Fic Challenge 2008 - Racconti e votazioni

Scegli le due fiction che ti sono piaciute di più.

  • Nessuno alle 12.37 (Robby)

    Voti: 1 5,6%
  • La verità che uccide (Ellemme)

    Voti: 4 22,2%
  • Ultima pagina (Mens)

    Voti: 6 33,3%
  • Cannibalismo di un'illibata (Tibbo)

    Voti: 2 11,1%
  • Fame di vita (Cerb)

    Voti: 5 27,8%
  • Alone (Mella)

    Voti: 2 11,1%
  • The Water Fields (Umbreon 91)

    Voti: 4 22,2%
  • Disorder (Quello_nello_Specchio)

    Voti: 5 27,8%

  • Votatori totali
    18
Stato
Discussione chiusa ad ulteriori risposte.

Gkx

Admin
Qui, da oggi, verranno pubblicati i racconti della Fic Challenge 2008, e sarà possibile votarne due: il più votato riceverà il premio del popolo, che si affiancherà all'ugualmente prestigioso premio della giuria. Non provate a creare dei fake perché verrete sgamati subito. Le votazioni chiudono tra una settimana (l'ora esatta è specificata di fianco al sondaggio), a voi. Chiedo ai votanti di leggere tutte le fiction prima di votare: anche se non richiediamo delle motivazioni per il vostro voto, votare in base alla simpatia mi sembra quantomeno triste. Le (poche e liberamente interpretabili) regole stilistiche di riferimento sono in questo topic, sta a voi decidere se tenere conto anche di queste ultime oltre che ai puri fattori estetici.

I racconti sono pubblicati in ordine di quando-ci-sono-arrivati.

Il voto ovviamente è segreto, ma se sentite proprio il bisogno di esternarlo (e se volete fare qualche commento generale) questo è il topic per voi.
 
Ultima modifica di un moderatore:

Gkx

Admin
Era notte fonda, ma ci vedevo benissimo.

I lampioni illuminavano a giorno l’intera zona, ma non ci sentivamo scoraggiati per questo.

“ Sei sicura di quello che fai, Jenny? “

La figura a cui mi rivolsi non mi rispose per un lungo periodo di tempo. Poi abbozzò una risposta: “ Guarda che lo faccio solo per te. “

Guardai la serranda chiusa, poi il laptop che Jenny aveva in mano, e di nuovo la serranda. Sentii un - click -

“ Siamo pronti, no? Finalmente riuscirò a metterci su le mani! “ dissi con un pizzico di gioia nella voce.

“ Oh si, ora possiamo andare. “

Entrammo entrambi nel negozio. Cercai affannosamente il reparto in cui giaceva la merce che desideravo tanto, mentre Jenny si avviò rapidamente verso il reparto est.

“ si… finalmente… “ Misi le mani su quella scatola di plastica. Lessi con il nodo alla gola il titolo. “ Eternal sonata… finalmente.,. è da anni che lo volevo.. “

Cercai affannosamente la mia amica, muovendomi silenziosamente tra gli scaffali pieni di merce.

La vidi vicino ai cellulari, mentre ne cercava l’ultimo modello.

Mi guardò con un pizzico di felicità nello sguardo. Poi guardò la scatoletta di plastica che avevo in mano.

-  Tutto lì!? Ma… ma… ma… -

-  Hmmm.. Jenny… Grazie… -

-  Taci e muoviti ad uscire da qui –

Uscimmo dal negozio, stando meticolosamente attenti a non fare nessun rumore.

Presi dalla tasca dei jeans nuovi un pacchetto di paglie, e accesi rapidamente una sigaretta.

Guardai la ragazza aspettarmi vicino alle strisce pedonali, che collegavano la tangenziale a via Bonaparte.

Il signor Jhonson stava bevendo un bicchiere di birra analcolica ( proprio come gli aveva ordinato il suo dottore ) e guardava la registrazione della finale di football del ’98, quando l’odore del fumo della mia sigaretta raggiunse il suo appartamento. Si affacciò, e guardando Jenny si mise ad urlare sclerotico.

-  Và via, qui non vogliamo donne come te! –

Guardai la ragazza con un lieve sorriso sulle labbra.

“ ma guarda te, presa per una battona d’alto rango… “ sembrò pensare lei.

Salutai la ragazza, prendendo la direzione di casa mia. Sapevo che mia madre sarebbe stata sveglia fino a tardi.

Cercai calmo le chiavi del cancello, stando particolarmente attento ad evitare il piccolo laser che percorreva tutta la lunghezza del cancello all’incirca all’altezza della caviglia. Di certo, l’ultima cosa che volevo era far scattare l’allarme.

-  Proprio te cercavo. –  mi accolse mia madre.

-  Uh? Che è successo? –

-  La prossima settimana starai a casa di tuo padre. Prendila come la punizione per la tua bocciatura. –

-  Cosa? Ma… ma non è giusto! –

Lei mi guardò silenziosa, poi continuò a gestire il suo account su Facebook.

Quel giorno era il 12 marzo. Era un sabato. Me lo ricordo bene, perché quel giorno, io morii.

Presi l’ascensore, che mi condusse lentamente fino al 7° piano.

Bussai alla porta. Non mi rispose nessuno. Allora chiamai mio padre al cellulare.

-  Dove sei? –

-  Sono al mercato, per vedere se riesco a far pranzare anche te. Tu? –

-  Io sono già a casa tua. –

-  Oh… quella carogna di tua madre mi aveva detto che ti portava verso le 11. oh beh, tanto sono già in ritardo, posso fare con calma. –

-  Ma vai a quel paese. –

Aspettai pazientemente che quel matusa di mio padre arrivasse a casa.

Mi accolse con un “Sei ancora più grasso di ieri. Ma come fai? “

Mi diressi silenziosamente dentro quell’appartamento.

Notai subito il larghissimo balcone.

Tirai su la zanzariera, e guardai in basso.

-  però… è alto, eh? –

-  al settimo piano cosa pensi? –

Ma ormai avevo deciso.

Strinsi la ringhiera con il palmo della mano, mentre mi puntellavo con i piedi.

Feci presto a lanciarmi. Non c’era speranza per me, quella volta.

Dopo tre giorni, il mio funerale. Venni sepolto in un prato con un pino sul lato destro della lapide.

Sono sicuro che la gente mi ha dimenticato tanto velocemente quanto mi ha conosciuto.
 

Gkx

Admin
Bump.

Bump.

Bump.

Il rumore dei passi echeggiava sovrano mentre Richard De'Lain, programmatore di professione, attraversava l'aula tagliandola per il centro, seguendo il sentiero tracciato dal lungo tappeto rosso. Di fronte a lui, il giudice. Alla destra di quest'ultimo, lo spazio che presto avrebbe dovuto occupare.

Bump.

Il giudice batté tre volte il martello sulla scrivania, gesto molto più rituale che di effettiva utilità: i pochi presenti al processo erano già in religioso silenzio, tutti attenti.

"Signor Richard De'Lain" iniziò, con fare professionale "lei è stato accusato di patricidio volontario. Cos'ha da dire in sua discolpa?"

"Il mio avvocato sarà in aula entro breve. La prego di voler attendere ancora qualche minuto."

In quell'istante, il portone ottocentesco si spalancò. Sulla soglia c'era Percival Smoothstick, cinquantun anni, uomo di media statura perfettamente rasato e ordinatissimo, che incedette con estrema pacatezza. "Domando scusa per il ritardo, vostro onore" disse, prendendo posto alla destra del giudice con Richard. Gli era doppiamente d'aiuto, essendo stato anche l'ultima persona ad aver visto vivo suo padre in un bar la sera prima. Gli aveva anche offerto il caffé.

"Ebbene?" Incalzò il giudice.

"Vostro onore" riprese Smoothstick "Non ho avuto modo di trovare prove per difendere il mio imputato."

Tutti i presenti, salvo l'interessato e l'interlocutore, incominciarono a confabulare.

"E lei si presenta qui in ritardo ammettendo di non saper difendere il signor De'Lain in alcun modo?" Lo strano atteggiamento sembrò infastidirlo abbastanza.

"Non ho detto questo" riprese, serafico. "Vi dirò di più: in base ad una legge entrata in vigore sabato scorso, esattamente sette giorni fa, non è più possibile processare un individuo prima di cinque giorni dopo l'avvenimento del misfatto, offrendogli dunque la possibilità di rivolgersi non solo ad un avvocato in caso di processo, anche ad un investigatore privato che indaghi più a fondo sulla vicenda." Estrasse dalla tasca un bollettino e lo aprì alla pagina 8. "Controlli pure."

Il giudice prese il bollettino e lesse il provvedimento, dapprima diffidente, poi sempre più stupito. Non ne poté più. "E' semplicemente ridicolo! Questo significa favorire la privatizzazione degli investigatori!"

"Le vostre considerazioni arrivano tardi, signor giudice. In ogni caso, ha il dovere di rilasciare il mio imputato per i prossimi tre giorni. Così vuole lo Stato" concluse.

Ci fu silenzio per molto a lungo.

"Se la legge ha deciso... così sia." Batté nuovamente il martello, dando un colpo secco. "Il signor De'Lain avrà tempo fino alla mezzanotte di martedì per raccogliere le prove necessarie alla sua assoluzione. La sentenza è sospesa."

Anche gli spettatori ci misero qualche istante per assimilare la notizia; sciamarono fuori a gruppetti, discutendo animatamente.

"Non ho mai visto un processo così strano" si lamentò Richard, uscendo dall'aula col suo avvocato. "Ne stanno facendo un fenomeno da circo."

Si contenne, scosso dai recenti avvenimenti. Non capitava tutti i giorni di essere accusati ingiustamente di patricidio. Percival gli diede una pacca sulla spalla.

"Il fatto che tuo padre fosse in possesso della più redditizia fabbrica di elettrodomestici in Inghilterra per il giudice può significare che tu sei il maggiore indiziato, ma per un detective non ha la minima importanza. Faremo luce su questa brutta faccenda, vedrai."

"Lo spero" sospirò lui, sconsolato. "Ehi, non immaginavo di potermi fare amico un avvocato!"

"C'è sempre una prima volta nella vita" sorrise l'altro affabile. "Da giovane i miei compagni di liceo mi chiamavano Fenice, sai? Il classico ci dava un po' alla testa."

"Avevi la capacità di rinascere dalle braci?" scherzò, col morale un po' meno sotto i tacchi. Lui accolse il tutto con un sorriso. "Non proprio. Mi paragonavano a Phoenix Wright, personaggio di un vecchio videogioco. Era un avvocato alle prime armi. Ma tu puoi chiamarmi Lawman!" rise ancora.

"Ce l'avevi nel sangue, ammettilo! Ti piacciono proprio i soprannomi, eh?" proseguì Richard imperterrito, e più che mai deciso a non pensare più a suo padre fino alla fine del processo.

Percival sembrò intuirlo. "In ogni caso, mi sono messo in contatto col mio amico investigatore. Ho immaginato che potesse servirti. Se vuoi, posso presentartelo oggi stesso."

"Grazie, Percy" sorrise mesto.

***



"Piacere, Harry Marskheil".

"Richard De'Lain, indagato per patricidio volontario con l'accusa di voler intascare una cospicua eredità anzi tempo" fece eco lui. L'investigatore pensò che stesse scherzando, anche se sapeva bene la sua storia.

"Percival mi ha spiegato abbondantemente la sua situazione..."

"Diamoci del tu" intervenne lui, subito. "Non c'è nessun bisogno di formalizzarsi".

"Molto bene" rispose Harry, compiaciuto. "Dicevo, non mi sono necessarie altre spiegazioni. Dovrò solo farti un po' di domande sulle abitudini di tuo padre."

"Hai detto che tuo padre è sempre stato molto dedito al lavoro, giusto?" gli chiese infine Harry, dopo una lunga discussione.

"Sì, moltissimo" confermò l'altro, affranto. "Pur da libero professionista, non passava mai meno di dieci ore in fabbrica. Osservava le produzioni e continuava a macchinare idee per ottimizzare tempi, qualità e costi." Fece una pausa. Era molto difficile parlarne.

"Capisco." Sospirò, serissimo. "Penso che il suo ufficio sia la mia prima tappa."

"La tua prima tappa?" Richard ridacchiò. "Non penso proprio... ti seguirò come un'ombra!"

L'ufficio era rimasto in perfetto ordine, come Johan De'Lain l'aveva lasciato: gli annali erano minuziosi e ricchissimi di dettagli, ampi commenti e annotazioni sui bilanci non mancavano mai, ed era tutto schedato e sistemato secondo un rigorosissimo ordine cronologico. Richard fu sorpreso di non essersi mai accorto dei tantissimi appunti presi dal padre, al più considerazioni sui cambiamenti della domanda di elettrodomestici, che miravano a inquadrare l'epoca più chiaramente e prevedere con buona sicurezza anche le modifiche future.

"Le prove non ci serviranno a molto, se non abbiamo una seconda persona da accusare" osservò sconsolato. "Il giudice sembrava non volermi ascoltare quando gli ho portato i miei testimoni oculari. Non ero qui, quando... è successo."

"Mi dispiace molto, credimi, ma questo paese funziona così." Harry era dotato di una proverbiale schiettezza. "O meglio, è così che questo paese NON funziona. Avrei un buon sospetto, ma credo sia prematuro. Innanzitutto, rimbocchiamoci le maniche e cerchiamo di capire cosa potrebbe aver portato a questo gesto folle."

E iniziarono la perlustrazione. Richard dimenticò presto cosa stava cercando, immergendosi nella lettura dei documenti. Diede un'occhiata anche ai bilanci: grafici realizzati in modo certosino, colorati e d'immediata comprensione. Due linee incostanti, una rossa e una verde, seguivano percorsi quasi congruenti da gennaio a dicembre.

Fino a cinque anni prima tutto sembrava perfettamente a posto... poi, con gli ultimi quattro, giunse il caos. Le linee rosse si mantenevano su livelli normali, quelle verdi saettavano su e giù per poi terminare inesorabilmente in una calata a picco. In principio, il bravo programmatore non capì; poi osservò una noticina a fondo pagina, una legenda in miniatura, che segnava in rosso la stima preventiva delle vendite complessive e in verde le vendite effettuate.

"Credo di aver trovato qualcosa" azzardò, col naso ancora storto per il disordine delle correzioni. "Quest'ufficio è una vera scoperta per me. Guarda."

Gli passò i documenti scarabocchiati, e Marskheil li studiò accuratamente.

"Ho già controllato anche gli altri bilanci" lo anticipò. "Solo questi quattro sono così caotici. Danno l'impressione che mio padre abbia dato di matto. Le stime si tengono su livelli normali, ma... le vendite sembrano essere crollate."

Entrambi avevano un'aria molto meditabonda. "Questi li prendiamo noi. Hai ragione, possono esserci molto utili."

"Credo possa bastare, per oggi." Marskheil si asciugò la fronte, imperlata di sudore, con un fazzoletto. "Domani continueremo. Abbiamo altri due giorni pieni e li sfrutteremo al meglio."

"Penso che resterò qui, stanotte. Posso riaccompagnarti a casa, se vuoi" si offrì Richard.

"Ti ringrazio, ma non è necessario. Tu, piuttosto, dovresti dormire..."

"Mi riposerò, tranquillo. Ci vediamo qui domattina."

Richard approfittò di quella sera per fare visita al guardiano della fabbrica, uomo di fiducia e grande amico di Johan, che aveva fatto costruire una sistemazione apposta per lui. Si trovava al primo piano, precisamente sopra l'ufficio del pianterreno. Non fu difficile riconoscerne la sistemazione: la grande porta bianca semiaperta recava un cartello con su scritto, a grandi lettere, "Butch Kenneth".

Nonostante non fosse completamente chiusa, egli bussò.

"Avanti" pronunciò una voce, pigramente.

Richard entrò. Il monolocale era piccolo, ma accogliente e caldo. La televisione accesa emanava un leggero bagliore bluastro, tingendo la stanza; nello schermo, qualcuno borbottava parole incomprensibili. Il volume era molto basso.

Butch Kenneth era steso sul divano-letto e stava guardando il telegiornale. Era un uomo alto, ma visibilmente consunto dal tempo: la sua settantina d'anni circa gli aveva portato una buona quantità di rughe, baffi folti e capelli completamente bianchi, ma ancora numerosi. Appena vide Richard, si alzò: "Oh... l'erede De'Lain! Prego, si accomodi, per quanto le sarà possibile. Gradisce una tazza di té?"

"Grazie dell'accoglienza" rispose modesto l'invitato. "Non si preoccupi per il té."

Ma Butch aveva già messo l'acqua sul fornello. "Mi... mi dispiace molto per suo padre. Gli sono profondamente grato per ciò che ha fatto, e... capisco come ci si possa sentire, davvero."

"Non si preoccupi, non sono qui per questo" lo rassicurò Richard, tradendo una certa emozione. "Vede... vorrei che mi parlasse un po' di mio padre, perché ho la sensazione di saperne meno di lei. Le andrebbe?"

Butch lo guardò dritto negli occhi, pieno di comprensione. "Sarà un piacere."

Richard si sedette sul divano-letto. "Non so se ne era al corrente, mister Kenneth, ma negli ultimi quattro anni le vendite di mio padre hanno subito un drastico calo, nonostante le aspettative fossero delle migliori."

Il vecchio custode era sbalordito. "Il signor De'Lain che sbaglia le sue previsioni? Non si era mai visto!"

"Eppure è così" tagliò corto Richard. "Rovistando nel suo ufficio ho trovato i bilanci annuali, e gli ultimi quattro indicano chiaramente che l'impresa non andava bene."

Li estrasse dalla tasca e glieli mostrò.

"E' molto strano..." commentò il guardiano. "Passavo moltissimo tempo in compagnia di Johan, e giuro sulla mia testa di non averlo mai visto triste. Quell'uomo ha sprizzato energia da tutti i pori fino all'ultima volta che l'ho visto, poche ore prima che lo spedissero all'altro mondo."

"Quindi, lei pensa che...?"

"Cristo! Se mi sbaglio, mi mangio il cappello!"

Harry era in ritardo, e a Richard non andavano molto a genio i ritardatari. Si costrinse a pensare a quanto lo avrebbe aiutato, per sopportare l'attesa; gli ci volle poco, però, per capire che non sarebbe servito a nulla. Osservò il vecchio computer sul tavolo, impolverato ma funzionante, e pensò che un diversivo non gli avrebbe fatto male.

Lo accese. Le ventole dell'hard disk cominciarono a girare rapidissimamente, emettendo un suono flebile e quasi impercettibile. Che meraviglia, pensò, avere una tecnologia così silenziosa!

Perfettamente in sintonia con l'atmosfera dell'ufficio intero, la mole di dati nel computer si presentava ordinata col metodo e il rigore tipici di Johan De'Lain. Avendo già rovistato metà delle bacheche, con le cartelle di file fece molto prima. Notò che ogni cosa, dal primo file blocco note all'ultimo grafico di Excel, altro non era che la copia digitale di tutto il materiale cartaceo presente; Richard capì al volo che gli originali dovessero essere senza dubbio quelli telematici, e i cartacei le loro successive stampe. Ma non fu tanto questo a colpirlo, quanto una cartella di cui non registrava la presenza fisica tra le scartoffie.

Il suo nome era "Diario".

Richard la aprì, appurando che vi era solo un documento Word omonimo alla cartella all'interno. Cercò di aprire anch'esso, ma risultò protetto da password. Sorrise compiaciuto.

"E bravo papà... prudente come sempre, eh?"

Raccolse le sue conoscenze, aprì Access e iniziò a trafficare, lavorando fitto fitto. Ultimò la creazione del bruteforcer nel giro di dieci minuti. Mandato rapidamente in esecuzione, impiegò pochi secondi a trovare la chiave alfanumerica per aprire la porta a quel piccolo segreto professionale.

"Mi spiace... ma stavolta sono stato più bravo di te!" bisbigliò il pargolo unico e prediletto, felice di aver speso quindici anni della sua vita a programmare.

La sua carica si affievolì notevolmente quando diede un'occhiata più da vicino al documento. Lo scritto ricopriva pochissime righe.

4 settembre 2032

Da oggi si raddoppia la dose d'impegno! Ha aperto da poco la Toy Wiz, che ben presto diventerà la nostra prima e unica concorrente nel settore elettrodomestici. Dimostreremo a questi giovincelli che per far carriera bisogna tirar fuori le unghie, eccome se glielo dimostreremo! Richie diventa ogni giorno più abile. Non mi sorprenderebbe sapere che con le sue diavolerie ha anche un modo per leggere questo diario; e dato che ho il sospetto che prima o poi lo farai, caro il mio mascalzoncello preferito, voglio lasciarti un messaggio: ti ho amato tanto, e ti amerò sempre. Abbi cura della mamma e dille che amo tanto anche lei.

Con affetto,

Johan



Lesse e rilesse più volte, mai sazio del sincero affetto di suo padre. Poi si soffermò sulla prima parte del periodo: "Ha aperto da poco la Toy Wiz, che ben presto diventerà la nostra prima e unica concorrente nel settore elettrodomestici." Prima e unica concorrente...

Sentì bussare alla porta, saltò dalla sorpresa e fece shut down. Lasciava trasparire una certa inquietudine, ma fortunatamente fu un semplice impiegato a entrare nell'ufficio.

"Capo, c'è un tale signor Marskheil che la desidera. Lo faccio entrare?"

"Oh, sì, molte grazie" rispose sbrigativo.

"Richard..."

Harry Marskheil aprì la porta dell'ufficio di pochissimo, appena il necessario per passarci di fianco.

"Non ti porto buone notizie" annunciò, sedendosi davanti a lui. "O forse sì, dipende. Hanno effettuato una seconda autopsia sul corpo di tuo padre."

"Con che risultato?" Richard sperava in un chiarimento riguardo alla morte del padre, ma di certo non si aspettava ciò che le sue orecchie avrebbero udito a breve.

"Hanno trovato tracce di ammoniaca nel sangue, e un buco sul braccio sinistro che può solo essere opera di una siringa." Incrociò le braccia e abbassò il capo.

Richard si risollevò un po'. "Sono riusciti a trovare tracce di DNA che possano discolparmi?"

Harry si rassegnò al dovergli dire la verità nuda e cruda. "No. Il DNA presente sulla siringa non è d'altri che di tuo padre."

Non voleva crederci. "...Mi stai dicendo che sospettano il suicidio?!?"

"Mi dispiace. Io non..." non riuscì a finire la frase. Ci fu un lunghissimo silenzio.

"No, dispiace a me. Ti ho fatto perdere tempo." Si mise le mani tra i capelli. "Tutto questo non ha senso. Puoi... puoi anche tornare a casa."

Harry lo guardò. Sembrava infinitamente più vecchio. Annuì in rispettoso silenzio, si alzò e lasciò l'ufficio, e Richard solo nei suoi pensieri.

No, non ci voleva credere. Suo padre un suicida? Non poteva essere vero. Non era vero, e lui l'avrebbe provato.

Rintracciare la Toy Wiz fu moderatamente difficile, ma alla fine riuscì a trovarla. La fabbrica, di modeste dimensioni, si nascondeva dietro la sontuosa facciata frontale del negozio; sebbene quest'ultimo fosse ancora piccolo, gli interni rifiniti e ben predisposti lasciavano presumere una buona attività commerciale e un promettente futuro.

Non c'erano guardie, o forse erano in pausa pranzo. Richard entrò dalla porta principale passando quasi inosservato. Macchinari nuovi e splendenti trafficavano qua e là emanando sbuffi d'aria fresca e vaghe cortine di vapore acqueo. Le braccia umane della fabbrica sembravano davvero poche.

"Signore?"

Si girò: stavano chiamando proprio lui.

"Mi scusi, lei è...?"

"Oh, mi perdoni per l'intromissione" lo interruppe. "Sono Richard De'Lain, figlio dell'impresario vostro concorrente."

"...Capisco. Le mie condoglianze" mormorò l'impiegato, evidentemente a conoscenza della storia. "Posso aiutarla?"

"Potrei avere un brevissimo colloquio col padrone dell'impresa, se non le dispiace?" chiese, ricevendo uno sguardo furbo in risposta.

"Mio caro signore" fece il lavoratore "se lo conoscessi, domanderei volentieri."

Richard suppose di aver capito male. "Cosa intende?"

"Vede, questa attività è nata da un fallito negozio d'abbigliamento" spiegò l'altro. "La fabbrica, il negozio, tutto ciò che è rimasto è stato messo all'asta e comprato da un soggetto alquanto... come dire... strano."

Si sfilò il guanto destro e indicò il piccolo stemma bianco sulla manica sinistra, che spiccava sulla divisa turchese. Richard lo osservò più da vicino: prima pensò di leggervi "Toy Wiz"; dopo un po' e con buona fatica, si accorse che vi era invece scritto "Toivix".

"Di lui, o forse di lei, altro non sappiamo, se non che ha deciso di chiamare mago dei giocattoli una fabbrica di elettrodomestici."

Richard rifletté, tenendo per sé le considerazioni. "La ringrazio molto. Mi scusi per averle rubato del tempo".

"Si figuri". L'impiegato sembrava affabile e ben disponibile a dirgli altro, qualora ne avesse saputo di più, ma Richard si accontentò di sgattaiolare verso l'ufficio.

Porta scorrevole, nessuna maniglia e un apparecchio molto simile ad una calcolatrice con un display luminoso. Questi i particolari dell'entrata dell'ufficio, oltre al consueto Toy Wiz-Toivix inciso nel legno.

"Ma porca putt..." Richard si morse la lingua. "Massimo silenzio". Incrociò le braccia e si assicurò che nessuno l'avesse sentito. Dieci cifre davanti a lui e otto caratteri di spazio... una possibilità su cento milioni di indovinare la combinazione...

Si concentrò.

"Ok, se ho capito com'è andata questa sporca faccenda so la password. Se non la so, sono un uomo morto o condannato all'ergastolo." Le mani gli tremavano. Iniziò a digitare: prima cifra, seconda, terza, quarta, quinta, settima... ottava.

Un repentino click e la porta scorrevole si spalancò, rivelando al suo interno... una scrivania con un computer.

"Vediamo un po' se il mio passepartout digitale funziona..."

***



Bump.

Bump.

Bump.

Il martello del giudice tornò a colpire. Stavolta Percival Smoothstick era già in aula da parecchio, mentre Richard De'Lain era in ritardo di mezz'ora.

Irruppe letteralmente nella stanza, senza troppe formalità, trafelato e con una pila di disordinatissimi documenti sottobraccio.

"Signor De'Lain" borbottò di nuovo il giudice "ringrazi che questo è il suo ultimo processo, non avrei tollerato un minuto di attesa di più!"

"Mi perdoni, vostro onore, ma ho avuto bisogno di tempo per sistemare i moventi che provano la mia innocenza". Si sedette al consueto posto.

"A dire il vero" riprese il legale "abbiamo già appurato che si tratta inequivocabilmente di un suicidio. Non erano necessarie le sue prove."

Richard ghignò malignamente. "Oh, sì che lo sono. Mio padre non si è affatto suicidato, è stato ucciso dal quipresente Percival Smoothstick".

Non uno dei presenti, eccetto Richard, poté fare a meno di strabuzzare gli occhi per la meraviglia.

"Richard, sei impazzito?" intervenne l'accusato.

"No, mio caro ipocrita." Si girò, guardando il giudice negli occhi. "La faccenda del suicidio puzzava di bruciato dal primo momento. Dai recenti documenti si sarebbe potuto pensare che Johan De'Lain si sia tolto la vita per l'andamento del suo lavoro, ma ho la prova che quei documenti sono manomessi. Uno scritto rilasciato da mio padre stesso, risalente a inizio mese e confermato dal suo amico e custode della fabbrica Butch Kenneth, confuta la sua positività emotiva e attesta che fosse ben più che convinto a tener testa alla catena produttrice Toy Wiz, di cui penso sappiate ben poco... perché non ci dici qualcosa tu, Percy?"

Lui era verde di rabbia, gli occhi iniettati di sangue.

"D'accordo, lo farò io. Introducendomi nel database dell'azienda ho scoperto che è attestata nientemeno che a te, Percy. Tra l'altro, perché chiamare mago dei giocattoli una catena produttrice di elettrodomestici? Presto detto: per la TUA mania di protagonismo. Toy Wiz è una trascrizione libera di Toivix; a sua volta, Toivix ha una grafia molto simile al greco Phoinix, nientemeno che Phoenix, o per meglio dire Phoenix Wright... lo conoscete, vostro onore? C'è qualcuno qui che si divertiva a fare l'avvocato anche ai tempi del liceo classico, e devo dire che la scuola gli ha anche portato uno pseudonimo niente male!"

La fatica cominciava a farsi sentire, ma continuò. "Ah, e riguardo alla faccenda della siringa... ho scoperto solo dopo che mio padre faceva cure vitaminiche per iniezione. Ovvio che c'è solo suo DNA sulla siringa. Ma l'ammoniaca di cui si è trovata traccia nel sangue proviene nientemeno che dal caffé che ha preso la sera prima al bar, e che mister Smoothstick ha insistito a offrirgli! E tutto questo per cosa? Soldi. Solo soldi! Era invidioso della fama della De'Lain Productions, e ha pensato bene di annientare letteralmente la concorrenza!"

"Mister De'Lain, le sue accuse sono profondamente ingiuriose e non possono essere prese per vere così alla leggera" obiettò il legale. "Come confuterà le sue teorie?"

"Nell'unico modo possibile: mostrandovi personalmente il computer dell'ufficio di mister Smoothstick, che con la sua intelligenza sopraffina ha inserito una password decimale di otto caratteri identica alla sua data di nascita, per aprire la porta del suo ufficio. Ma tutto ciò non sarebbe stato possibile senza l'aiuto del signor Harry Marskheil, abilissimo nel trovare prove... quanto nel contraffarle. Il suo compito era di depistarmi, non per nulla il quipresente Smoothstick ha fatto pressioni affinché assumessi lui come detective privato!"

Aveva il fiato mozzo, era sordo e cieco a qualsiasi manifestazione di tentata discolpa da parte dell'ormai indifendibile avvocato. "Vostro onore" continuò, con estremo sforzo "dalla vita mi sarei aspettato ogni genere di sorprese, ma non di dover accusare un amico di aver ucciso per soldi versando dell'ammoniaca in un caffé e mascherato meschinamente lo scempio tentando di farlo passare come suicidio. Eppure, così è. La prego, voglia verificare che quanto sto affermando corrisponde alla verità."

Era stanchissimo. Il bruteforce delle varie passwords gli aveva rubato ore e ore quella notte. Qualcosa lo colpì sulla testa, duro e freddo come la pietra; tra le ultime immagini indistinte che vide, prima di svenire, distinse forze dell'ordine bloccare la foga dell'avvocato, mentre brandiva un qualcosa di irriconoscibile.

"Rich... ehi, Richie..."

Fino a un attimo prima, aveva creduto che fosse tutto finito. Poi, quella voce dolce lo riportò alla realtà.

"Mamma?"

"Oh, Richie!" Lo abbracciò forte. "Stai bene?"

"Sì, ma..." tentò di tirarsi su, ma sprofondò di nuovo nel letto dell'ospedale. "Che cosa...?"

"Quel pazzo! Portarsi una mazza in aula... inaudito!" farfugliava lei, ma Richard aveva già capito. "Senti, non ti preoccupare. Com'è finita?"

"Oh, ti stanno aspettando per entrare in quel famoso ufficio" gli disse. "Pensa a guarire e riprenderti, tanto quel tale non se la caverà. Se pure venisse scoperto innocente, come minimo si beccherebbe qualche mese in gattabuia per tentato omicidio!"

Eh, sì... era proprio la donna di sempre. "Dopotutto, mamma... me l'hai insegnato tu, da bambino, con tutte le tue favole... la verità trionfa sempre..." fissò i suoi occhi scuri, ancora pieni di affetto.

La madre ricambiò il suo sguardo. "Sei ancora un giovanotto, eh?"

"Certo" confermò felice. "Anche papà lo è ancora, e ha detto che ti ama tanto."
 

Gkx

Admin
Non c'era speranza per lui, questa volta.

Per il mondo, ovviamente. O almeno, per i suoi abitanti. Poche forme di vita sarebbero state in grado di sopravvivere a quello che era successo: qualche batterio, forse addirittura qualche insetto. Ma, con ogni probabilità, anche loro, come tutti gli altri, erano morti.

Allora, perché lui era sopravvissuto?

Era a questo che l'uomo pensava, camminando lentamente lungo quello che rimaneva di una strada che costeggiava un fiume, reggendo un vecchio ombrello nero e lacero a malapena in grado di svolgere il proprio compito. Si guardava intorno, e anche il più piccolo particolare del paesaggio che aveva sotto gli occhi confermava amaramente le sue supposizioni.

Non era rimasto nulla.

Il cielo era completamente coperto, invaso da una fitta coltre di nubi scure che vorticavano incessantemente senza dare la minima impressione di volersi diradare, presto o tardi: la luce del sole riusciva a malapena a filtrare attraverso di esse, e nonostante fosse quasi mezzogiorno sembrava che la notte fosse ormai alle porte. Da quelle nubi cadeva una pioggia sottile e bruciante, il cui suono riempiva l'aria come una tetra armonia. Sembrava quasi che stessero piangendo. Le acque del fiume erano grigie e opache, ed emanavano una nauseante puzza di infetto. La terra era nera, completamente arsa da qualcosa di diverso da un normale fuoco; i pochi alberi rimasti erano bruciati, e i loro fusti scheletrici si levavano verso il cielo in cerca di un aiuto, o almeno di una risposta.

Già, una risposta. Che lui conosceva, purtroppo. Lui sapeva esattamente che cosa era andato storto: si erano spinti troppo in là.

Era una persona importante, tempo prima. Uno scienziato, uno dei più celebri del mondo intero, sempre in prima linea nella formulazione e nella ricerca di conferme delle nuove teorie, uno degli uomini il cui scopo nella vita è leggere la mente di Dio. La storia dei suoi successi è troppo lunga per essere raccontata; tuttavia, per quanto vasta la portata di tutte le sue più altre grandi conquiste messe insieme impallidirebbe se confrontata all'assoluta grandezza dell'ultima.

Energia illimitata.

Il giorno in cui aveva scoperto la chiave di quel potere, dopo aver controllato e verificato per mesi, se non anni, le sue teorie alla ricerca di un riscontro pratico, si era sentito onnipotente come un dio. Aveva scoperto il santo graal di qualsiasi scienziato, che sarebbe stato in grado di risolvere in via definitiva il più grande problema dell'umanità intera. In poco tempo, i risultati delle sue ricerche erano stati applicati e sfruttati al meglio, e come lui stesso aveva predetto e auspicato l'uomo si liberò dalle sue catene.

Ma quello che non aveva predetto, e che di certo non aveva auspicato, era che non sempre le catene sono dannose.

Il mondo in cui viveva non era perfetto. C'erano ancora aspri contrasti, attriti internazionali di grande portata, forti squilibri economici e sociali tra le varie nazioni. Al momento, non le aveva ritenute questioni importanti: grazie al dono che lui avrebbe fatto al mondo, tutti i contrasti sarebbero stati appianati, tutti gli squilibri risolti, e l'umanità avrebbe potuto marciare unita verso una nuova età dell'oro.

Si aspettava che il potere assoluto portasse all'illuminazione assoluta, e non alla corruzione assoluta come aveva spesso sentito dire. Non era mai stato in grado di credere sul serio a quegli inutili allarmismi. Non poteva - non voleva - rendersi conto che quello che riteneva un dono non era in realtà altro se non la maledizione più terribile.

Quando aveva infine compreso la portata dell'errore che aveva commesso - il più grande di tutta la storia del mondo - aveva subito cercato di dissuadere coloro a cui lui aveva donato quel potere dallo sfruttarlo. Il metodo non era stato studiato per essere applicato in quel modo: non era stato testato, non era stato studiato, non era per nulla sicuro. Avrebbero liberato una quantità di energia inimmaginabile, che sarebbe stata molto difficile se non addirittura impossibile da controllare. Ma loro erano troppo presi dal loro potere, dalla loro volontà di essere temuti più che rispettati, di affermare se stessi su tutto e tutti. Non avevano voluto ascoltarlo.

Se ne erano andati tutti, nessuno escluso.

Quasi nessuno, anzi. Lui era ancora lì, forse l'unico essere vivente scampato alla distruzione dell'intero pianeta senza riportare il minimo danno, l'ultimo superstite circondato da nient'altro che morte.

E forse era proprio quello il motivo: lui non era morto proprio per poter contemplare le rovine che lui stesso aveva contribuito a creare. Non aveva mai creduto nell'esistenza di un qualsiasi creatore o essere superiore in vita sua, né quella catastrofe aveva cambiato il suo modo di vedere le cose. Quale essere onnipotente avrebbe voluto creare un mondo imperfetto come il loro? Eppure, non riusciva a scacciarsi dalla testa il pensiero che quel dio sconosciuto esistesse e lo avesse lasciato in vita non per pietà, ma per punire il suo sconfinato orgoglio. Se così era, aveva raggiunto il suo scopo.

Il filo dei suoi pensieri fu rotto quando una grossa goccia di pioggia lo colpì sulla testa, riuscendo finalmente a vincere la già precaria resistenza offerta dal suo ombrello. Fece una smorfia e soffocò un urlo. Erano finiti ormai i tempi in cui dal cielo pioveva solo acqua pura e innocua. Abbassò lentamente la sua protezione ormai diventata inservibile, corrosa com'era da quel veleno, e alzò lo sguardo verso il cielo invaso dalle nubi. La pioggia riempì in pochi secondi i suoi occhi, provocandogli un bruciore insopportabile, mentre altre gocce sottili come aghi gli bucherellavano gli abiti.

Alla fine, il momento era giunto.

Gettò quello che rimaneva dell'ombrello nel fiume, e lentamente e faticosamente, si sdraiò a terra vicino alla riva. Non ricordava di essersi mai sentito tanto stanco in vita sua. Il terreno era scuro e fangoso, e bruciava al contatto con la pelle. Respirava a fondo, lasciando che quell'aria velenosa entrasse dentro di lui per terminare la propria opera.

Mentre la pioggia si accaniva su di lui, il suo pensiero tornò alla sua ultima opera, che aveva terminato poco prima di uscire all'aperto per l'ultima volta.

Aveva avuto un ruolo determinante nella distruzione dell'umanità: niente avrebbe potuto riportarla indietro, certo. Ma la sua memoria non se ne sarebbe andata con lei.

Vedendo che tutto era ormai perduto, aveva scelto di trascorrere gli ultimi giorni della propria vita raccogliendo e catalogando tutte le conoscenze, tutte le opere della mente e del cuore che la sua razza aveva prodotto nel corso dei millenni. Non aveva compiuto scelte: aveva inserito tutto, senza distinzione di qualità percepita o effettiva, e aveva istruito le reti delle macchine costruite dall'uomo perché trasmettessero ripetutamente quel gigantesco archivio nello spazio, almeno finché il tempo non avesse avuto ragione anche di loro.

Lui stesso aveva scritto la prefazione all'opera omnia del mondo, l'ultima pagina della storia dell'umanità, traducendola in tutte le lingue che conosceva, descrivendo quello che eventuali ascoltatori avrebbero trovato, mettendoli in guardia contro gli errori che alcuni di loro - lui primo fra tutti - avevano commesso, incitandoli a ritrasmettere all'infinito quell'ultimo messaggio, in modo da non lasciare che la loro storia fosse ingoiata nell'oblio.

Anche se morto, il suo popolo avrebbe continuato ad esistere per l'eternità.

Ormai, l'opera distruttrice dell'acqua e dell'aria avvelenate per sempre era quasi compiuta. Sentiva la vita abbandonarlo, scivolare via dei suoi resti devastati. Gli sembrò, nel fragore della pioggia battente, di udire un suono lontano, come un vago squillo di tromba. Non vi fece caso. Probabilmente soltanto un ultimo messaggio privo di significato inviato dai suoi organi di senso ormai in rovina, incapaci di razionalizzare la propria fine.

Poi, il nulla.

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Non c'è speranza per lui, questa volta. Alla crinolìna di Virginia, divaricatasi innaturale, gesto consegue: nel buio le mani, allontanate per daga le calotte tissutali ch’incisione ha rese dall'intero indumento, gettansi.  L'intrusione non sgomentala e fracassagl’ella il viso, glabro adiace al muro. La testa pende sui tendaggi, il sangue chiazzali. Scivolando verso terra il capo, adesso è inottimale la solidarietà del busto: l'osso del collo si rompe!

L’abitacolo boccale rantola ancora, Virginia mettevi mano e conficca la daga nella grassa natica destra (a qualche centimetro dalla sinistra, non centralmente): la parete perforasi subito del retto, un rimestarsi di emissioni genito-anali segue interna. Pure incappata negli intestini, la lama percorre longitudinalmente la salma (ormai è crepato) pubescente. Perfetta simmetria, salvo il disturbo alla perfezione recato dall'imbarazzante groviglio di intestini e fecal massa sprigionatosi dalla lesione malandrina al culo! Le labbra di Virginia aberrano in un sorriso.

Si ricongiunge l'armato pugno al pugno nudo, che come amo Virginia ha infilato nella bocca del ragazzo. Agguanta l'irreattivo viso con il primo, devasta ilare con la daga nell’altro. Sventra, ah! Sventra il testolino del ragazzino. Ne mangia il contenuto, incarta ciò che rimane. Però butta il cervello fuori dalla finestra. Si vede che non gradiscelo.

"Che è del garzone?" chiede Ombretta. (Intanto, io ci riderei per ore, il cervello vertigina dalla finestra dell’ala est, sulla testa di una vecchia che muore di infarto appena ciò accade! Grottesco! Dei furetti la scavalcano noncuranti, particolare ancor più grottesco!)

Sorride Virginia "Ho mangiatogli la testa, il resto lo vuoi?"

"No, grazie".

L’ospite gradita intuisce la locazione dell’abietto morto dalla puzza, è come la bottega del macellaio che esercita in una tomba vuota. Ha lasciato solo le ossa, della consorte vìolata plurime volte dopo l’uxoricidio. Per giocarci con le bambine, che giochi! Ossuari ma giocosi! L’odore è identico, Ombretta è una di quelle bimbe. Rammenta di quando le forzò un bacino di donna adulta nella vulva.  Tale struttura ossea è ancora lì, dove fu forzata.

“Sei sopravvissuta, cosa vuoi di più? Bambina viziata!” la intimidiva il padre quando lei pretendeva un intervento di rimozione chirurgica.

Si volta, cerca i seni sezionati a tronco di cono. Le mammelle recise di Virginia. Sono da qualche parte nel terriccio battuto dagli asini. Il resto dei seni è ancora attaccato al busto. Ma non è possibile! Virginia si è tinta di blu Wisteria. Dalla sua tempia destra, sfiorita in un vulcano di materia grigia, si fa strada un varano, picaresco, gli occhi a forma di denari. Sull’addome un apparecchio che trasmette immagini, non ne aveva mai visti. Ma si confonde, sciocca! Si tratta meramente di un televisore.

Ombretta muore e scimitarre senza impugnatura le escono dal crepuscolo. Nei cinque minuti che separano il decesso clinico dal momento in cui ha visto il rettile fare cu-cu per metonimia dalla sua amichetta, ha dettato al Varano stesso, in realtà molto evoluto (he has a degree in law), il dramma della sua buona amica.

Non pervenuto.
 

Gkx

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Ogni mio pensiero mi rimbomba nelle tempie come le campane a nozze: “Non c'era speranza per lei, questa volta, sarà l’ultima!”. Queste le parole che, leccandomi le labbra ora ricurve in un sorriso scaturito dalla letizia più pura, sono state imposte per questa splendida nottata piovosa d’ottobre.

Dal bianco soffitto passo alla rosea carta da parati che ricopre il soffitto, e in seguito sulla tenera moquette, il cui disegno di prato fiorito è a tratti velato da una abnorme massa di peluche e balocchi di vario genere. Appena a terra non riesco a sottrarmi dal stirare la mia povera schiena, forzata ad una flessione innaturale durante gli infiniti giorni passati sulla volta di quella piccola cameretta in attesa di poter finalmente scendere, ed infine, mi dirigo verso quel minuto lettino che con tanta cura sta conservando la sua piccola anima.

Una piccola lampadina azzurra posta nell’angolo vicino al letto illumina la zona e colora il bianco legno della finestra sulla quale le gocce di pioggia portate dal vento si infrangono, fino al momento in cui la svito e mi siedo sul letto spalle alla finestra.

Mentre sposto i capelli dalla fronte della piccola e mi appresto a privarla della poca linfa vitale che le è rimasta, una saetta rende nota la sua presenza. Il possente rombo passa, la luce accecante no. Proprio di fronte a me, dalla serratura della porta un fascio di luce penetra e trasforma la notte in giorno lasciando presagire che nulla di buono sta per affacciarsi su questa stanzetta.

Velocemente salto dall’altra parte del letto, apro la finestra e balzo sull’albero posto a pochi metri dalla casa, osservando attraverso quei vetri bagnati ora socchiusi. La luce si fa più intensa col passare dei secondi, ed in poco tempo forma una sfera luminosa che inevitabilmente sveglia la piccolina. Non caccia neppure un urlo, si rintana sotto le coperte. Non ho idea di cosa sono testimone fino a che la sfera prende sembianze più umane; della sorellina morta 6 mesi or sono per essere precisi. Rammento bene il gusto delicato della sua essenza quando gliela portavo via poco a poco, e ancor meglio rammento per quanto tempo la tristezza di questa qui rese insipida la sua.

Un Lidérc!

Una patetica manifestazione di una pietosa razza che ha deciso di sedersi all’ombra del nostro essere e di mimare ciò a cui non potranno mai ambire. Peccato però che tra pochi minuti la bambina sarà morta e io rimarrò a bocca asciutta… e che il Diavolo mi richiami all’Ade se permetterò che tale circostanza possa avere luogo! Per annientarlo mi serve un ramo di betulla. Dietro alla casa c’è un piccolo boschetto nel quale ce ne sono sicuramente, ma a piedi non posso fare in tempo… non c’è più bisogno di giocarla in silenzio, non più! Balzo sul tetto della casa e mentre lo attraverso diverse tegole cadono accompagnando la pioggia onnipresente, e prima che queste tocchino il terreno mi ritrovo a terra con in mano un robusto ramo di betulla. Il tempo stringe.

Corro attorno alla casa e con un balzo irrompo dalla finestra dalla quale ero uscito, ed in quel preciso istante l’ira più incontaminata sarebbe impallidita se confrontata alla mia. La piccola era prosciugata di qualsivoglia segno di vita… e il Lidérc, ancora in forma umana, vestiva un ghigno soddisfatto.

Ciò che seguì fu un puro idillio di malvagità, indubbiamente la trasposizione perfetta per “tortura” “vendetta” e “sofferenza” che vide la sua conclusione quando il ramo penetrò le tempie provocando la fine di quell’infima forma di vita tra le eterne fiamme purificatrici. Il fuoco provocato dal Lidérc si rifiutò però di arrestarsi alla sola camera, e prese l’intera dimora prima e il minuto bosco in seguito.

La pioggia si è acquietata e lo sconforto è mi accompagna nel corso del viaggio notturno diretto ad una nuova casa, speranzoso di trovare un’abbondanza vita tale da soddisfarmi per molto tempo.

… ma intanto ho ancora fame, maledizione!

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“Si è svegliato!”

Non appena aprì gli occhi, Max si trovò puntata addosso una lampada al neon.

“Chi sei?”

Max ci mise un po’ a capire quello che stava succedendo. La stanza nella quale si trovava era completamente buia, e la lampada che si trovava davanti agli occhi era l’ unica fonte di luce.

“Vuoi rispondere, o preferisci rimanere qui per il resto dei tuoi giorni?”

In quell’istante, Max si rese conto di essere legato, e in un lampo realizzò ciò che stava succedendo.

“Come avete fatto a prendermi?” chiese infine.

“Idiota. Pensavi non avremmo notato la stessa macchina, tutti i giorni, parcheggiata nello stesso posto? Se ti interessi alle nostre attività, dovresti conoscere bene il come ed il perché.”

Stava confessando. Tipico dei criminali troppo sicuri di sé. Max provò ad identificare il suo interlocutore, non riuscendo a scorgere altro che un paio di occhiali scuri. Decise quindi di continuare la conversazione, più attento che mai.

“A dire il vero, al momento mi sfuggono le vostre reali intenzioni. A che scopo rapire tutte quelle persone?”

“Mh? Sto cominciando a pensare di aver fatto un errore, portandoti qui. A giudicare dalle domande che fai, probabilmente non saresti mai riuscito a dimostrare qualcosa contro di noi. In ogni caso, come si usa dire ,non vivrai abbastanza per raccontare ad altri ciò che hai udito qui.”

In effetti, Max intuiva benissimo le intenzioni di quei criminali. Ne aveva incastrarti tanti, prima di loro, ma mai si era trovato in una situazione simile, ed aveva bisogno di tempo...

“Il solo fatto che voi mi abbiate rapito, vi costituisce come criminali. Di certo la mia sparizione non passerà inosservata, e quando risaliranno a voi, sicuramente dovrete rispondere di molte cose.”

Se Max avesse potuto scorgere la faccia del suo interlocutore in quel momento, avrebbe certamente notato il rivolo di sudore che ora gli bagnava la fronte.

“Per chi lavori?”

Per la prima volta nella vita, Max si sentì grato di non avere mai portato con sé, durante le indagini, cellulare, distintivo, o altri dispositivi identificativi.

“Per qualcuno che ha notato le vostre riunioni, e di certo non mi abbandonerebbe mai nelle vostre mani. Anche se mi uccideste ora, sarebbe comunque troppo tardi. La verità verrà a galla, e presto.”

Silenzio.

Max si chiese se quest’ultima risposta non fosse stata un po’ troppo azzardata, e per la prima volta, fu invaso dalla paura.

“Se quel che dici corrisponde effettivamente al vero, per noi sarebbe un bel casino. Ma di certo non siamo i tipi da farci intimorire dal primo che passa. Sappiamo già come reagire a questa eventualità, era prevista.”

Max fu preso dallo sconforto; non si aspettava una simile risposta, e ormai stava finendo gli argomenti di conversazione. Fortunatamente, fu il tipo con gli occhiali scuri, a parlare per primo.

“Mettiamola così. Se noi fossimo effettivamente spacciati, non farebbe alcuna differenza ucciderti ora o in seguito. Se, al contrario tu ci dicessi quello che sai, probabilmente avresti qualche possibilità di salvezza... cosa ne dici?”

Bluffava. Il suo discorso era privo di qualsiasi fondamento, e Max lo sapeva. Probabilmente quel tipo non aveva ancora capito con chi aveva a che fare... quel tentativo era inutile contro di lui. Evidentemente anche il suo avversario stava iniziando a mostrare i primi segni di stanchezza e nervosismo, e questo diede a Max il coraggio di osare ancora di più.

“No. Il tuo ragionamento non ha alcun senso; preferisco morire per incastrarvi, piuttosto che aiutarvi, finendo probabilmente per fare la stessa fine.”

Aveva fatto centro. L’ uomo sembrava ora ancor più in difficoltà, di certo non poteva reggere la conversazione ancora a lungo.

“Bene, se è questa la tua decisione... come desideri, non abbiamo bisogno delle tue informazioni, addio.”

Come? Se ne stava andando? Probabilmente avrebbe riferito la loro discussione al resto del suo gruppo, ed insieme avrebbero deciso sul da farsi. Di una cosa Max era sicuro: di certo non avrebbero potuto ucciderlo senza prima aver ottenuto le informazioni che cercavano.

Qualche minuto, o forse qualche ora dopo, Max si lasciò avvolgere dal sonno.

Una convocazione urgente? Cosa mai avrebbe potuto volere il capo da lui, questa volta?

“È permesso?”

“Prego, entri pure.”

Da quando lavorava nell’ FBI, era la prima volta che il suo capo convocava Max nel proprio ufficio.

“Come potrà ben immaginare, se l’ abbiamo fatta convocare qui d’urgenza, significa che siamo nei guai. Grossi guai. Avrà di certo sentito parlare delle sparizioni avvenute negli ultimi mesi... campioni sportivi, autorità politiche e religiose, militari. Moltissimi volti importanti della nostra società, sono spariti nel nulla, volatilizzati senza lasciare tracce, senza che la polizia internazionale possa farci nulla. Il mondo ora si affida a noi, capisce?”

Max era al corrente di questa situazione, che andava avanti ormai da molto tempo, convinto però che le indagini stessero procedendo senza difficoltà.

“Nessun indizio, qualche sospettato?” chiese ingenuamente.

“Se li avessimo, non ci rivolgeremmo a lei, le pare? In passato ha già dato prova delle sue doti, no?”

Era vero. Max si era procurato una certa fama, per quanto questo fosse possibile lavorando nell’ FBI, come detective.

“Già, ma in passato le cose erano diverse. I bersagli non erano le persone più in vista del nostro secolo, e le circostanze non sono mai state così misteriose.”

“Andiamo, non è curioso di scoprire la verità?”

Il suo capo era sempre stato bravo nel convincere ed incuriosire le persone.

“... Va bene. Accetto.”

“Ne ero sicuro! Le sono personalmente grato per il suo impegno.”

Ora il suo volto appariva visibilmente più sollevato.

“Può partire sin da ora con le indagini, ma questa volta, considerati gli episodi precedenti... ecco, con il suo consenso gradiremmo inserire sotto la sua cute un chip che rilevi costantemente la sua posizione. Non sarebbe la prima volta che lei risulta non rintracciabile a causa della dimenticanza del cellulare altrove...”

Max accennò un sorriso, si stava preoccupando per nulla.

“Certo, nessun problema.” – rispose.

A quelle parole, il suo capo fece una rapida telefonata, poi spiegò:

“La aspettano in laboratorio, nel quale le verranno forniti anche i pochi dettagli dei quali siamo a conoscenza. Si ricordi, è richiesto un rapporto ogni ventiquattro ore, in caso contrario saremo costretti a darla per disperso.”

Max aveva già oltrepassato la soglia della porta, e si stava dirigendo altrove, quando il suo capo lo chiamò di nuovo.

“Ah, quasi dimenticavo: il dispositivo che le verrà dato resterà in funzione soltanto fintantoché lei sarà vivo, sa cosa significa questo?”

Max esitò.

“Non morire.”

Questa volta, furono le luci di quattro lampadine a svegliare Max. La stanza nella quale si trovava era completamente illuminata. Davanti a lui si trovava, in piedi, una figura femminile.

“Ciao, dormito bene?”

Quanto tempo era passato? Max aveva perso la concezione del tempo.

“Allora, hai deciso cosa fare? Morire da stupido, o tentare di salvarti?”

“Che ore sono?” chiese Max per tutta risposta.

La giovane ragazza si mostrò seccata da questa domanda, ma decise di rispondere egualmente.

“Sono le 23.00 del 24 settembre. Hai deciso cosa farai?” Incalzò lei.

Il 24 settembre. Max aveva spedito il suo ultimo rapporto all’ FBI proprio la mezzanotte del giorno prima. Un’ora al massimo e l’intero edificio si sarebbe ritrovato pieno di agenti. Vivere o morire non aveva più alcuna importanza, ciò che contava ora era la /verità/.

“Credo sia ora di scoprire le carte in tavola.” – disse finalmente lui.

“Verità per verità, cosa ne dici?”

La risposta sembrò divertire la sua giovane interlocutrice.

“Mi piace, ci sto. Ovviamente non ti dirò dove teniamo le nostre vittime, ma quanto al metodo di sequestro, non credo ci sia nulla di male.”

“Mi sta bene.” Disse Max abbozzando un sorriso.

“Beh, è semplice. Pensavo l’avessi intuito, ormai, forse ti abbiamo sopravvalutato.

Non facciamo altro che utilizzare un narcotico di nuova concezione, inventato appositamente da noi. Addormenta chiunque nel raggio di dieci chilometri, e non c’è filtro che tenga, e ovviamente non lascia tracce. Basta un respiro... non chiedermi come funziona perché non ne ho idea.

Del resto l’hai sperimentato anche tu, per ben due volte... e se non ti sei svegliato nemmeno durante il viaggio...”

“Viaggio?” la interruppe Max, stupito e allarmato.

“Beh, si, suppongo di poterti dire tutto, ormai. Tanto l’ avrai capito che non vivrai ancora a lungo.”

Disse lei con naturalezza, mostrando la pistola che teneva con sé.

“Credevi che saremmo rimasti fermi ad aspettare l’arrivo di qualcun altro? L’abbiamo capito che lavori per qualcuno.”

Quelle ultime parole preoccuparono Max non poco. Sapeva che se fosse morto prima della mezzanotte, probabilmente nessuno sarebbe più stato in grado di individuare la sua posizione, trasmessa ai computer dell’ FBI solamente ad intervalli regolari.

“È il tuo turno.” – incalzò lei mentre Max era ancora immerso fra i propri pensieri.

Non rimaneva altro da fare che temporeggiare. E sperare...

“Lavoro per l’FBI” – esordì lui con grande stupore della sua interlocutrice.

“Sì, finalmente sono riuscito a rintracciarvi. Pensavate non avessimo notato le stesse persone, riunite nello stesso posto, tutti i giorni precedenti le sparizioni?”

Effettivamente a Max c’erano voluti alcuni mesi per giungere a quella conclusione. Probabilmente, se non fosse stato sequestrato di lì a poco, avrebbe presto abbandonato la pista.

“E ora l’FBI è sulle vostre tracce, ed è ansioso di conoscere la verità.” – proseguì lui, sicuro.

“Non importa se mi ucciderete ora, o se non lo farete proprio, vi troveranno comunque, presto.”

A quelle parole, la ragazza corse via dalla stanza. Evidentemente non aveva l’autorità necessaria a decidere della sua vita, e quelle parole l’avevano turbata parecchio. Dopo pochi minuti, che a Max parvero ore, un vecchio si presentò alla soglia dell’unica porta presente.

“Piacere, sono ho creato io il nuovo narcotico. Entro qui solo per dirti che, se le mie ipotesi si riveleranno corrette, il gas dovrebbe avere effetti letali, se assunto in grande quantità. Per ora, tu sei l’ unico ad averne inalato due volte... non credo reggerai la terza. Dovresti esserne onorato, sarai la mia cavia.”

Detto questo, indietreggiò, chiudendosi la porta alle spalle. Non c’era speranza per lui, quella volta.

Uscendo, lo sentì pronunciare le seguenti parole: “Ora del decesso, 00.12.”

Anche a costo della sua stessa vita, la /verità/ aveva trionfato ancora.
 

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[Racconto rimosso sotto richiesta dell'autore. Se vi interessa leggerlo, contattatelo.]
 
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Non c'era speranza per lui, questa volta.

Non più.

La calibro 9 del Capitano McCallahan era ben lontana, in terra, accanto alla testa senza vita del suo proprietario. I suoi occhi, ancora accesi, contemplavano con reale curiosità la ruota di un furgone, un vecchio cherokee sporco di sabbia, fango, sudore e silenzio. Quel particolare silenzio di chi si alza tutti i giorni alle 5 del mattino; fa a gara, ogni giorno, per poter salire sulla jeep, per essere ammassato come il più inutile dei sacchi di patate, ogni fottuto giorno, insieme ad altri disperati, degli sconosciuti, sì, ma uguali a te. Un viaggio premio verso l’inferno, un luogo in cui spaccarsi la schiena per qualche dollaro che verrà presto bruciato per rendere meno fredde le notti di El Paso.

Il Capitano fissava quella ruota, adesso, o forse il contrario.

Pastor era accasciato in terra. Poggiava le spalle su un grosso barile che, silenziosamente, accettava l'insolito ruolo di calamita per i proiettili. Nella mano destra reggeva la pistola d’ordinanza e con la sinistra si premeva con forza nel bassoventre. Aveva esitato un attimo di troppo guardando Adeene crollare in terra, risultato: un buco nella pancia per lui, nella testa per lei.

Robert Rodriguez era stato il primo ad andarsene. Il fratello, Anselmo, (chissà perchè, Robert è sempre stato Rodriguez ma Anselmo non è mai stato Rodriguez) si trovava accanto a lui quando fu colpito.

Occorre fortuna per beccarsi la prima pallottola.

Anselmo lo aveva visto crollare in terra, accompagnato da un singolo grido di dolore; un grido che cancellava di colpo tutti gli anni di apprendistato, tutti i manuali, tutte le regole non scritte, tutte le notti per strada e anche quelle a casa con la famiglia. Dopo quel lunghissimo secondo, era scattato, accecato dalla perdita, in direzione opposta al proiettile. Si sentirono altri spari in seguito, ma Anselmo non tornò più.

"Quattro, forse cinque morti, se mi impegno anche sei. Fin troppi per un lunedì mattina", pensava.

Eppure, tutto doveva essere così semplice e lineare, persino lui aveva capito il programma della mattinata al primo tentativo.

Osservavano quella banda da mesi ormai. Finalmente, due settimane fa, l’agente infiltrato, un tipo alto, silenzioso, capelli biondi a spazzola ed un fisico da camionista, aveva ottenuto un’informazione valida: gli orari della prossima "spedizione".

Sì, era fottutamente semplice e lineare.

Alle 6 del mattino - "Le sei del mattino… spero ne valga la pena" - un autoarticolato sarebbe uscito dalla Game&Sports Co. per iniziare un tour dei peggiori autogrill, pub ed ogni altra sorta di bettola nell'arco di 100 chilometri. Ritirava dei cabinati da gioco, sì, insomma, quelle macchinette mangiasoldi che fioriscono tra lo squallore ed il degrado, nell'angolo meno illuminato (a nessuno interessava vedere la faccia del compagno di sventura, benché meno che gli altri guardassero la propria) di ogni localaccio che si rispetti. In cambio depositava altri cabinati, carichi di utopie bastarde, debiti, fumo passivo ed una piccola sorpresa nel vano in cui si depositano le monetine insieme alle aspettative disilluse.

La sorpresina non era altro che un incentivo al gioco.

Una discreta quantità di cocaina; abbastanza per dare energia ai poveri disperati che, anche questo mese, avrebbero cercato una via di fuga dai loro problemi tra le ombre e la puzza di morte della bettola di turno.

La prima tappa del tour dei benefattori, era un autogrill di provincia.

Dove per autogrill si intende una capanna di legno e lamiera e per provincia si intende un pezzo di terra rossa in mezzo al nulla. Un'oasi nel deserto per i lavoratori dei pozzi petroliferi, che sorgevano tutto attorno. Una sporca oasi con birra e whiskey al posto dell'acqua e sgabelli privi di imbottitura a sostituire le palme. La gente che frequentava quel posto proveniva da un altro mondo; messicani disillusi, americani disperati od individui che non avevano mai avuto un paese da considerare proprio. Gente che non aveva nulla da perdere. Apparte la vita, a cui erano stranamente attaccati. Chiamatela fede, chiamatela abitudine, chiamatela ignoranza ma, questa tipologia di uomini, è quella più difficile da eliminare. Folli; a volte nei loro occhi puoi vedere la morte, la tua morte, sottoforma di sudore e facce sporche, musi che ti ghignano in faccia il loro disprezzo per la vita: la tua. Altre volte, invece, li vedi scappare come dei conigli, in modo confuso, barcollando. Tanto attaccati a questo mondo quanto inermi ed insignificanti.

Come capirete, non era esattamente il miglior modo per iniziare la settimana.

Adesso si trovava lì, dentro quella specie di rimessa che veniva usata come garage per le macchine pesanti. Era anche un’officina. Di certo, per ritrovarsi a spostare sabbia in questo angolo di mondo, quelle carrette non dovevano esser messe tanto bene.

Quanti erano loro?

Non se lo ricordava.

Sapeva per certo di averne uccisi tre, poi ne aveva visti altri per terra, colpiti dai suoi colleghi, ma non poteva aver alcuna certezza.

Lui, accucciato di fianco alla ruota di un grosso camion, contava le munizioni rimaste. Ogni tanto qualche colpo s’infrangeva dall’altra parte dell’automezzo, un timido segnale: “Siamo ancora vivi”.

“Lo so che siete ancora vivi, bastardi…”, pensava soppesando, con la mano libera, i sette proiettili rimasti.

Probabilmente qualcuno aveva chiamato dei rinforzi, probabilmente qualche lavoratore onesto aveva alzato la cornetta per cercare aiuto. Ma era altrettanto logico pensare che, probabilmente, qualcuno aveva fatto una soffiata, probabilmente quelli dall’altra parte erano troppo ben preparati, probabilmente tutti i suoi colleghi erano già morti. Probabilmente, lui era già morto.

No. Era ancora là. Vivo.

“Se hai ancora la forza per piangerti addosso, allora hai anche quella per alzarti e sparare”.

Si dava la forza, pensava e sorrideva tra se e se.

Alzarsi e sparare.

Ecco cosa doveva fare.

Se fosse morto, che ne sarebbe stato della missione?

“Si fotta la missione, ci hanno mandato a morire nel deserto per quattro messicani strafatti.

Se proprio devo morire – sì, perché non posso illudermi: devo morire, qui e oggi – porterò loro giù con me. Andremo a braccetto dal bastardo del piano di sotto. Io Gli sorriderò, mostrando, con un ampio gesto delle braccia, il mio presente per l’occasione – non è molto, Eccellenza, solo un paio di sporchi messicani, ma spero che Li accetterà ugualmente.

Sei pazzo a pensare queste cose.

Sei davvero morto, cazzo, stai qui a contare i bossoli in una mano e non pensi neanche per un istante a Brandine.”

“Dovrei farlo?”

“Dovresti, sì. Non eri tu a considerarla il grande amore della tua vita?”

“Cazzate. Portarsi a letto il ragazzo del latte, non rientra tra i comportamenti ideali del “grande amore della mia vita”.

Ci siamo divertiti. E molto. Ma se c’è qualcuna a cui dovrei pensare sul letto di morte – letto di morte. La ruota di un camion sarà il mio letto di morte. Fanculo – quella è Adeene.”

Adeene, era il faro del suo reparto. Ogni qual volta rientrava alla base stanco dal servizio, incazzato per Brandine o semplicemente deluso dalla merda dell’umanità attorno a lui, c’era Adeene. Entrava, posava una tazza di caffè bollente sul tavolo, restava in piedi finché egli non avesse finito il caldo nettare nero e poi, meccanicamente, si sedeva ed incominciava il suo rito. Iniziava a fissarlo in silenzio, i suoi occhi celesti, tanto chiari da sembrare trasparenti, incontravano i suoi, i suoi occhi che inizialmente avevano faticato non poco a reggere quello sguardo. Eccola, adesso riusciva a vedere la sua mano che sistemava, con estrema calma e cura, una ciocca ribelle della sua bellissima chioma, quei capelli che avevano lo stesso colore delle castagne ed il profumo di una serie infinita di frutti tropicali; una bizzarra macedonia. E poi, al termine di questo silenzioso gesto, Adeene rompeva l'incantesimo, sempre allo stesso modo: “Ti trovo in forma oggi”.

Adeene e Pastor dovevano sposarsi il prossimo 23 Ottobre.

Mentra la sua mente divagava, lui era ancora li, chino, con il fianco sinistro del corpo oscurato dalla ruota.

“Oltre il camion, alla mia sinistra dovrebbero esserci tre o quattro uomini, forse nascosti da qualche macchina, dietro di me, quei bidoni (vuoti, aveva controllato) potrebbero anche beccarsi qualche colpo al posto mio. A destra una vecchia scrivania da lavoro, il tipico tavolo da officina, ogni sorta di chiave, di cacciavite e tenaglia; mille bulloni, viti e macchie di grasso ne sublimavano l’aspetto coreografico. Appesi al muro, trovavano posto martelli di ogni grandezza, molti erano già caduti in terra, ma alcuni, i più temerari, avevano sfidato le pallottole ed erano ancora la, sospesi, contro il muro, ad occupare con orgoglio il loro posto.

Davanti a lui, luce e terra.

L’ampio ingresso della rimessa/garage/officina, gli lanciava l’immagine irridente della libertà. Le auto con gli sportelli aperti, le chiavi inserite ed un muro di proiettili pronto a scagliarsi contro di lui se avesse provato a raggiungerlo.

Qualche altro colpo si infranse contro il camion. Poi sentì dei piedi che strisciavano sulla terra. Probabilmente dall’altra parte avevano finalmente deciso di muoversi, di girare attorno alla rimessa e sorprenderlo frontalmente.

Non aveva molto tempo, ed adesso iniziava a crederci anche lui.

Stranamente, però, aveva accolto il rumore dei passi come una liberazione.

C’erano meno uomini a cui sparare e meno che avrebbero sparato.

Il ritmo della marcia era leggermente diminuito, forse cercavano l’effetto sorpresa.

“Troppo tardi, miei cari bastardi”.

Chiuse gli occhi per un attimo, era abbastanza sicuro di aver contato quattro piedi.

“Questa gente non ha la minima idea di come si faccia un "attacco a sorpresa", prima tenta di aggirarmi segretamente inscenando una marcia silenziosa e subito dopo sembrano fremere d'impazienza”.

Era vero, i due uomini dall’altra parte adesso correvano.

“Lo sapevo, non hanno retto la tensione”.

Fu il più veloce, si alzò, sparò, bang.

I've got the spirit, lose the feeling, take the shock away.

 
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