Ok adesso state pensando: questa nuova arrivata già rompe le scatole e si crede una scrittrice provetta, ma a chi la vuol dare a bere?
Ebbene sì, vi voglio offrire il mio obbrobrio che si basa sulla mia nuzlocke in SoulSilver (che è ancora in corso).
Spero vi piaccia!
Prologo
Quella mattina aprii gli occhi di scatto.
Non perché un rumore improvviso mi avesse svegliato; non perché un incubo mi avesse spaventato tanto da svegliarmi.
Il soffitto in penombra di camera mia ricambiò, del tutto ignaro della situazione, il mio sguardo.
Quello era il giorno.
Il giorno che aspettavo da diciassette anni esatti, il giorno in cui sarei partita da sola, il giorno in cui avrei cominciato a conoscere il mondo e i suoi abitanti.
Pokémon compresi.
Caracollai giù dal letto e spalancai le ante.
Il caldo asfissiante tipico nella mia cittadina a metà giugno mi colpì in piena faccia, svegliandomi del tutto.
<OGGI E’ IL MIO COMPLEANNO!>, urlai, saltando sul letto come una completa deficiente.
Passato il mezzo minuto di isteria completa, mi fiondai in bagno.
Lavai la faccia.
Pettinai i capelli.
Per la prima volta in vita mia ignorai lo specchio.
Schizzai in camera.
Misi un top bianco con ghirigori azzurri e un paio di pantaloncini jeans.
Afferrai lo zaino che avevo preparato la sera prima. Ci avevo messo dentro il portafoglio con parte dei miei risparmi, la carta di identità, un ricambio di vestiti estivi e invernali, il sacco a pelo. Ancora mi chiedevo come mai sembrasse così vuoto.
Per ultimo, il cappellino.
Lo inforcai, sistemando bene lo strappo in modo che non mi stritolasse il cervello e che non mi si sfilasse in caso di scene movimentate.
Varcata la soglia della mia camera, sentii qualcosa bloccarmi la gola.
Oh, accidenti...
Mi ero promessa e ripromessa che non sarebbe successo, che avrei evitato in tutti i modi possibili di farmi venire il magone,che non avrei pianto e che non mi sarei lasciata prendere da inutili sentimentalismi da femminucce/bimbeminkia e invece eccomi lì...
Mi voltai e osservai per l’ultima volta la mia camera.
Le pareti erano bianche, i mobili color noce. Pur essendo molto piccola, era strapiena di cose: quadri e soprammobili vari impedivano agli occhi di fissarsi su un oggetto in particolare.
Ma io sapevo dove guardare: una sfilza di cd, una sfilza di libri... e tre fotografie.
In una c’eravamo noi. La famiglia con la F maiuscola. Io, papà, mamma e Cetra, mia cugina.
Nella seconda, solo io e mio padre, prima che fosse arrestato per furto.
Sospirai quando la vidi.
Era successo davvero tanto tempo fa, prima ancora che io nascessi: mio padre era una specie di ladro gentiluomo. Non aveva mai ucciso nessuno, si limitava ai furti. Stile Lupin, ecco.
E mio padre aveva davvero molto stile.
Dopo aver conosciuto mia madre si era rimesso in riga per lei e, alla notizia della mia nascita imminente, anche per me.
Ma la giustizia era comunque arrivata. Si era beccato dieci anni, non trattabili dati gli ingenti patrimoni rubati. Nonostante il bottino fosse tornato indietro per intero, la giustizia non prevede uno sconto se aggiusti ciò che hai rotto. L’unico modo per redimersi era il carcere; per mio padre non si erano fatte eccezioni.
Avevo sette anni quando era stata scattata quella foto; mio padre era in carcere da quando ne avevo dieci. Aveva ancora tre anni da scontare.
Non mi aveva mai fatto mancare la sua presenza: a ogni compleanno, puntuale come un orologio, il postino bussava alla porta di casa mia per consegnare una statuetta, una piccola figura di pokèmon. Erano opera sua, ci lavorava per giorni. Senza contare le lettere settimanali, le telefonate una volta al mese...
Il mio sguardo scivolò sulla terza foto: era solo io, mentre scassinavo la porta di casa.
Sia io che mia madre avevamo dimenticato le chiavi in giro, e dato che non le trovavamo, lei mi aveva permesso di sfoggiare le mie arti. Mio padre mi aveva insegnato qualcosina prima di lasciarci.
<Impara l’arte e mettila da parte>, mi diceva sempre.
Il motivo per cui era stata scattata era che si trattava dell’unica volta in cui mia madre mi aveva permesso di forzare qualcosa.
Sorrisi.
Accanto al mobile su cui erano poggiate le foto, sul muro bianco spiccava un nuovo arrivato tra gli arredi. Era il mio diploma, ottenuto solo tre giorni prima. Era in una cornice molto semplice, marrone, sottile; non volevo che attirasse troppo l’attenzione. Era solo un pezzo di carta, alla fine. Per alcuni conta troppo; per altri troppo poco. Io lo vedevo più come una meta raggiunta.
Ma ora avevo altri obiettivi, altri traguardi da raggiungere.
La mia attenzione fu attirata, infine, dal letto.
Quando avrei potuto di nuovo dormire in un letto comodo?
Beh, la cosa non mi preoccupava troppo. Ero convinta che non ci sarebbe stato niente di meglio che dormire sotto le stelle, soprattutto in quel periodo dell’anno...
Così sfatto sembrava quasi una rappresentazione della disperazione dei miei immobili compagni di vita.
Feci scivolare lo zaino dalla spalla e mi apprestai a fare la ragazza che ordina camera sua per l’ultima volta.
Sistemai le coperte, tirandole per bene in modo che si lasciassero e aderissero al massimo contro il materasso.
Devo andare, pensai.
Non potevo rimandare all’infinito la mia partenza.
<Ciao ciao>, mormorai un attimo prima di chiudermi la porta alle spalle.
Era da pazzi salutare dei mobili, ma chi non lo avrebbe fatto, non sapendo quando sarebbe tornato?
Ebbene sì, vi voglio offrire il mio obbrobrio che si basa sulla mia nuzlocke in SoulSilver (che è ancora in corso).
Spero vi piaccia!
Prologo
Quella mattina aprii gli occhi di scatto.
Non perché un rumore improvviso mi avesse svegliato; non perché un incubo mi avesse spaventato tanto da svegliarmi.
Il soffitto in penombra di camera mia ricambiò, del tutto ignaro della situazione, il mio sguardo.
Quello era il giorno.
Il giorno che aspettavo da diciassette anni esatti, il giorno in cui sarei partita da sola, il giorno in cui avrei cominciato a conoscere il mondo e i suoi abitanti.
Pokémon compresi.
Caracollai giù dal letto e spalancai le ante.
Il caldo asfissiante tipico nella mia cittadina a metà giugno mi colpì in piena faccia, svegliandomi del tutto.
<OGGI E’ IL MIO COMPLEANNO!>, urlai, saltando sul letto come una completa deficiente.
Passato il mezzo minuto di isteria completa, mi fiondai in bagno.
Lavai la faccia.
Pettinai i capelli.
Per la prima volta in vita mia ignorai lo specchio.
Schizzai in camera.
Misi un top bianco con ghirigori azzurri e un paio di pantaloncini jeans.
Afferrai lo zaino che avevo preparato la sera prima. Ci avevo messo dentro il portafoglio con parte dei miei risparmi, la carta di identità, un ricambio di vestiti estivi e invernali, il sacco a pelo. Ancora mi chiedevo come mai sembrasse così vuoto.
Per ultimo, il cappellino.
Lo inforcai, sistemando bene lo strappo in modo che non mi stritolasse il cervello e che non mi si sfilasse in caso di scene movimentate.
Varcata la soglia della mia camera, sentii qualcosa bloccarmi la gola.
Oh, accidenti...
Mi ero promessa e ripromessa che non sarebbe successo, che avrei evitato in tutti i modi possibili di farmi venire il magone,che non avrei pianto e che non mi sarei lasciata prendere da inutili sentimentalismi da femminucce/bimbeminkia e invece eccomi lì...
Mi voltai e osservai per l’ultima volta la mia camera.
Le pareti erano bianche, i mobili color noce. Pur essendo molto piccola, era strapiena di cose: quadri e soprammobili vari impedivano agli occhi di fissarsi su un oggetto in particolare.
Ma io sapevo dove guardare: una sfilza di cd, una sfilza di libri... e tre fotografie.
In una c’eravamo noi. La famiglia con la F maiuscola. Io, papà, mamma e Cetra, mia cugina.
Nella seconda, solo io e mio padre, prima che fosse arrestato per furto.
Sospirai quando la vidi.
Era successo davvero tanto tempo fa, prima ancora che io nascessi: mio padre era una specie di ladro gentiluomo. Non aveva mai ucciso nessuno, si limitava ai furti. Stile Lupin, ecco.
E mio padre aveva davvero molto stile.
Dopo aver conosciuto mia madre si era rimesso in riga per lei e, alla notizia della mia nascita imminente, anche per me.
Ma la giustizia era comunque arrivata. Si era beccato dieci anni, non trattabili dati gli ingenti patrimoni rubati. Nonostante il bottino fosse tornato indietro per intero, la giustizia non prevede uno sconto se aggiusti ciò che hai rotto. L’unico modo per redimersi era il carcere; per mio padre non si erano fatte eccezioni.
Avevo sette anni quando era stata scattata quella foto; mio padre era in carcere da quando ne avevo dieci. Aveva ancora tre anni da scontare.
Non mi aveva mai fatto mancare la sua presenza: a ogni compleanno, puntuale come un orologio, il postino bussava alla porta di casa mia per consegnare una statuetta, una piccola figura di pokèmon. Erano opera sua, ci lavorava per giorni. Senza contare le lettere settimanali, le telefonate una volta al mese...
Il mio sguardo scivolò sulla terza foto: era solo io, mentre scassinavo la porta di casa.
Sia io che mia madre avevamo dimenticato le chiavi in giro, e dato che non le trovavamo, lei mi aveva permesso di sfoggiare le mie arti. Mio padre mi aveva insegnato qualcosina prima di lasciarci.
<Impara l’arte e mettila da parte>, mi diceva sempre.
Il motivo per cui era stata scattata era che si trattava dell’unica volta in cui mia madre mi aveva permesso di forzare qualcosa.
Sorrisi.
Accanto al mobile su cui erano poggiate le foto, sul muro bianco spiccava un nuovo arrivato tra gli arredi. Era il mio diploma, ottenuto solo tre giorni prima. Era in una cornice molto semplice, marrone, sottile; non volevo che attirasse troppo l’attenzione. Era solo un pezzo di carta, alla fine. Per alcuni conta troppo; per altri troppo poco. Io lo vedevo più come una meta raggiunta.
Ma ora avevo altri obiettivi, altri traguardi da raggiungere.
La mia attenzione fu attirata, infine, dal letto.
Quando avrei potuto di nuovo dormire in un letto comodo?
Beh, la cosa non mi preoccupava troppo. Ero convinta che non ci sarebbe stato niente di meglio che dormire sotto le stelle, soprattutto in quel periodo dell’anno...
Così sfatto sembrava quasi una rappresentazione della disperazione dei miei immobili compagni di vita.
Feci scivolare lo zaino dalla spalla e mi apprestai a fare la ragazza che ordina camera sua per l’ultima volta.
Sistemai le coperte, tirandole per bene in modo che si lasciassero e aderissero al massimo contro il materasso.
Devo andare, pensai.
Non potevo rimandare all’infinito la mia partenza.
<Ciao ciao>, mormorai un attimo prima di chiudermi la porta alle spalle.
Era da pazzi salutare dei mobili, ma chi non lo avrebbe fatto, non sapendo quando sarebbe tornato?