, usandolo come mezzo di riferimento. Dream, non Rosso, di cui nessuno si ricorda più. Io non l‘ho mai conosciuto Rosso, ma la sua morte aveva sconvolto profondamente Dream, dico davvero. Avevamo scoperto della sua morte per caso, guardando il telegiornale in un centro Pokémon di Luminopoli. Si era trincerato dietro un profondo silenzio, non ho mai visto nessuno essere così silenzioso, tranne quando uno dorme. Ma Dream era sveglio, potete giurarci. Io non so se la morte di Rosso lo abbia indotto ad abbandonare la carriera di allenatore di nuovo. Ma quando l’ho rivisto ad Alola gliel’ho chiesto e mi ha detto di no, ma che presto sarebbe andato a trovarlo al cimitero e avrebbe convinto la famiglia a cambiargli sepoltura, che in fondo si meritava una bara più decente.
Io non l’ho mai visto il cimitero di Rosso. Ma sembrava sincero quando diceva che la morte di Rosso non ebbe effetti sul viaggio a Kalos.
Comunque mi girai, lasciandomi la porta alle spalle. Aveva ragione Camilla, non mi meritavo di esser trattato così da Dream. Sapeva che abitavo a Canalipoli, avrebbe potuto scrivermi in qualche modo. Non ero certamente qualche politico che si divertiva a provocare ai tempi della dittatura di Giovanni, no? Eh. Avea tutti i mezzi per contattarmi, sapeva persino dove abitavo. No, non sarei uscito quel giorno e non lo avrei cercato né disturbato.
Pochi istanti dopo ero di nuovo in mutande sul letto.