Sigur Rós

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[SIZE=11pt]4 gennaio 1994. In Islanda, isola alla periferia dell'Europa, costellata di paesaggi brulli, selvaggi e vulcanici, dove fuoco e ghiaccio si mischiano, tre ragazzi decisero di mettere insieme le loro idee e la loro passione per la musica, riunendole in un progetto spiccatamente originale. Al cantante Jón Þór Birgisson (detto Jónsi) si unirono il bassista Georg Hólm (detto Goggi) e il batterista Ágú[/SIZE][SIZE=11pt]st Ævar Gunnarsson[/SIZE][SIZE=11pt]. Per il nome del gruppo, i tre fecero riferimento alla sorellina di Jónsi, nata pochi giorni prima e chiamata Sigurrós (letteralmente "rosa della vittoria", nome piuttosto diffuso da quelle parti). Fu così che, alle soglie del 1994, nacquero i Sigur Rós, band destinata ad emozionare l'intero panorama mondiale di lì a pochi anni. [/SIZE]
[SIZE=11pt]A testimoniare quanto volenterosi fossero all'epoca quei tre artisti e quanto fuoco, nel bene o nel male, bruciasse dentro di loro, vi fu il primo brano in assoluto partorito dai Sigur Rós, che impiegò, per la registrazione, soltanto sei ore di tempo. Il titolo del brano è Fljúgðu ("volare" in islandese), e fu ascoltato e apprezzato da un'altra grandissima artista islandese: Björk. Nonostante lo stile della band fosse ancora acerbo, distante dall'identità che avrebbe assunto negli anni a venire, Björk non poté che venire catapultata in un'atmosfera nuova e particolareggiata, fatta di lunghi viaggi ambient al limite del mistico, paesaggi sonori e orchestrali voli pindarici nell'immaginifico panorama islandese. I tre ragazzini (all'epoca poco più che ventenni) avevano appena trovato un'estimatrice, tanto che Björk decise di pubblicare il loro brano nella compilation che celebrava i cinquant'anni di indipendenza dell'Islanda dalla Danimarca. Nella compilation, Fljúgðu è presente alla posizione numero sedici, e in quella speciale occasione i Sigur Rós passarono sotto il nome di Victory Rose (proprio "rosa della vittoria" in inglese).[/SIZE]
Fu un inizio strepitoso per la band, considerato il sound atipico in cui si intrecciavano alla perfezione la voce eterea e femminea del cantante (caratterizzata da dei falsetti e dei vocalizi a dir poco unici nel panorama musicale di allora e di adesso) e le atmosfere che rievocavano la natìa terra islandese. E probabilmente, fu proprio questa la chiave di volta che permise ai Sigur Rós di arrivare alle luci della ribalta mondiale: la capacità di aver reso accessibile al grande pubblico muri di suono, lunghe suite orchestrali, e una mistura dall'inconfondibile sapore nordico di musica psichedelica, elettronica e shoegaze, capace di trasportare l'ascoltatore in mondi perduti della sua fantasia, lontani e celestiali.
Nonostante tutto, non tardarono a subentrare i problemi per Jónsi e soci: il primo album richiese tre anni di sviluppo, durante i quali i membri della band dovettero sapersi destreggiare fra varie responsabilità che portarono via loro molto tempo. C'erano gli studi di Goggi in Inghilterra, gli impegni di Jónsi con un altro gruppo musicale, i Bee Spiders, e anche la sofferta decisione di Gunnarsson di abbandonare la carriera musicale. Fu così che, pubblicato il primo album Von ("speranza"), la band assunse la sua formazione definitiva (fino al 2013, anno in cui Kjartan si staccò dal gruppo per incominciare un lavoro da solista): il batterista Orri Páll Dýrason sostituì Gunnarsson, e come quarto componente si aggiunse Kjartan Sveinsson (detto Kjarri), già membro insieme a Jónsi dei Bee Spiders e musicista dalle doti eccezionali, capace di suonare una gamma amplissima di strumenti musicali, dalle tastiere ai flauti, dall'oboe al banjo, e così via.
Altri tratti unici dei Sigur Rós risiedono nel vonlenska (hopelandic in inglese e traducibile come "speranzese" in italiano), un'autentica lingua artificiale (più precisamente una glossolalia, ossia la pronuncia di parole in un linguaggio mistico e sconosciuto tramite lunghi vocalizi) utilizzata da Jónsi per caratterizzare in maniera più forte la sua voce, capace di perdersi in questo flusso di evocative sillabe prive di senso, e nel fatto che lo stesso frontman della band utilizzi, nel suonare la chitarra, un archetto, regalato all'ex-batterista Àgúst per il suo compleanno.
Ed è difficile descrivere cosa fu il percorso dei Sigur Rós dal 1997 in poi e quanto questa band sia diventata oggetto di culto per il pubblico e per le numerosissime celebrità annoverate fra i suoi fan. La capacità innata di toccare corde sensibili nell'intimità dell'ascoltatore, di trasportarlo in qualche mondo lontano e sperduto, e la figura di anti-personaggio che Jónsi ha saputo ritagliarsi col tempo collaborano a creare un clima e un alone unico nel suo genere attorno ai tre ragazzi di Reykjavík.
 

Von (1997)

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[SIZE=11pt]1. Sigur R[/SIZE][SIZE=11pt]ós[/SIZE]
[SIZE=11pt]2. Dögun[/SIZE]
[SIZE=11pt]3. Hún Jörð...
4. Leit að lífi
5. Myrkur
6. 18 sekúndur fyrir sólarupprás
7. [/SIZE]Hafssól
8. Veröld ný óg óð
9. Von
10. Mistur
11. Syndir Guðs (Opinberun frelsarans)
12. Rukrym

Nel settembre del 1997, dunque, vide finalmente la luce Von, che in islandese vuol dire "speranza" (e in copertina vede ritratta l'altra sorella di Jónsi, Inga), primo album in studio dei Sigur Rós. Furono tre anni di lavoro assiduo per la band, che intitolarono l'opera con un richiamo simbolico ai loro sforzi per essere giunti sin lì, considerato come avessero pagato lo studio di registrazione riverniciando le pareti dello stesso, e alla possibilità di farsi notare anche al di fuori del circoscritto territorio della loro madre terra. In effetti, nonostante le vendite scarse (solo trecentotredici copie nel suo primo anno di uscita, Von venne ripubblicato una volta che i Sigur Rós ebbero raggiunto il successo internazionale), il nome della band cominciò a circolare nel panorama musicale islandese, ma anche inglese, tanto che nel 1998 vide la luce Von brigði (gioco di parole islandese: vonbrigði vuol dire “delusione", ma von brigði significa "variazioni di Von"), un album di remix che contiene delle rielaborazioni dei brani di Von ad opera di altri artisti islandesi, tra i quali spiccano i Múm.
In Von, più che negli altri lavori dei Sigur Rós, si rendono evidenti l'inesperienza della band (probabilmente legata ad una line-up ancora non definitiva) e un sound ancora un po' acerbo ed oscuro, fortemente legato alle lande desolate dell'Islanda e, più concettualmente, proprio ad un valore familiare di collegamento con tutto ciò che la madrepatria può rappresentare.  
E l'incipit dell'opera, l'autobiografico Sigur Rós insieme alla seconda traccia Dögun ("alba") è un'immersione ambient tenebrosa, un viaggio con sonorità al limite del musicale, in cui i primi, timidi accenni del falsetto di Jónsi si fanno quasi da parte, per lasciare il posto a fragori fumosi, scrosciare di piogge ed eruttare di geyser.
Von accelera allo scorrere delle tracce, raggiungendo interessanti picchi con Myrkur ("oscurità"), Hafssól ("il sole del mare") e la title track Von. Le distorsioni noise delle chitarre si fanno più marcate, il taglio dei pezzi è più rock e maggiormente delineato, capace di trascinare un ascoltatore in un primo momento spiazzato dalla sordità dei pezzi iniziali.
Come non menzionare, poi, la sesta traccia 18 sekúndur fyrir sólarupprás ("diciotto secondi prima dell'alba"), diciotto secondi di assoluto silenzio che spaccano in due l'album, e la straniante Rukrym, frammento di Myrkur ma riavvolto al contrario.
Ad uno sguardo complessivo dell'opera, Von risulta essere un album in cui emergono silenziosamente i primi germogli di uno stile ancora immaturo, ma che non avrebbe tardato a raggiungere la sua completa e tanto celebrata definizione.


Ágætis byrjun (1999)

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[SIZE=11pt]1. Intro[/SIZE]
[SIZE=11pt]2. [/SIZE][SIZE=11pt]Svefn-g-englar
3. Starálfur
4. Flugufrelsarinn
5. Ný batterí 
6. Hjartað hamast
7. [/SIZE]Viðrar vel til loftárása
8. Olsen Olsen
9. Ágætis byrjun
10. Avalon

A seguito dell'uscita e del momentaneo, inconsistente successo (per quanto riguarda le vendite) di Von, i Sigur Rós giunsero, dopo diverse peripezie, al tanto agognato equilibrio a livello di composizione della band, con l'ingresso di Orri Páll Dýrason a rilevare Ágúst Ævar Gunnarsson alla batteria e la preziosissima aggiunta del versatile Kjartan Sveinsson (tastiere, pianoforte, flauti ma non solo).
Fu nel giugno del 1999, allora, che dopo un'altra lunga gestazione approdò al mercato discografico islandese il secondo album in studio della band. Ancora una volta il titolo è emblematico: Ágætis byrjun, in islandese, vuol dire "un buon inizio", e fu proprio questo il commento che venne riservato a Jónsi e compagni da un loro amico, una volta ascoltata quella che poi divenne la title track dell'opera.
Ancor più che rappresentare un buon inizio, Ágætis byrjun regalò ai Sigur Rós una consacrazione tanto repentina quanto, probabilmente, inaspettata: la definizione di uno stile unico e inconfondibile, l'assemblaggio di tasselli che in Von erano mancati, e quell'innata capacità di estendere un'arte all'apparenza occlusiva verso un intero panorama internazionale fecero circolare rapidamente il nome dei quattro ragazzi di Reykjavík in tutto il continente.
L'album (il cui schizzo in copertina è stato disegnato con una penna a sfera Bic) introduce subito l'ascoltatore in certe atmosfere già vissute con Von, ma solo sfiorate: l'immersione, con Ágætis byrjun, è più magica e viva.
Intro, apripista all'opera, non è altro che un contenitore di passaggi in backmasking della title track; dalla traccia numero due, Svefn-g-englar (gioco di parole: il significato sarebbe "sonnambuli", ma englar significa "angeli") si entra negli eterei e trasognati ambienti della band, con la voce quasi fiabesca di Jónsi a fare da perfetto accompagnamento. La sensazione che i Sigur Rós abbiano concretizzato quelli che in Von erano solo dei germogli, piccoli afflati di uno stile unico, è evidente: il risultato fra una concatenazione di sinfonie orchestrali, dream-pop e pura musica ambient è incredibile e straordinario, tanto fragile e lieve quanto irruento e travolgente. Anche Starálfur ("elfo scrutatore") presenta tracce d'inconfondibilità: un saliscendi dolce e melodioso, cullato dalla voce del cantante e contenente delle sequenze palindrome, perfettamente uguali se ascoltate al contrario. Nella sua conclusione, Ágætis byrjun lascia altre impronte decise nel cammino della band: dall'incredibile Olsen Olsen, sorta di potente marcia euforica cantata interamente in vonlenska e caricata dall'iniziale basso di Goggi, passando per la leggiadria e intimità della title track fino ad Avalon, composta esclusivamente da un passaggio strumentale di Starálfur, ma quattro volte rallentato.
Degne di nota furono, pure, le storie dietro a due delle tracce dell'album; per Viðrar vel til Loftárása i Sigur Rós presero ispirazione dalla guerra del Kosovo, conflitto armato svoltosi dal 1996 al 1999: una volta, in una TV islandese, un meterologo disse ironicamente che « í dag viðrar vel til loftárása » (« oggi c'è un bel tempo per i bombardamenti aerei »), coniando involontariamente il titolo del brano. Il particolare cembalo utilizzato in Ný Batterí ("nuove batterie"), invece, fu il punto di partenza per la realizzazione della canzone: i membri della band trovarono lo strumento per strada, probabilmente schiacciato da un'automobile, e da lì partirono, avendone apprezzato il suono.
In tutto questo, Ágætis byrjun lascia il sapore di un sincretismo unico fra il radicale legame che scorre fra i Sigur Rós e la loro Islanda e la definizione di uno stile inconfondibile, una mistura di ingredienti musicali caratterizzati ad hoc e mai banali.
E nonostante tutto, la strada poteva dirsi ancora lunga, e disseminata di elementi ancora nuovi e ancora diversi per un gruppo musicale che, dopo un lavoro del genere, aveva attirato su di sé le aspettative di mezza Europa.
 

( ) (2002)

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[SIZE=11pt]1. Untitled #1 (Vaka)[/SIZE]
[SIZE=11pt]2. [/SIZE][SIZE=11pt]Untitled #2 (Fyrsta)[/SIZE]
[SIZE=11pt]3. Untitled #3 (Samskeyti)[/SIZE]
4. Untitled #4 (Njósnavélin)
5. Untitled #5 (Álafoss) 
6. Untitled #6 (E-bow)
7. Untitled #7 (Dauðalagið)
8. Untitled #8 (Popplagið)

Se Ágætis byrjun aveva lanciato i Sigur Rós verso un successo continentale, a suggellare una reputazione di top band ci pensò il successivo album in studio dei ragazzi di Reykjavík, registrato a seguito dell'ennesimo rifiuto di firmare un accordo discografico con una major. E difatti, quasi a rivendicare uno status di indipendenza sia artistica che economica, nel 2002 i Sigur Rós virarono bruscamente in direzione di un tentativo di sublimazione della loro arte, esemplificato dal concept di un album assolutamente singolare: intitolato ( ) (ma chiamato anche in maniera informale Svigaplatan, ovvero The brackets album, "L'album delle parentesi" in italiano), inclusivo di otto canzoni senza titolo (ma che anch'esse assunsero, col passare degli anni, dei nomi), privo di informazioni, crediti e con un booklet scarno quasi fino al minimalismo.
( ), che vede per la prima volta la collaborazione del gruppo con il quartetto d'archi sperimentale Amiina (e che sarebbe divenuta, poi, band di supporto a tutte le esibizioni dei Sigur Rós) venne inciso in un complesso con una piscina abbandonata (e infatti i membri della band si riferiscono ad esso con The Pool) nei pressi di Álafoss, nota anche come la cascata delle anguille, in Islanda; la decisione maturò a seguito del rifiuto di Jónsi e compagni di registrare l'album in una base dismessa della NATO a nord dell'isola, a causa di problemi di praticità.
Il disco, nel suo minimalismo di suono e impenetrabilità ai limiti del misterioso, è composto da otto tracce interamente cantate in vonlenska, spaccate da trenta secondi di silenzio. Le due metà dell'opera, ognuna contenente quattro lunghe composizioni (« le prime solari e ottimistiche, le seconde più oscure e malinconiche », come affermato dagli stessi membri del gruppo) sono quasi speculari l'una all'altra: il viaggio è più psichedelico che mai (notevoli gli echi dei Pink Floyd), ma accompagnato stavolta da una rarefazione quasi palpabile, che corre lungo tutto l'asse di una serie di tracce confezionate per emozionare, struggere e farsi decodificare: emblematiche le due parentesi e l'assenza di titoli, quasi a voler lasciare spazio di interpretazione all'ascoltatore nel determinare le sue sensazioni.
Untitled #1 (nota anche come Vaka, dal nome della figlia del batterista Orri) apre la prima sezione dell'opera con una dolcezza inattesa, cullata dalla potenza di un organo; seguono la suggestiva e toccante Untitled #2 (Fyrsta, "la prima canzone"), la meravigliosa Untitled #3 (Samskeyti, in islandese "attaccamento"), guidata dalla semplicità dei giri di piano prestati per l'occasione dalla madrina Björk e infine Untitled #4 (Njósnavélin, "la macchina spia", ma altresì nota come the nothing song, "la canzone del nulla", utilizzata, tra l'altro, nella colonna sonora del film Vanilla Sky), forse la composizione più accessibile di tutto il lavoro.
Dopo i trenta secondi di assoluta immobilità ( ) accelera di ritmo nella sua seconda frazione: Untitled #5 (Álafoss), rarefatta e dilatata, fa da anticamera ad un vortice di melanconia che si schiude a partire da Untitled #6 (chiamata E-Bow, poiché Goggi, nel suonare il basso, si serve proprio di un E-Bow) e sale di ritmo nella maestosità di Untitled #7 (Dauðalagið, "la canzone della morte") e di Untitled #8 (Popplagið, "la canzone pop"), i brani più lunghi e costruiti.
Album della maturazione definitiva per i Sigur Rós, ( ) venne accolto con positivo sbigottimento dalla critica musicale; era il 2002, e per i quattro islandesi guidati da Jón Birgisson l'accordo con una major discografica era ormai diventato inevitabile.
 

Takk... (2004)

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[SIZE=11pt]1. Takk...[/SIZE]
[SIZE=11pt]2. [/SIZE][SIZE=11pt]Glósóli[/SIZE]
[SIZE=11pt]3. Hoppípolla
4. Með blóðnasir
5. Sé lest 
6. Sæglópur
7. [/SIZE]Mílanó
8. Gong
9. Andvari
10. Svo hljótt
11. Heysátan

Pubblicato nel 2004 un EP dal titolo Ba Ba Ti Ki Di Do, composto da tre tracce totalmente strumentali per un viaggio ambient della durata di circa venti minuti, i Sigur Rós strinsero, finalmente, un accordo discografico con una major, la EMI, piazzando un altro tassello nella loro variegata carriera musicale, fino ad allora sempre proiettata alla ricerca di innovazioni e arricchimenti di stile, nonché volta al non fossilizzarsi mai su se stessa.
E in Takk..., che in islandese significa "grazie", uscito nel settembre del 2005, risulta immediatamente evidente come la band di Jón Birgisson, per questo atteso (e in parte temuto) ritorno, abbia optato per una maggiore estroversione su ogni fronte possibile: torna l'islandese, per il quale il vonlenska si fa da parte (ad eccezione di alcuni brani come Mílanó, scritto insieme al quartetto d'archi Amiina, Gong e Andvari), tornano i testi, tornano i titoli per le canzoni e l'artwork dell'album (al quale contribuirono il compagno di Jónsi Alex Somers e la moglie di Orri Lukka) è più ricco e colorato rispetto al minimalista ( ). Insomma, tutto pareva costruito ad arte per far sì che Takk..., in coerenza con l'accordo stretto con la EMI, fosse caratterizzato da un mood che raccogliesse una fetta di pubblico più ampia, tramite la proposta di canzoni più accessibili e contraddistinte da una chiave dream-pop e rock nuova per la band di Reykjavík, fatta di sonorità più alte e distinguibili.
Il vero e proprio marchio di fabbrica di questo quarto lavoro è rappresentato dai crescendo esplosivi, i caleidoscopi di luci e colori che si prefigurano a veri elementi costitutivi di molti dei pezzi che compongono l'opera. Dopo la title track, che fa da introduzione all'album, ecco Glósóli, brano che segue il risveglio di un bambino, disorientato dal fatto di non riuscire più a ritrovare il sole perduto: la canzone accelera lentamente, partendo da un'assoluta tranquillità fino all'esplosione dettata dall'impeto delle chitarre, che accompagnerà il ritrovamento del sole, fino ad una rinnovata quiete coincidente con il termine del brano. Su binari analoghi si muovono le intensissime Sæglópur ("perso nel mare") e Svo hljótt ("così tranquillamente"), quest'ultima prima scossa dalla soavità degli archi e poi caricata dalla potenza della batteria di Orri. Non mancano, tuttavia, deviazioni dal mood generale dell'album: dai saliscendi luminosi di Mílanó, passando per la ritmica wave di Gong, fino alle dilatate Andvari e Heysátan.
In tutti i casi, una traccia in particolare diede ai Sigur Rós uno di quei rari momenti di popolarità su larghissima scala: si parla di Hoppípolla, collocata alla terza posizione di Takk... e ancora ad oggi, probabilmente, la traccia maggiormente conosciuta della band. Hoppípolla, contrazione di Hoppa í polla, in italiano "saltando nelle pozzanghere", venne notata dalla BBC, che la utilizzò, nel 2006, nella serie TV Planet Earth, facendo schizzare alle stelle le vendite del singolo. Il video musicale del brano segue le avventure di due gruppi di anziani amici, che in nome del loro spirito fanciullesco si danno battaglia praticando atti vandalici in una cittadina, combattendo con spade di legno e infastidendo le persone del luogo, che corrispondono proprio ai quattro membri della band. Il brano, come spesso accade in Takk..., viene scandito con gioiosa allegria dalla voce di Jónsi, fino all'esplosione di colori e luci che concretizza l'essenza stessa della canzone: un inno alla gioia, alla vita e alla natura.
I Sigur Rós avevano appena raggiunto un picco dal quale sarebbero inevitabilmente stati costretti a scendere?
 

Hvarf-Heim (2007)

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[SIZE=11pt]1. Salka[/SIZE]
[SIZE=11pt]2. [/SIZE][SIZE=11pt]Hljómalind[/SIZE]
3. Í Gær
4. Von
5. Hafsól

1. Samskeyti
2. Starálfur
3. Vaka
4. Ágætis Byrjun
5. Heysátan
6. Von

Gli anni 2006 e 2007 trascorsero intensamente per i Sigur Rós: nulla di inaspettato per i quattro islandesi, che cavalcavano l'onda del successo a seguito della buonissima riuscita del loro quarto album in studio. L'uscita dell'EP Sæglópur (contenente tre nuove tracce: Refur, Ó Fridur, e Kafari) venne accompagnata da un lungo tour mondiale che toccò anche l'Italia in occasione dell'attesissima serata della semifinale mondiale contro la Germania: la vittoria degli azzurri e i successivi caroselli che gremirono le strade del paese costrinsero l'organizzazione del concerto ad anticipare l'evento.
Nel novembre del 2007, in contemporanea, vennero pubblicati due nuovi meravigliosi lavori, i quali, pur non rappresentando un nuovo album in studio, tennero assolutamente viva l'attenzione attorno alla band di Jónsi Birgisson: si parla del DVD documentario Heima e del doppio CD Hvarf-Heim. Heima è, se serve ancora sottolinearlo, un’ulteriore riprova che l’Islanda rappresenta il fulcro carnale dell’esperienza artistica dei Sigur Rós. Il documentario segue la band in un folkloristico itinerario per la loro terra natìa, in una serie di concerti tenuti all’aperto e nei bar per chiunque volesse venire ad apprezzarli. Perché, a fronte di un successo ormai planetario, Heima (che in islandese vuole dire “a casa”, e non risulta estraneo a termini come home o heimat) restituisce i Sigur Rós al luogo in cui nacquero i primi germogli della loro musica, al luogo foriero di speranze che ci ricorda un fatto forse, troppo spesso, trascurato: la musica appartiene alla gente. E se quei quattro islandesi, nell’atto di riprodurre i loro più celebri successi, hanno dinanzi a loro una platea incantata, di ogni età, immersa nel sogno delle loro melodie, che danza a piedi nudi su un prato, allora risulta chiaro che Heima sia un bellissimo dono concessoci per entrare ancora più a fondo in quell’impenetrabile bolla di poche anime chiamata Islanda. Caleidoscopi di colori, rifrazioni luminose, ghiaccio e fuoco che si mescolano, candele che infrangono giochi di ombre e vallate appena riscaldate da un sole che non riesce mai a raggiungere le creste delle colline. Heima è tutto questo, ed è un altro tassello preziosissimo in un quadro già molto ricco di sfumature.
Eppure, ai Sigur Rós non bastò. Quasi come in un incastro complementare, ecco Hvarf-Heim: un accostamento di termini che strizzano l’occhio a certe antitesi, avvicinati quasi suggestivamente per riprodurre, ancor prima delle tracce, qualche sorta di emozione. Hvarf potrebbe significare “scomparso”, così come “rifugio”, e comprende una rivisitazione di due vecchi brani della band: Von, riscritta in una versione più dolce e intima, e la epica Hafsól, totalmente trasformata da un adattamento in cui, ai soliti, incredibili falsetti di Jónsi fa da chiosa un rullare potentissimo di trombe e batterie. Gli altri tre brani sono rappresentati da altrettanti inediti: dalle emozioni struggenti riservate da Salka (nome della figliastra del bassista Goggi), passando per Hljómalind (precedentemente nota come “la canzone rock”) fino a Í Gær (“ieri"). L’altro CD, Heim (proprio “casa”), chiude il viaggio. Lo fa proponendo delle versioni live di vecchi brani, sempre avvolti in certi incanti delicati: Samskeyti, già nota come la terza traccia priva di titolo di ( ), Starálfur, Vaka, prima traccia senza titolo di ( ), Ágætis Byrjun, Heysátan e infine, ancora una volta, Von, speranza. La rinnovata speranza che, dopo queste due autentiche perle nella loro discografia, i Sigur Rós avrebbero presto regalato la loro quinta fatica in studio. Un certo ronzio era alle porte.
 

Með suð í eyrum við spilum endalaust (2008)

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[SIZE=11pt]1. [/SIZE][SIZE=11pt]Gobbledigook[/SIZE]
2. Inní mér syngur vitleysingur
3. Góðan daginn
4. Við spilum endalaust
5. Festival
6. Með suð í eyrum
7. Ára bátur
8. Illgresi
9. Fljótavík
10. Straumnes
11. All alright

« I testi delle canzoni saranno più comprensibili rispetto agli album precedenti » assicurava il batterista dei Sigur Rós Orri Dýrason alle soglie del 2008. Tempo di cambiamenti per la band islandese, in tutti i sensi: Jónsi e compagni non intendevano fossilizzarsi sugli stessi, lunghi e imponenti muri di suoni, e cominciavano a circolare voci che il loro nuovo lavoro potesse, per la prima volta, comprendere dei testi in inglese. Nei piani originari del gruppo, in realtà, il concept dell’album prevedeva che ogni testo di ogni canzone fosse in inglese: alla fine, si decise di ripiegare sull’hopelandic, porto sicuro per delle idee musicali così ricercate e particolareggiate, e lasciare All Alright come silenziosa appendice a Með suð í eyrum við spilum endalaust (“con un ronzio nelle orecchie suoniamo all’infinito” nella nostra lingua), quinto, effettivo album in studio dei Sigur Rós. I ragazzi di Reykjavík seguirono un leitmotiv già visto e apprezzato: dopo aver strutturato una fisionomia totalmente riconoscibile in ogni loro lavoro, proseguirono per la strada tracciata da Takk..., tra melodie più affini alla sfera del pop e appigli immancabili all’oniricità sensazionale di certe atmosfere. Nella prima parte del lavoro, registrato in giro per il mondo (toccando persino territori come Cuba), l’ascoltatore rimane spiazzato: la tambureggiante Gobbledigook è uno strano mix di folkore, ancestralità e psichedelia abbastanza estraneo a un gruppo come i Sigur Rós; e in tal senso proseguono Inní mér syngur vitleysingur (“in me canta un lunatico”) e Við spilum endalaust, con il breve tepore di Góðan daginn (“buona giornata”) a creare una sorta di intermezzo.
Með suð í eyrum við spilum endalaust si schiude dalla quinta traccia, Festival: quasi dieci minuti di climax disegnato dal vonlenska di Jónsi che sfocia in Með suð í eyrum, quasi preparatoria all’immensità del settimo pezzo, Ára bátur, ancora ad oggi uno dei brani più struggenti e romantici della band, registrato negli studi di Abbey Road con un coro di bambini ad innalzare tutta la maestosità di un riecheggiante salmo che chiude, di fatto, la parte altisonante dell’album. Dall’ottava traccia in poi (Illgresi, “erbaccia”) Jónsi diventa protagonista con la pacatezza emozionale della sua voce, in un raccolto finale immedesimato nell’immobilità e intimità più totale che All Alright, unico pezzo in inglese, porta con sé.
La rivista musicale Q, popolare periodico edito nel Regno Unito, parlò di « a career turning point - Sigur Rós have outgrown their cult status », e la sensazione è proprio quella: l’inconfondibile amalgama musicale dai sapori nordici dei quattro islandesi, con questo nuovo lavoro, sembra essere stata portata a nuovi livelli di consapevolezza, decisa a scoprire strade fino ad allora rimaste inesplorate. Popsong da fare invidia a numerosissimi gruppi del genere, esperimenti fatti di contaminazioni emblematiche, le solite immancabili suite caratterizzate da viaggi ambient, e tracce dal sapore intimo e algido: questo Með suð í eyrum við spilum endalaust, lungo e non facilmente memorizzabile titolo, giocava in bilico sul filo delle difficoltà di proporre qualcosa di rinnovato e fresco, dopo lavori come Ágætis byrjun, ( ) e Takk...: ci riesce in virtù di un fatto, forse, non preso poi così tanto in considerazione: le proprie esigenze musicali e artistiche vanno ascoltate e rispettate. E i Sigur Rós lo fanno con quella coerenza narrativa che, da sempre, li contraddistingue.
 

Valtari (2012)

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[SIZE=11pt]1. [/SIZE][SIZE=11pt]Ég anda[/SIZE]
[SIZE=11pt]2. [/SIZE][SIZE=11pt]Ekki múkk[/SIZE]
[SIZE=11pt]3. Varúð
4. Rembihnútur
5. Dauðalogn
6. Varðeldur
7. Valtari
8. Fjögur píanó

L’autunno successivo a Með suð í eyrum við spilum endalaust portò con sé strascichi importanti. Jónsi si concesse diverse interviste, e fece trapelare che la band aveva in cantiere la sua sesta fatica, ma con qualche patema in più: mancavano idee strutturate e identità ai brani, tanto che il frontman dei Sigur Rós si lanciò in diversi progetti di varia natura, da una collaborazione con il suo partner Alex Somers da cui nacque Riceboy Sleeps (2009) fino ad un intero album da solista, Go, pubblicato nel 2010 e contenitore di tracce coloratissime, variegate in una tavolozza di suoni sorprendenti. Nel 2011, dopo un periodo indefinito di iato, i Sigur Rós tornarono a far sentire la loro voce artistica con Inni, un doppio album live affiancato dal secondo film della storia della band, dopo la suggestiva esperienza di Heima. L’anno successivo, in un’intervista concessa nuovamente alla rivista Q, prese forma anche il nome e il concept del nuovo lavoro della band nelle teste dei suoi fan: Valtari (“rullo compressore”).
Jónsi e compagni si espressero con grande precisione circa Valtari: l’album aveva richiesto più fatica di quanto previsto, fra idee scartate e riarrangiamenti continui e, nel suo risultato finale, era sembrato maggiormente caratterizzato da una nota elettronica rispetto ai precedenti, senza ovviamente voler sfociare nella dance music; Kjartan aggiunse anche che era « an avalanche in slow motion », una valanga a rallentatore. Il titolo dell’album venne suggerito a Jónsi dall’incedere lento e assorbente dell’opera che, appunto come un rullo compressore, trascina lentamente l’ascoltatore su dei binari uditivi che riecheggiano le composizioni eteree di ( ). Ma se ( ) faceva della rarefazione più estrema il suo punto di forza, Valtari riprende senz’altro la potenza espressiva ed emotiva delle atmosfere più propriamente tipiche dei Sigur Rós, ampliandole in una nuova cifra stilistica.
Ég anda (“io respiro”) è la prima delle otto tracce. I riverberi delle chitarre dilatano l’attesa, accompagnando l’entrata in scena del falsetto di Jónsi su un esercito di carillon (come affermato dai membri stessi della band). Il pezzo si chiude con dei pesanti rintocchi che spianano la strada a Ekki múkk, particolarissimo brano fatto di placidi e soffusi torpori. Dopo l’impennata che l’intensità di Varúð porta con sé ecco Rembihnútur (“nodo d’arresto”), che viaggia sulla stessa lunghezza d’onda di Ég anda. Nella seconda parte dell’album, la soavità di Dauðalogn apre alle ultime tre tracce, totalmente strumentali e che aleggiano su un mood già noto, nelle sue trasognate derive ambient.
A rendere Valtari un bellissimo lavoro fu, nello stesso periodo, l’ultima trovata dei Sigur Rós, che selezionarono un numero ridotto di registi riservando loro lo stesso budget limitato e invitandoli ad ascoltare l’album, e a produrre dei video musicali unicamente basati sulle sensazioni che venivano loro trasmesse. Nacque il Valtari Mystery Film Experiment, commistione di punti di vista artistici diversi, in aperto contrasto con lo scorrere omogeneo delle otto tracce: il surrealismo del video di Ég anda, in cui vengono illustrate delle tecniche di pronto intervento in caso di soffocamento, e l’impenetrabilità interpretativa di Ekki múkk, misterioso incontro fra un uomo e una volpe, sono solo degli esempi per approcciarsi a questo straniante lavoro che però, a conti fatti, ricalca la fisionomia di band che i Sigur Rós hanno saputo ritagliarsi nel corso degli anni. Valtari dà l’impressione di una scelta di coerenza per la band, un rifugio nel porto sicuro della loro musica più tipica: eppure, nel novembre dello stesso 2012, il bassista Georg Hólm diede conferma che il gruppo era già al lavoro su un nuovo album. I quattro ragazzi di Reykjavík erano diventati tre a seguito dell’abbandono di Kjartan, deciso a intraprendere strade musicali più concentrate sulla sua persona: erano già pronti a percorrere nuove strade senza il loro factotum?[/SIZE]
 

Kveikur (2013)

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[SIZE=11pt]1. [/SIZE][SIZE=11pt]Brennisteinn[/SIZE]
[SIZE=11pt]2. [/SIZE][SIZE=11pt]Hrafntinna[/SIZE]
[SIZE=11pt]3. Ísjaki
4. Yfirborð
5. Stormur
6. Kveikur
7. Rafstraumur
8. Bláþráður
9. Var

Il sogno è finito? L’estatica esaltazione, il richiamo di una terra alla periferia del globo, le morbide dilatazioni, i viaggi infiniti in un misticismo totalmente primigenio? È il 2013 e Kjartan Sveinsson abbandona i Sigur Rós: la notizia balza sotto ai riflettori grazie a Jónsi, Goggi e Orri, che su Reddit, in merito, si pronunciano così dopo la domanda di un fan: « yes, he has left the band. He said he spent half his life in the band and it was time to do something different ». E dopo quel rifugio caldo e accogliente chiamato Valtari, una mano amica in un momento, forse, di smarrimento artistico, la band di Reykjavík ritorna sui suoi passi, riavvolge il nastro, e rincontra quel trittico come, a livello di formazione, non si vedeva dai tempi di Von, nel lontano 1997.
Il periodo era indubbiamente delicato, al punto tale da non permettere che si formassero nuove attese, altre aspettative: difatti, niente ebbe il tempo di assumere una forma. Goggi fu spedito, e sul terminare del 2012 precisò che i lavori al settimo album dei Sigur Rós procedevano bene: Kveikur, questo il nome (“stoppino” in islandese) dell’opera, si presentava immediatamente come « an anti-Valtari », con un sound « more aggressive ». Nonostante le premesse, la critica e tutti i fan della band non poterono che accogliere Kveikur, al primo ascolto, con sbigottimento. Totalmente inaspettato: ciononostante, rispetto al periodo musicale che i Sigur Rós stavano vivendo, questo effetto di spiazzamento va inclinato tutto sotto il peso di una grande svolta. Un eccezionale rinnovamento di stile per un gruppo assurto ad oggetto di culto per un motivo, e non per caso.
Kveikur viaggia su una premessa di fondo: le commistioni, i mix di sonorità, le sperimentazioni non sono terminate. Ma il sound sale di livello e, come preannunciato, quel livello fa rima con aggressività. La batteria di Orri torna a farsi sentire, più rullante che mai, la voce di Jónsi rimane limpida, eppure offuscata da ambientazioni cupe, quasi minacciose, dai toni che fanno tornare alla memoria, per certi versi, la Untitled #8 di ( ). Kveikur è un vero e proprio caleidoscopio di potenza uditiva, il vero, primo album “rock” dei Sigur Rós, che non rinunciano nemmeno all’elettronica e a risonanze industrial. Tutto ciò è comprovato dai titoli delle tracce, scelti dai membri del gruppo solo per affinità con le parole, senza la volontà di esprimere veri e propri concetti: c’è la trascinante Brennisteinn (“zolfo”), i tintinnii di Hrafntinna (“ossidiana”), la freschezza di Ísjaki (“iceberg”), passando per l’epicità della title track fino a Var (“rifugio”), che chiude il quadro con una semplicità che sa spiazzare per l’ennesima volta. Perché Var non è solo una composizione di quasi quattro minuti che si avvolge su se stessa nei rintocchi silenziosi di semplici giri di piano, ma è anche una chiosa ideale ad un lavoro veramente nuovo e quasi insperato.
I [/SIZE]Sigur Rós non hanno mai deluso le aspettative, e il loro 2016 si apre con l’annuncio di un nuovo tour europeo (che toccherà anche l’Italia) e la promessa della loro ottava fatica in studio. La certezza è che sapranno offrire nuove occasioni per toccare corde, nei cuori di ognuno, nascoste molto a fondo, tanto da non credere nemmeno che potessero esistere.
 
 
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Gkx

Admin
direi che hai scritto una panoramica parecchio esaustiva, complimenti!

per quanto mi riguarda i sigur rós sono uno dei pilastri del post-rock anni 2000, la cui influenza sul genere può essere paragonabile forse solo a quella dei goodspeed you! black emperor (che però, anche rimanendo nello stesso ambito di riferimento, hanno un approccio completamente diverso). 

agaetis coso e ( ) sono dei capolavori, con il grandissimo pregio dell'originalità: non suonano come nessun'altra cosa uscita fino ad allora.

takk mi era piaciuto ma non mi aveva stupito: per i loro standard sembrava quasi un album di canzonette, con tracce meno dilatate e arrangiamenti molto più leggeri.  stesso discorso, portato all'estremo, per med sud blablabla, che ha confermato (almeno per me) la parabola discendente del gruppo e il definitivo spostamento verso il dream pop.  non ho ascoltato i due album successivi, ma - a quanto leggo - forse potrebbe valere la pena di recuperare almeno kveikur.
 

Dxs

Mod
Grazie mille!

Io sono abbastanza d'accordo con te, nel senso che una (minima, ma esiste) parabola discendente è ravvisabile nei lavori successivi a Takk (album che sicuramente allegerisce i toni rispetto ai precedenti, ma al tempo stesso contiene tracce a cui sono troppo legato, come Hoppípolla, Sæglópur e Svo hljótt). Però ti consiglio caldamente di recuperare Kveikur, sì, perché a mio avviso è un disco spettacolare, un'autentica svolta in positivo e potrebbe farti riassaporare quel gusto di "mai sentito prima" che effettivamente Ageatys e ( ) trasmettono. Quanto al sesto album, Valtari, io ti direi di dare una chance pure a quello. Troverai sonorità molto più affini a ( ) che a Takk, Med Sud, o qualunque altra cosa orientata al dream-pop. Magari ti annoierà, ma intanto rivivrai di sicuro quelle atmosfere della band di inizi anni 2000.
Ti puoi fidare.

;)
 
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Dxs

Mod
Diciamo che può suonare straniante, specie dopo un album come Valtari (che ultimamente sto apprezzando sempre di più, mi piace veramente tanto), ma ho gradito non poco la svolta "rock" se così vogliamo chiamarla. È un'esagerazione, lo so, ma rende l'idea di una virata verso uno stile musicale totalmente inaspettato dopo l'abbandono di Kjartan.
 
Io ho molto apprezzato Kveikur al terzo/quarto ascolto: il distacco dallo stile precedente è marcato, ma ha un nonsoché di fresco che ne garantisce l'apprezzamento.

Nel 2013 li ho visti live a Roma (ero in prima fila) proprio nel tour di lancio di Kveikur... un sogno fatto realtà! E hanno fatto anche una manciata di canzoni degli album precedenti!
 

Dxs

Mod
L'altro giorno ho rivisto Heima, il film-documentario di Dean DeBlois che racconta l'Islanda dei Sigur e il loro tour di concerti gratuiti, in mezzo alla gente, tenutosi nel 2006. Penso sempre di più che sia la cosa visivamente più pura e splendida che io abbia mai avuto la fortuna di guardare. (E non vedo l'ora che arrivi il 9 luglio per il concerto di Monza).
 

 
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Dxs

Mod
Yo, ieri il gruppo è tornato live (con una sola formazione di tre elementi). Hanno suonato una nuova canzone inedita, sentite qui:
 


Non si sente molto bene, ma il sound direi che è affine a quello di Kveikur.

 
 

Dxs

Mod
Siccome ormai ho aperto il topic, mi sembra sprecato non passare gli aggiornamenti sulla band. Dopo un live stream di ventiquattr'ore in cui, con un furgone, è stata esplorata l'intera Islanda seguendo la famosa Route One, l'unica strada interamente asfaltata dell'isola, che la cinge per intero, il gruppo ha pubblicato il suo nuovo singolo:
 


Come in generale tutti i video dei Sigur, anche questo si presta alle sue belle interpretazioni. Visivamente è molto forte, specie nel finale, in cui la donna, apparentemente una pazza vagabonda, entra nel bar. Personalmente l'ho apprezzato molto.
 

Sarcy

Zoidberg
Mi fa piacere conoscere qualcuno che li ascolta! Non sono brava con le parole, e comunque avete scritto tutto voi :)

Io adoro Hoppipolla, del tipo che potrei ascoltarla ininterrottamente ♡
 
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