Fic Challenge 2020: raccolta fic consegnate + sondaggio

Quali fic avete apprezzato di più?

  • Il segno della Pioggia

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  • Leggenda popolare di Galar

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Lucas992X

Senza gli apici
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La Fic Challenge 2020 si è conclusa! In questo topic sono presenti le valutazioni dei giudici e la classifica finale, mentre qua vengono raccolte tutte le fic (suddivise su 3 messaggi per via del limite di caratteri del forum): potete votare quelle che vi sono piaciute di più e discuterne.

- "Otto prende un cucciolo" di @Carmageddon
La domenica, per Otto, era sempre una giornata un po’ strana. Ne apprezzava certamente i lati positivi, niente sveglia, niente lavoro e soprattutto niente portinaia isterica e annesso gatto demoniaco (Antenore: 12 chili di siamese, di cui 8 di gatto e 4 di bracciali borchiati da un chilo l’uno), ma non aveva passatempi con cui riempire le ore libere. In soffitta erano accumulate le testimonianze di questi tentativi, tutti falliti: una cyclette, un’auto radiocomandata, un drone, un kit da pesca e anche una cuccia con tiragraffi per un gattino che aveva cercato di adottare, ma che non solo non si faceva accarezzare, ma aveva subito imparato ad aprirgli il frigorifero di notte, facendogli fuori tutto il suo contenuto, birre comprese.
Periodicamente, quindi, gli tornava il pallino di adottare un cane. Forse con un cucciolo la vita gli sarebbe diventata più lieta, avrebbe fatto più movimento fisico e soprattutto avrebbe conosciuto persone nuove: era stanco di avere a che fare solamente coi colleghi nei giorni lavorativi e di fissare il soffitto la domenica.
Il lunedì seguente si svegliò di buonumore e si mise il suo gilet preferito, quello verde coi bottoni dorati, sperando di non farsi beccare da Antenore (ogni volta era una battaglia con quel benedetto gilet: Antenore era sempre smanioso di staccargli i bottoni a morsi e di fare a quella lana un crash-test con le unghie) ma purtroppo per lui il terrore del condominio era già lì, acquattato in portineria, pronto all’attacco: prese la rincorsa, saltò, ma Otto si scansò in tempo e scappò fuori col cuore in gola, e Antenore si ritrovò a zampe vuote e col muso spalmato sul pavimento.
“Vedrai, vedrai! Presto tutto questo non succederà mai più! Ti sistemerò una volta per sempre, stronzo!”, esclamò Otto non appena riprese fiato. Ma lo disse a voce molto bassa, poiché una sua grossa cicatrice a forma di morso di gatto sulla caviglia sinistra gli ricordava che Antenore, oltre ad avere un udito finissimo, gli aveva dimostrato di comprendere benissimo l’italiano.
"Ho deciso, oggi prendo un cucciolo! Vado da mio zio Nanni, che ne ha sempre tanti!” disse Otto ad Alex e Gino, durante la consueta pausa caffè.
“Cosa? Un cane? Tu? Ahahah! Naaah, lascia perdere, non fa per te!” rispose Alex. “Un cane va portato a spasso, più volte al giorno, ci vuole una persona atletica, mentre tu già se metti un timbro ti viene il fiatone!”
Scoppiarono tutti a ridere, sfortunatamente anche Giuliana, la procace segretaria a cui tutti ancora facevano il filo, che stava passando proprio in quel momento. Ciò fece bruciare di rabbia Otto: pazienza le prese in giro dai colleghi, ma non poteva permettersi di fare figuracce anche davanti a Giuliana!
Terminato l’orario di lavoro, Otto non passò per casa, e andò direttamente dal suo vecchio zio Nanni a Bergamo.
Nanni aveva 87 anni, degli occhiali spessi quanto il portone del caveau della Banca d’Italia, e una graziosa fattoria piena di animali. Otto sapeva di andare a colpo sicuro con lui, perché periodicamente regalava gattini e cagnolini. Si era fatto buio, ma Nanni era nel cortile, pronto ad aspettarlo.
“Ecco qua! – disse ad Otto porgendogli un carinissimo cucciolo dal musetto bianco e nero. –“Questo frugoletto è vivace, è sano, gioca con chiunque e già tiene il collarino senza problemi! E’ un pezzo che mangia da solo, quindi prendilo, è tuo! Come lo vuoi chiamare? Hai già deciso?”
“Uhm… Sì. E’ veloce, è scattante.. Speedy! Lo chiamerò Speedy! "
Otto tornò a casa pieno di gioia, con un grosso sacco di croccantini nel bagagliaio, e con un cucciolo che saltellava per tutta la macchina, attratto soprattutto dal pedale della frizione.
In giardino era tutto pronto per lui: cuccia, ciotole, qualche gioco, e recinto a prova di fuga: Speedy si sarebbe trovato come un papa! E già immaginava gli occhi di Giuliana brillare di fronte a quel cucciolo: ora sì che aveva una reale possibilità di invitarla fuori del lavoro! Pregustava la gioia di far schiattare di invidia i suoi colleghi, riscattandosi così dalla pessima figura che qualche anno fa Otto aveva fatto con lei, a causa di quel dannato Spinarak brillante. Ce l'aveva ancora: almeno si era consolato col fatto che era riuscito a catturarlo. Lo aveva chiamato Gaetano, e tutti i pomeriggi lo vedeva trotterellare in giardino, oppure nel terrario in caso di brutto tempo, assieme a Luciana, Giuseppe ed Elisabetta, diventati oramai dei possenti Ariados.
Prima di addormentarsi, stanco ma contento, lo sentiva borbottare mentre esplorava la sua nuova casa. Otto si mise ad ascoltarlo. “Strano, non l’ho ancora sentito abbaiare. Sarà perché è piccolo…in un posto nuovo… Vabbè, si vedrà! Tempo al tempo!” e sprofondò nel sonno.
La mattina seguente raccontò tutto ai colleghi, eccitatissimo, e questa volta ricevette delle congratulazioni, specie da parte di Giuliana. Tutti i colleghi volevano vedere il cucciolo. Otto, preso dall’adrenalina che gli scorreva a fiumi, arrivò addirittura a farsi promettere da Giuliana che quella prossima domenica sarebbe passata a casa sua per vederlo, e uscire a passeggiare insieme. Lei, lui, e Speedy. E i colleghi a casa, a rosicare!
“Caro Alex" - disse Otto dandosi una manata sulla sua pancetta - "i tuoi addominali non sono serviti a niente con Giuliana, i miei sì!”
Stavolta le risate piovvero a carico del mortificato Alex, e Otto uscì trionfante dall’ufficio.
Tornato a casa, andò subito in giardino. I croccantini della ciotola erano spariti, ma le due ossa di pollo che aveva aggiunto accanto alla ciotola erano ancora lì.
Speedy non era nei paraggi. “Starà facendo un pisolino, poverino, è stanco da tutto il viaggio di ieri, non vado a disturbarlo in cuccia. Ciao, tesoruccio!”
Si accorse di un cumulo di terra, tutta rivoltata, dietro la cuccia. “Giusto, alcuni cani scavano, me lo avevano detto. Ma vedo che il recinto è a posto! Bene!”
I pomeriggi successivi Otto si divertì molto. Speedy lo rincorreva e poi scappava, mangiava di gusto ogni cibo, anche frutta, e amava particolarmente quella secca. Otto non riusciva mai a farsi dare la zampa o a farsi riportare un bastoncino, e se lanciava una pallina, Speedy la guardava con la stessa espressione di una mucca quando passa il treno. Ma tutto ciò non gli importava, Otto era felice lo stesso, e ad ogni sera che arrivava lo faceva sentire sempre più vicino al giorno del trionfo.
Quella domenica la casa era uno specchio, e il giardino sembrava pronto per uno show televisivo: piante impeccabili, non una foglia fuori posto, i ragni ben chiusi nel terrario. Non aspettava altro che il fatidico squillo del campanello, non si era neppure accorto di aver saltato la colazione.
Driiiin.
Otto balzò dalla poltrona col cuore martellante. Si prese un lopez mostruoso sulla coscia destra beccando l'angolo del tavolino, ma non sentì niente, e volò ad aprire la porta.
Alex.
Gino.
Giuliana.
Il direttore aziendale.
Otto balbettò qualcosa di incomprensibile. Era completamente sotto shock. Poteva aspettarsi un'improvvisata dai suoi colleghi, ma non dal direttore in persona.
Tremando come se lo avessero legato ad un martello pneumatico, li fece comunque entrare e passare per il giardino.
Speedy era lì, che dormiva beato nella cuccia, col musetto illuminato dal sole. Ma si svegliò subito al suono delle loro voci, e corse loro incontro, tutto festante per la sorpresa.
I quattro cominciarono a ridere. Forte. Sempre più forte. Giuliana non ce la faceva più a respirare, il direttore aveva le lacrime e Alex e Gino si erano accasciati a terra reggendosi la pancia dal gran ridere. Speedy zampettava attorno ora all’uno, ora all’altro, annusandoli con curiosità e per nulla intimorito.
Otto non capiva il perché di quella loro reazione: non era mica brutto, Speedy! E avrebbe fatto ingoiare la sua vanga di traverso a chiunque avesse osato dirlo!
La prima a riprendere fiato fu Giuliana, che solamente dopo quattro tentativi riuscì a parlare ad Otto:
“Ma perché hai preso un tasso?”
Otto era senza parole. Aveva però capito che ancora una volta il destino gli stava giocando un brutto tiro. Niente passeggiata a tu per tu con Giuliana. Come si faceva, con tutto quel baccano e quei guastafeste? Ma il direttore gli mise una mano sulla spalla. Non era il classico tiranno come tanti direttori, e capiva il suo momentaneo disagio. “Su su, lo hai scambiato per un cane, ma è simpatico lo stesso questo tuo nuovo amico! Perché non andiamo tutti al parco?”
Di fronte ad una richiesta del genere, posta nientemeno che dal direttore aziendale in persona, non poteva tirarsi indietro. Prese Speedy, che era ben felice di questa improvvisa uscita, e montarono in macchina. Otto sperava che gli sedesse accanto Giuliana, e invece ci si mise il direttore, mentre Alex e Gino si precipitarono dietro, dato che Giuliana aveva già preso posto dietro, tenendosi Speedy in grembo.
Durante il tragitto, il direttore conversava con Otto, ma Otto non lo ascoltava, poiché era tutto teso e concentrato a sentire cosa combinavano con Giuliana quei due, che ovviamente si stavano divertendo un mondo, schiamazzando e chiamando Speedy, che era ben felice di saltare addosso a tutti. Ma ad un certo punto piombò il silenzio, seguito da un “iiiiiih!” di sorpresa.
Speedy si era infilato nella maglietta di Giuliana.
Otto stava seguendo tutta la scena dallo specchietto retrovisore, cercando a tutti i costi di non perdersi un istante, schivando per miracolo un frontale con un TIR.
Si sentivano il borbottio di Speedy e le squillanti risate di Giuliana, per il solletico
che le stava facendo dentro il reggiseno.
Alex istintivamente mise la mano nella maglietta di Giuliana per recuperare Speedy, ma si prese un morso.
Giuliana non fece a tempo ad indignarsi per quel gesto audace, perché il morso e l’urlo di Alex bastarono ampiamente a compensare l’accaduto.
Risero tutti, anche Otto, anche il direttore.
“Hai visto, Otto? Con questo cucciolo hai finalmente passato una bella domenica!”

***​

Cenarono tutti insieme in pizzeria. Speedy fece la parte del leone, più che del tasso: ebbe sempre l’attenzione di tutti, le coccole, e soprattutto dei pezzi di pizza di vari gusti.
Otto si mise a letto. Era molto stanco, ma stavolta era ancora più contento.
Poco prima di addormentarsi, sentì un piccolo tonfo e che qualcosa sul letto gli si stava poggiando su un fianco.
Era Speedy.

- "Il Segno della Pioggia" di @Veemon Tamer
L'asse dell'orizzonte scinde i due specchi di una simmetria distorta, il cielo cova gonfiandosi la sua rabbia, mentre la macchia grigia delle nubi si traccia sul lago, che il vento increspa agitandosi inquieto, e dilaga come petrolio in mare, coprendo i solchi di azzurro. Come una timida lacrima strappata in un solitario silenzio, la prima goccia inumidisce la guancia di lei, mentre io guardo in alto il lampo che spezza definitivamente il sereno. Il cielo può liberare il suo grido. Il mio grido.
Il lago, dieci anni prima, era il regno della fantasia della mia infanzia: le corse sui prati, i nascondigli tra i salici, le dormite sotto il sole, le notti ad osservare il cielo stellato. Allora, Giada era una bambina vivace, intraprendente, curiosa, sempre alla ricerca di qualcosa. Non si limitava a guardare le cose per come erano, ma voleva aggiungerci del suo, immaginare come potessero cambiare nel tempo, dare loro una sorta di personalità che le caratterizzasse.
« Guarda, Leo. Ogni fiore in questo campo è speciale. Se li guardi da lontano sembrano tutti uguali, puntini colorati che rendono bello e profumato il prato. Ma se li guardi da vicino, vedi che nessuno è davvero identico. Ognuno ha una sua storia. »
Giada era già a quei tempi la ragazzina più sensibile che conoscessi. Era profonda. Arrivava sempre un passo prima degli altri, sapeva guardare il mondo con occhi più maturi, nonostante l'età precoce, ma con quel pizzico di magia che appartiene solo ad un bambino.
« Forse possiamo rendere questo fiore ancora più speciale. » le dissi cogliendo un bocciolo giallo dorato, stringendo tra le tenere dita lo stelo, e infilandolo delicatamente tra le sue ciocche bionde che rifulgevano carezzate dai raggi solari, raccolte in una treccia.
Sorrideva sempre, un angioletto dai vivaci occhi blu, che col tempo si è saputa trasformare nella più audace ribelle e fedele alleata. E ora è la mia più stretta compagna di morte.
« Vuoi sapere qualcosa di davvero speciale? » disse quel giorno, in quel ricordo. Timidamente intrecciava le dita e rivolgeva lo sguardo sulla superficie del lago, lievemente mossa dal vento primaverile, seduta sull'alto di quella duna erbosa.
« Dillo. »
« Prometti di credermi? »
Per lei era una promessa speciale sigillata per sempre in un posto speciale. Quella promessa sarebbe fatalmente diventata legge.
« Puoi dirmelo, Jade. Ti ascolto. »
« Ogni tanto mi sembra di poter sentire qualcosa. Il vento sussurra. Il lago ci parla con i suoni delle onde. »
Quelle parole, mi tornano in mente in continuazione, come se avesse lanciato una maledizione.
« Ma che dici? Io non sento niente. È impossibile, come fa l’acqua a parlare? »
« Ci parla qui. » Mi mise una mano sul petto. Per me era soltanto un gioco. « Forse è il mio papà. Io ci credo. È un pensiero molto bello. »
« Io non ci credo, Jade. È come la storia dei fantasmi, sono tutte cose che si inventano i grandi. Quelli come te abboccano subito. Tuo papà non c’è più. »
Io sono sempre stato più volto a credere soltanto a quello di cui mi veniva fornita una prova tangibile, di natura diffidente. Non accettavo di mettere in discussione niente di cui ero convinto e non ero mai stato diplomatico.
« Non lo puoi dire che i fantasmi non esistono, solo perché non ne hai mai visto uno. »
« Ecco, visto? Lo sapevo che avresti detto così. Vado a chiederlo a mia mamma, vedrai. »
« Non puoi. È un segreto. »
« Non c'è nessun segreto, Jade. Nessuno. »
Un'altra goccia di pioggia bussa sulla sua fronte e vuole attirare la sua attenzione, scivolando sul viso, prosciugandosi lentamente con i suoi pensieri distratti, mentre fissa il vuoto. Giada si lecca il labbro. Mi sembra di poterlo sentire, quel lieve sapore acidulo sulle sue labbra. L’unico sapore che potrei trasmetterle in questo momento.
La bimba con la treccia è ora una ragazza matura, i tratti del volto seri, tra i bei lineamenti, rimasti morbidi e delicati come se il tempo non avesse voluto sciuparli. La treccia si è sciolta in una una coda tenuta da un elastico, come usa portare i capelli di solito. Una frangia cala sul viso adombrando il sopracciglio sinistro, mentre la chioma folta si scioglie sulle spalle. Una catenina scende fin sulla scollatura, tra i lembi della camicetta sbottonata in alto. Un ciondolo stellato riposa sul petto, provocando lo sguardo a posarsi sul seno, poi sulle braccia nude conserte, scendendo lungo i fianchi e i pantaloncini di jeans che lasciano scoperte le cosce. Veste spesso estivo anche sul finire dell'inverno, non si è mai lamentata del freddo. Le piace mettere in mostra il suo fisico perfetto e non gliene ho mai fatto un difetto.
« Siamo alle solite. Guarda che disastro stai combinando. Perché non la lasci stare, Leonardo? »
La solita voce calda rompe tutta la magia del momento. Mi aspettavo che sarebbe arrivato. Non mi volto, ma immagino la sua entrata scenica, alle mie spalle, con il mantello bianco, l’armatura a maglie dorate, lucente come un paladino baciato dal sole, anche con la pioggia che aveva incominciato a riversarsi incessante.
« Non posso. » rispondo senza smettere di guardare Giada.
« Sei giovane, Leonardo. Ma sembri un vecchio distrutto da una vita infame. »
Spero per lui che mi stia prendendo in giro e che non stia parlando sul serio.
« Vecchio? Giovane? Ho ancora un’età? Cosa importa. Sono solo uno spettro. Lei non può vedermi. Qualunque cosa io faccia. »
« Per l’appunto. Scatenare nubifragi sulla sua testa non ti aiuterà a cambiare le cose. Le renderai difficile un’altra giornata. »
« Non è colpa mia se sono associato all’elemento acqueo. Mi sarebbe piaciuto essere tiepido e luminoso come te, sai? » È probabilmente molto più facile vederla in questo modo, per me. Mi piace dare la colpa di tutto al destino. « Tu sai sempre quello che è giusto, sei autorevole, carismatico, sputi sentenze su quelli che soffrono come me. Non te ne frega un cazzo se sei morto, è come se vivessi. Ma sì, che differenza fa! »
« Leonardo, attento a come parli. »
Tiro un lungo sospiro. « Scusa. Maestro. »
Mi degno finalmente di rivolgergli attenzione.
Lui scuote la testa e sorride. « Leo, Leo. Non so cosa fare con te. Vediamo intanto se riusciamo a migliorare un po’ questa situazione. »
Alza le braccia al cielo, in un ampio gesto di pace. E il cielo risponde, quando tra le nubi un raggio solare scende sfidando le intemperie e abbracciando le acque del lago, e poi un’altro e un’altro ancora, come comete nell’oscurità.
Lo chiamano l’Arcangelo. Salem incarna bene quella figura. È spettacolare. Ma nessuno conosce la sua vera storia.
« Il tuo potere cresce con la tua tristezza, Leonardo. Se continui così, potrei fare fatica a contrastarlo. »
« Mi dispiace. »
« Lo sai, non sono molti gli spiriti che riescono ad avere un’influenza così potente sul mondo dei vivi. Tu puoi e continui a farlo nel modo più sbagliato e deleterio persino per te stesso. Cosa ti ho sempre detto? Non dobbiamo- »
« Interferire con il ciclo dei vivi. » lo scimmiotto. « Non ne abbiamo il diritto, è pericoloso e bla, bla, bla… finiremo tutti all’inferno. »
« Fai poco lo spiritoso. »
Salem poggia una mano sulla mia spalla.
Il contatto per noi fantasmi non è mai scontato. Significa lasciare che l’altro veda qualcosa di te. E ogni volta che mi tocca, io vedo lampi nel buio, che cercano disperatamente di emergere.
Non si direbbe che possa esserci del buio in lui, perciò penso che sia colpa mia se non riesco a scorgere tutta la sua luce.
« Forse è ora che ti parli di una cosa, ragazzo mio. »
Io non lo sto già più ascoltando. Mi sono fatto distrarre da Salem e Giada è già tra le braccia di un altro.
Marco, così si chiama. Non la capisco. Non è mai stata scontata nelle sue scelte. Questo tizio è così superficiale, un tutto muscoli e niente cervello.
La tiene stretta e le butta addosso la sua felpa, cercando di asciugarla e ripararla dal freddo. È come se stesse staccandomi da lei, prosciugando goccia per goccia della mia pioggia.
« Certo che questi temporali di marzo sono strani. Non è durato neanche due minuti. » commenta il ragazzo. « Tu stai bene? Se pigli freddo poi son cavoli. Come ti porto a cena stasera? »
Giada ride e gli tira un buffetto sulla guancia: sono bastate due patetiche parole per rasserenarla. Io invece non so fare altro che gettarle addosso malinconia.
« Leonardo, mi stai ascoltando? Che cosa stai facendo? » Improvvisamente mi ricordo di Salem, che ha cambiato tono. Quando si arrabbia diventa solenne e impetuoso come un dio che scaglia tempeste.
E mi accorgo solo ora delle nubi nere e stracce che sono ricomparse in cielo causa della mia frustrazione, mentre Salem tenta di lacerarle con la sua luce.
« Sì, certo, ti ho sentito. Non posso sempre controllare il mio potere a comando. Ho capito, è pericoloso. Ci sto attento. » gli rispondo con un filo di arroganza. Non voglio che creda di avermi spaventato.
« Se hai capito abbastanza, allora torniamo tra le ombre. Per oggi l’hai seguita a sufficienza. » tuona lui.
« Ma… »
« Non voglio neanche starti a sentire. Ti ci trascino con la forza, se necessario. »
Lo odio quando fa così. Non è mio padre. Non è nessuno. Perché ce l’ha sempre con me? Perché non sta dietro a qualcun altro?
Così, Salem riapre il passaggio per il mondo dei morti e ricomincia la routine. Una porta si apre e una porta si chiude. È l’immagine che si ripete ogni giorno e sta diventando un incubo. Se almeno fossi capace di dormire, forse scaricherei gli incubi durante la notte. Ma no, quando sei uno spettro, è come se il tuo subconscio fosse sempre vivo in ogni momento e ti tenesse per la gola.
E il mondo delle ombre è… spento, come chiunque potrebbe immaginarlo, come se avessero rubato le regole del tempo e dello spazio e avessero lasciato tutto a consumarsi in una lugubre staticità.
« E questo dovrebbe aiutarmi a stare meglio, vero? »
« Vediamo le nostre ombre come riflesso di noi stessi, Leonardo. Io vedo un giardino meraviglioso. »
« Perché non riesco mai a crederti? Sei uno dei pochi che riesce a vedere questo posto in quel modo. »
Lo chiamiamo l’Eden. È vasto e pieno di anime, ma molte, come me, non amano fare amicizia. Incontro di norma giusto quel paio di morti che si sono interessati a me.
Mi allontano da Salem e mi metto come sempre nel mio angolo. Non si tratta di un angolo particolarmente felice: è il limitare di un bosco di alberi quasi spogli in autunno, sulla riva di ruscello per lo più stagnante. Piove sempre, ovviamente. I colori sembrano quelli di una vecchia fotografia. Di solito, come sto facendo ora, mi siedo su un ramo alto, con le gambe a penzoloni e guardo le foglie palmate che continuano a correre col vento e a rimescolarsi.
« Fa freschino oggi. Più del solito. »
Sobbalzo sul mio ramo. Ogni tanto provo a dimenticare che Liliana mi può raggiunge anche qui.
« Lilli cosa ci fai qui? »
Liliana fa spallucce, seduta sul ramo più in basso. « Qui è carino. »
« Non lo è affatto. Non c’è niente di bello da vedere. Vattene. »
Mi rendo conto di essere molto brusco con lei, ma non riesco ad evitarlo, specialmente in momenti come questo.
Il fantasma di Liliana ha l’aspetto di lei a quindici anni, due in meno di me, ma Liliana aveva la mia stessa età quando è morta. Sembra persino più piccola, di bassa statura, con quei codini e le guance appena paffute. Ad essere cinico, potrei definirla insignificante, l’opposto di Giada. La sua cadenza lenta e cantilenante e la sua abitudine di venirmi a disturbare con i suoi discorsi privi di logica non la aiutano.
« Invece sì. Mi piace il tuo angolo. Ha un buon odore. »
Gli elementi del mondo dei morti sono fatti come noi, quindi possiamo ancora toccarli e avvertirne gli odori, mentre nel mondo dei vivi ci sono concessi solo la vista e l’udito.
« Foglie marce? »
« No. Sa di pioggia. Anche tu sai di pioggia. Quando ero bambina e c’era il temporale uscivo con mio fratello sulla veranda e guardavo le bollicine che si formano sulle pozzanghere in strada. C’era sempre questo profumo nell’aria e... c’era la musica. »
« Musica? »
« Sì. La senti? Tic-tic-tic. È come un allegro concerto. »
Mi torna in mente Giada che mi parla di suoni inesistenti, il che non fa altro che irrigidirmi.
« Commovente. Ora, se non te ne vai mi arrabbio. Ho bisogno di starmene per conto mio. Sto dando di matto, devo calmarmi un po’. »
Sto seriamente dando in escandescenza. Il mio silenzio mi serve come una droga ogni volta che torno dal mondo dei vivi. Non è la prima volta che trovo Liliana qui, ma più la cosa va avanti più riesco a sopportarlo di meno.
« Puoi darmi la mano. Ci calmiamo assieme. »
« Lilli. » rispondo fermo.
« Certo. Non hai mai voluto neanche sfiorarmi per un secondo. »
« Perché sei fissata con questa cosa? Non mi piace toccare gli altri fantasmi. Nessuno. Mi mette a disagio. »
Liliana si è bloccata. Sta guardando il torrente.
« Ma… quello è…? »
Lo guardo con lei. L’acqua si sta tingendo di rivoli rossi. « No. Non di nuovo. »
« La pioggia. È opera tua? » Lilli osserva le macchie rosse sulle sue mani che sbocciano come papaveri in un campo brullo. Non è più così entusiasta.
Io non so cosa dire.
Lei spalma il liquido rosso tra le dita, che misto alla pioggia sembra acquarello. Avvicina l’indice alle narici.
So a cosa sta pensando, ma non mi piace. « Non ci provare. »
Liliana si tocca le labbra e fa scivolare fuori la lingua. La sua espressione si fa molto più seria e adulta.
« Come sei morto, Leonardo? »
« Adesso te ne vai. » Non alzo la voce, ma un fulmine mi accompagna.
Liliana svanisce, con l’aria pensante. Sembrava un giovane investigatore che si è ritirato per riflettere sul caso.

Mi appoggio al tronco duro della pianta. Anche le venature del legno hanno iniziato a colorarsi di rosso. Chiudo gli occhi e desidero che quel tronco sia morbido e che io possa sfuggire alla morsa dell’anima per far smettere questa pioggia e tutto questo rumore insopportabile di tuoni.
Improvvisamente, mi fischiano le orecchie e cala il silenzio, il tronco cede come schiuma e la mia schiena si lascia cadere. Ho perso il tatto, quindi sono finito ancora nel mondo dei vivi. Quando riapro gli occhi, immagino già dove mi trovo. Sono sdraiato sul mio letto, nella mia stanza. La sveglia digitale è ancora in funzione e segna le nove di sera. Non passo la notte qui da secoli.
« Così è questo che ho desiderato. » dico tra me e me.
Un letto, delle coperte calde, la sensazione che ci sarà qualcuno ad aspettarmi la mattina, magari sognando i croissants della forneria di papà per colazione.
Mi accorgo di essere asciutto. Ha funzionato.
Poi intravedo con sgomento una sagoma sulla soglia. Non riesco quasi a riconoscere mio padre: ha l’angoscia negli occhi e sembra un fantasma più di me.
« Papà? » Mi sollevo. So che è inutile, ma non posso fare a meno di provarci.
Papà richiude la porta, con la maniglia, poi la sospinge per assicurarsi di averla chiusa bene. Non la volevo mai aperta e me ne stavo tutto il giorno in stanza a perdere tempo. A cena mi alzavo di fretta per correre al cellulare, a volte non assaggiavo nemmeno il dolce che i miei avevano cucinato assieme la domenica.
Non posso piangere. Se mi faccio coinvolgere troppo, potrei far piovere in casa.
Mi guardo, dal petto in giù. Ho addosso la mia felpa grigia e i pantaloni della tuta, come quella volta che… già.
Quella volta non ero da solo. Posso quasi vederla, Giada che ficca il naso tra i cassetti dei miei ricordi di bambino.
« E questo? » si rigirava un braccialetto di finte pietre azzurre tra le mani. « È carino! Facevi davvero queste cose? È un po’... »
« Insomma puoi lasciare stare la mia roba? » Io imbarazzatissimo tentavo di tenere a freno le sue mani che aprivano uno sportello dietro l’altro.
« La tua roba? Questo è appena diventato mio. »
« Ah, ora fai anche la prepotente. »
Glielo lasciavo indossare, mentre si guardava allo specchio per sentirsi una modella prima di una sfilata. Poteva persino essere bello addosso a lei.
« Hai dei gusti veramente discutibili. »
« Sai cosa mi ricorda? I colori del lago. » Si è buttata sul mio letto di schiena e per traverso. Anche quando doveva sembrare pesante nei gesti, in realtà riusciva sempre a uscirne miracolosamente con eleganza. Non so come ne fosse capace.
« Ma ci pensi ancora a tutti i casini che combinavamo? » mi sorrideva.
« Be’, di continuo. »
Era lì distesa, nella mia camera, e io me ne stavo pateticamente nell’angolo, senza alzare un dito e con le gambe paralizzate. Era una di quelle situazioni in cui iniziava a venirmi il fiatone. Finché, mentre la guardavo, dietro al braccialetto, non ho notato un taglio. E poi un altro e un altro, lungo il braccio nudo.
« Ma che hai fatto? »
Mi sono avvicinato, probabilmente anche troppo impetuosamente, come una mamma preoccupata. Non le ho dato il tempo di rispondere e le ho preso il polso.
« A-ahi! Ma è solo un taglietto, di che ti preoccupi? » Si è sottratta, massaggiandosi la ferita. Mi è sembrato che avesse avuto paura di qualcosa.
« Non mi sembra. » Mi sono ricomposto. « Scusa. »
« Tranquillo. » Ha ricominciato a sorridere. « Sono solo io che gioco con le porcellane di mia nonna esattamente come faccio con i tuoi oggetti, ma… be’, non mi va sempre tutto bene. » Ci siamo messi a ridere.
Ma mentre ridevo guardavo le sue ferite. Non mi aveva convinto.
Non mi ha mai detto tutto, ma non posso seguirla neanche adesso ovunque o negli orari che voglio. Questa storia va avanti da un anno e mezzo per colpa di Salem. Ma sono stanco.
« Ogni tanto mi sembra di rivedere mio padre. Mi chiedo se sarebbe fiero di me. »
« Che c’entra adesso? »
Giada ha fatto spallucce. « Non lo so. » Le è sfuggita un’altra risata, stavolta nervosa. « Ti sto dicendo che vedo i fantasmi e tu mi chiedi se ha senso dirtelo adesso? »
« Perché era un modo di dire. » Dissi ponendola più come una domanda che un’affermazione.
Giada è diventata pallida. « Ti è mai capitato che qualcuno ti guardi come un morto? E quando cerchi di andargli incontro sparisce misteriosamente dietro il primo angolo? Poi la notte stessa ti svegli di soprassalto e ti sembra che una presenza sia lì ad osservarti. Stai sudando freddo e non riesci a riprendere sonno. Accendi la luce e non hai coraggio di spegnerla. » Ha deglutito. « Lui somiglia così tanto a... »
« Jade così mi metti ansia sul serio. » l’ho interrotta.
Giada si è scompigliata i capelli e ha ripreso colorito « Ah, sì. Erano tutte stronzate per prendermi gioco di te, mi stavo quasi calando nella parte. Ci sei cascato. » Mi ha fatto l’occhiolino. « Ma dai Leo, ti sembro il tipo da cacciarmi nei guai? Seriamente, non pensarci. »
« Certo. » Ho ricambiato la sua finta risata.
Mi ritrovo a guardare me stesso nello specchio di camera, proprio come in quel momento. Per me è un po’ come guardarmi dentro, attraverso i miei occhi. Peccato che il vecchio specchio non rifletta più nulla.
« Dannazione. »
Appena pronunciata quell’imprecazione, mi accorgo che qualcuno è qui, ma come me non è riflesso nello specchio.
« Lilli, non ti avevo detto di starmi lontano? »
« Ero in pensiero. Eri così triste. Non dovresti essere qui. »
« Oh, Dio! » Mi metto le mani nei capelli e faccio scivolare le unghie sulla faccia. « Senti, vivere come un fantasma per l’eternità non mi servirà nulla. Se deve succedermi qualcosa, così sia. Siamo ancorati qui, Lilli. Alcuni se ne vanno subito, ma a noi è stato concesso di restare e non sappiamo per quanto e perché. »
Liliana si guarda attorno, indecisa sul modo più giusto per rispondere.
« Ma stai bene adesso? »
« Onestamente, se te ne andassi starei molto meglio. »
La ragazza ha un velo di lacrime sugli occhi. Dopo qualche attimo di silenzio, a guardarmi con disappunto, si avvicina.
« Perché fingi di essere cattivo? »
Mi mordo la lingua e guardo fuori dalla mia finestra grande. Sembra che il lago mi guardi, come un grande occhio scuro, sempre.
Rabbrividisco, quando la mano di Lilli mi afferra per il polso.
« Hai paura? »
Il mio primo istinto è quello di ritrarlo, ma poi associo a quella stretta il mio stesso gesto di premura nei confronti di Giada, all’interno di quel ricordo nella stanza.
« Forse un po’. » rispondo, sempre teso. Anche lei è spaventata, ora lo sento. « E sono freddo, non penso che leggere i miei pensieri porti a nulla di buono. »
« A te? Continui a rifiutarlo. Forse è questo il problema, non credi? »
Inizio ad avvertire il suo pianto, la sua angoscia, la sua ricerca di affetto e la sua voglia di tornare infante per sentirsi protetta. Mi sembra di aver appena ottenuto la chiave per i suoi segreti più oscuri, quelli che nessuno può permettersi di violare. E lei mi sta facendo entrare.
« Ora ho paura. » sussurro con il cuore in gola.
In un flash ritrovo me stesso nei panni di un altro. Sono al volante di una macchina e sorrido a Liliana tenendola per mano, sporgendomi sul sedile posteriore. Liliana sta ridendo di una felicità naturale, come quella di una bimba, quando improvvisamente la morte si dipinge sul suo volto.
Ritorno in me. Liliana ha stretto la presa.
« Lui se n’è andato. Mi ha lasciata qui da sola. »
« Era tuo fratello, vero? »
Lei si asciuga le lacrime e annuisce. « Aveva qualche anno più di te, ma tu me lo ricordi. Stavamo andando a vedere la partita. Io ho iniziato a prenderlo in giro come una scema. È davvero bastato un niente, non riesco ancora a capacitarmene. Un attimo prima mi sentivo invincibile e poi… non ho potuto realizzare in tempo quanto fossimo fragili. » Prende un respiro. « Ha ragione ad essersene andato. Ho rovinato la vita a tutti e due. »
Io non so che rispondere. La mia voce fa per uscire, ma poi tace, perché non trovo le parole. Ma è Liliana che mi invita con lo sguardo.
Io tentenno ancora, poi domando: « Ora tocca a me, dici? »
Lei non risponde, aspettandosi che scelga da solo di aprirmi.
Così decido di assecondarla. « Ah… è complicato. Una storia triste. »
« Esistono le morti felici? »
Rimango a di nuovo incapace di ribattere. « No. » Faccio una pausa. « Ma sono uno stupido anche io. » mi sfugge un risolino nervoso.
« Sai, c’è una ragazza a cui tengo tanto. Le ho regalato un braccialetto. »
« È un gesto carino. »
« In realtà se l’è preso da sola. » rido. « Ma non fa differenza, nella mia testa era il mio regalo. »
Ci sediamo finalmente sul letto, anche senza poterlo fare davvero, come se avesse un senso.
« La ragazza era piena di scheletri nell’armadio. Sai, quelle cose brutte. »
Mentre continuo a raccontare, rivedo l’ansa nascosta del lago, l’estate di qualche tempo prima.
« Ma che dolce, un pensiero davvero carino! » diceva in tono di scherno un ragazzo della mia età.
Era uno dei bulli del paese, nessuna novità.
Poi però ha sfilato il braccialetto dal polso di Giada e l’ha gettato nel lago. Lei non ha detto una parola. È sempre stata quella che sorrideva, quella che quando mi vedeva triste non mi chiedeva perché, ma tirava fuori dal cilindro un modo per alzarmi il morale, quella a cui piaceva rompere gli schemi e mettersi nei guai. E la mia amica. Quella volta l’avevo seguita e l’avevo trovata in compagnia di quei ragazzi. Loro le giravano attorno come avvoltoi e lei era spenta e inespressiva. E in quel momento, quando le hanno strappato il bracciale, era come se le avessero strappato tutto.
« Ops. Vedi, Leonardo, è scortese fare delle avance verso la donna d’altri. Credi? » ha continuato il teppista.
Io ero così arrabbiato e mi sentivo allo stesso tempo così impotente. Cinque figuri mi guardavano dall’alto al basso. Sono sempre stato così, chiuso nelle mie insicurezze. Se non facevo qualcosa in quel momento, sarebbe stato l’ennesimo rimorso che non se ne va. Uno pesante da digerire.
Non ho saputo dire nulla. Ho sfilato le scarpe, ho sputato a terra e mi sono tuffato. Il lago era limpido e non era così infossato in quel punto, ma neanche così basso. Ho smesso di pensare, di sentire gli schiamazzi degli altri, coperti dall’acqua. Volevo solo trovare quel braccialetto. Ho resistito fino a scoppiare, tastando sul fondo, nel punto in cui era caduto. Non volevo risalire a mani vuote. E l’ho trovato.
Ho teso la mano verso la superficie e ho spinto forte con le gambe per risalire. Il respiro mi mancava e il lago sembrava volermi giù con lui, ma passo dopo passo rompevo un muro d’acqua dietro l’altro e tornavo verso la luce.
« Non so cosa credessi di ottenere. Era chiaro che non me l’avrebbero fatta passare liscia. Giada non c’era più quando sono tornato verso riva, ma gli altri c’erano eccome. Il più grosso, a cui avevo sputato in faccia, ha estratto un coltello. Così, col sorriso beffardo, come se fosse stata una partita a un videogioco. Qualcuno alle sue spalle ha provato a dirgli di andarci piano o di non fare cazzate. Ma non c’è andato piano. » ho concluso. « Quel ragazzo ora non se la passa bene. »
Liliana ha fatto un respiro profondo. « E lei... »
« Non ha mai detto niente. Ma è chiaro che lo sa. Frustrante, sì, ma almeno dopo quell’episodio non l’hanno più cercata. E lei ha smesso di farsi del male, per qualche ragione. » mi alzo, sgranchendo le ossa per cercare di levarmi di dosso quella tremarella che mi è salita. « Comunque ormai lo sanno tutti. »
« Wow. » esordisce in risposta, senza poi sapere cosa aggiungere.
« Hai ragione. Mi ha fatto bene parlare. » dico, anche se con la voce tremula non sono molto convincente. « Ho capito una cosa. »
Liliana mi vede in moto e intuisce che sto per fare qualcosa. « Cosa? » chiede un po’ perplessa.
« Che non sono l’unico a sentirmi oppresso dalla morte. Nemmeno Salem è tutto bianco. Io l’ho visto, il nero che c’è in lui, ma non ho voluto crederci. Ognuno ha i suoi demoni. »
« Quindi? » incalza lei, a cui sembro sempre più criptico.
« Quindi basta. Sono stanco di darmi colpe e di avere paura. Voglio fare qualcosa di buono. Voglio dire “Ehi, vaffanculo. Non mi importa cosa sono diventato, voglio essere me stesso.” »

Prendo ancora la mano di Liliana e non la lascio. Ci muoviamo in alto, sopra il paese, sopra il lago. Giada è uscita sulla terrazza di casa sua con Marco. Sembra ancora che mi stia guardando, quassù.
Viene distratta da una goccia umida sulle labbra. Ma sorride: sono sicuro che questa volta era dolce.
« Marco, guarda! Nevica! » alza le mani al cielo per cogliere i fiocchi, gioiosa.
Marco non fa a tempo a rendersene conto che lei è già rientrata e sta correndo alla porta di casa. La segue fino all’uscio e poi la rincorre sul prato, gettandola a terra dove si rotolano assieme.
« È questo che voglio essere, Lilli. » mi rivolgo a Liliana. « L’acqua è un elemento bellissimo e si può giocare così tanto con tutte le sue forme. È vita, è la sensazione che ti scorre addosso quando fai una doccia per lavare via le incertezze, quella che ti rianima dopo la fatica e che ti rinfresca quando il caldo è troppo intenso. Tutte queste cose possono fare parte di me. Soprattutto ora che ho capito di non essere da solo qui. » Le sorrido. « “Insieme”, non è una parola scontata. Godiamoci il nostro tramonto finché non sarà tempo per la nostra notte di scendere e a quel punto, ci accoglierà con i sogni più lieti. »
 
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Lucas992X

Senza gli apici
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- "Undici" di @Fabiana
“Cazzo.”
Me ne stavo sdraiato sul letto, chiuso in camera mia, a fissare il soffitto.
Era la prima volta che dicevo una parolaccia. Certo, i miei compagni a scuola erano già avvezzi da tempo, ma io avevo sempre preferito non imprecare. Come mi aveva insegnato mia madre. Peccato che avessi appena scoperto che quella non era la mia vera madre.
Adottato? No. Non proprio. Non mi sarei fatto grandi problemi: anche se adottivi, i tuoi genitori sono comunque mamma e papà, alla fine. Solo che la mia mamma non era un’adottante qualsiasi.
Quella che credevo essere mia madre avevo appena scoperto essere la mia nonna materna.
Forse un altro ragazzo tredicenne sarebbe rimasto sorpreso, ma senza reagire con disgusto. Già, “disgusto” è la parola giusta. Mi sentivo profondamente disgustato.
Provai ad alzarmi in piedi per combattere la nausea, poi, come facevo spesso ormai da alcuni anni, saltai fuori dalla mia finestra al piano terra e uscii di casa. C’era il sole, avevo appena terminato gli esami di terza media e avrebbe dovuto aspettarmi una fantastica parentesi estiva priva di compiti delle vacanze, dedicata solo a bicicletta, musica in cuffia, serate con gli amici alla nostra gelateria preferita. E invece avevo soltanto voglia di sotterrarmi e rimanere nascosto per sempre.
Mi incamminai verso il grande parco comunale che costeggiava il fiume. Il parco dove mia mam... anzi, mia nonna mi aveva insegnato ad andare in bicicletta senza rotelle. Mi rimbombava la sua voce nella testa.
“Siediti, Luca. Devo parlarti.”
Perché? PERCHÉ? Perché non lo aveva detto prima? No, forse non avrei voluto saperlo prima. Né oggi. Né mai.
I miei pensieri vennero interrotti da un suono insolito: una serie di tonfi ritmici che facevano vibrare le mie orecchie. Incuriosito, mi diressi verso la fonte del rumore, ritrovandomi ben presto al campetto da basket del parco, una piattaforma di cemento sgangherata con alle estremità un paio di canestri che della propria integrità conservavano ormai solo più un paio di vecchi anelli di ferro arrugginito in cima a due pali traballanti.
Fermo restando che non mi sarei mai aspettato di trovarvi qualcuno a giocare, essendo il campo inutilizzato da anni, la mia sorpresa fu ancora maggiore nel constatare che a far rimbalzare un pallone da basket era un uomo anziano, decisamente alto, dal fisico imponente. Se ne stava lì, con aria assorta, a palleggiare fermo in un punto contemplando il nulla.
Tump. Tump. Tump. Tump.
Mi scrollai di dosso la curiosità, perché a questo mondo ce n’è tanti, troppi, di pazzi pericolosi, e feci per riprendere la marcia.
“Fa un bel suono, vero?”
Raggelai. Era esattamente così che avrebbe cominciato un discorso un serial killer.
“Eh... sì, certo.” A quel punto avrei dovuto continuare a camminare, ma per qualche motivo, forse un’inibizione da buona educazione, rimasi fermo. Valutai che un uomo così grosso fosse stato forte e veloce ai suoi tempi d’oro, ma a giudicare dai capelli grigi avrei potuto scappare via per tempo, se mi fossi tenuto a debita distanza. Ero ancora in salvo.
“È come se il cuore di questo vecchio campo da basket riprendesse a battere.”
Tump. Tump. Tump. Tump.
“Ragazzo, perché tu e i tuoi amici non venite mai qui a riportare la vita a un vecchio campo abbandonato?”
“Uh, perché... Perché...”
Perché non siamo degli sfigati.
“Beh, io non... non so giocare a basket.”
“Vuoi provare?”
Rabbrividii. “Magari un’altra volta! Adesso devo... Devo andare.”
Corsi via come un bimbo terrorizzato dal buio alle sue spalle.
“Portami un caffé quando torni la prossima volta!”, lo sentii intimare alle mie spalle.
Ma che voleva quel tizio? Perché proprio io? Era sicuramente un malato di mente. Forse avrei dovuto segnalarlo. Ma per farlo avrei dovuto parlarne con mia mamma. Che era mia nonna. Che poco prima mi aveva rivelato una verità che ancora mi faceva dubitare d’essere sveglio.
“Tredici anni fa avevo quarant’anni. E una figlia di diciotto anni, con un bimbo in grembo. Sfortunatamente, non sempre le cose vanno per il verso giusto, così la mia adorata bambina, appena affacciata all’età adulta, perse la vita subito dopo aver dato alla luce il mio nipotino. Luca.”
Mi ero fatto un rapido calcolo. Mia nonna aveva messo al mondo mia mamma a ventidue anni. Era stata in realtà una mamma giovanissima, e mia mamma ancor di più. Io ero cresciuto convinto che mia mamma mi avesse fatto nascere a quarant’anni. E la scuola? La scuola lo sapeva? Se sì, avevano sempre retto il gioco? E mio papà allora chi era? Se n’era andato abbandonando la sua donna incinta, come mio nonno? Avevo un’altra mamma! Una mamma giovanissima! O per lo meno, l’avrei avuta. Ma era morta.
Cominciavo a sentire la mente annebbiata dalle domande, a confondere i tempi e gli avvenimenti. Nella mia testa turbinavano le parole mamma, papà, nonna, nonno, morte.
Tirai fuori dalla tasca il mio smartphone nuovo di zecca, un regalo della... nonna. Per aver concluso l’esame di terza media col massimo punteggio. Molti dei miei compagni ne avevano già uno, alcuni dalla prima media, così la prima cosa che avevo fatto era stata inserirmi nella chat di gruppo della classe.
“Raga, c’è un tipo stranissimo al parco. Gioca a basket da solo. Qualcuno lo conosce?”
Non aspettai molto per ricevere le prime risposte.
“Sarà un drogato, ahahah!”
“Ma è il prof di motoria?”
“Manda un video”
Un video? In effetti, non era una cattiva idea. Avrei potuto registrare eventuali comportamenti sospetti, per avere una prova. La parola di una ragazzo tredicenne cresciuto dalla nonna avrebbe potuto essere poco credibile.
Uscii dalla chat di gruppo, e nella cronologia delle conversazioni vidi al secondo posto il nome del mio migliore amico, Peppe. Avrei voluto scrivergli della scoperta, ma non ci riuscivo. Era stato ospite a casa mia un’infinità di volte, anche lui non avrebbe più guardato mia nonna con gli stessi occhi. E forse lei si sarebbe arrabbiata a sapere che diffondevo una notizia tanto delicata. Non mi aveva detto nulla riguardo al comportamento da tenere riguardo questa cosa. A chi avrei potuto dirlo? A chi, invece, andava tenuto nascosto? Quanti amici di famiglia mi avevano sempre mentito? Stava ricominciando a scoppiarmi la testa. Decisi di tornare a casa a prendere la bicicletta. Camminando sul viale principale della mia piccola città passai di fronte a un negozio di articoli sportivi, e vidi in vetrina, tra gli altri articoli, un pallone da basket. Forse, indagare sul pazzo del campetto mi avrebbe aiutato a distrarmi, a provare un po’ di brivido. Dopotutto, avrebbe potuto essere una cosa divertente. M’incamminai verso casa pianificando mentalmente gli step da seguire per monitorarlo. Una volta a casa, allungai le mani sul manubrio della mia bicicletta, pronto ad inforcarla, ma mi fermò la nonna.
“Luca, stai bene?”
“A-ha.”
“Lo sai che sono sempre la stessa persona per te, vero?”
No. Sei mia nonna, non mia madre.
“Certo.”
“Dove vai?”
Guardai la bicicletta, poi sollevai le mani dal manubrio.
“Da nessuna parte.”
Rientrai in casa e mi infilai in camera mia. Accesi il computer e dedicai le ore successive a social e videogiochi, poi ripensai al tizio strambo. Cercai di ricordare com’era vestito. Aveva dei normalissimi pantaloni con la cintura, e, infilata dentro, una camicia a quadri con le maniche corte. Non poteva nascondere armi, quindi avrei potuto interagirci in sicurezza, se avessi mantenuto la distanza sufficiente a poter scappare in caso di necessità.
Ma chi diavolo gioca a basket vestito così?

***​

Quella nuova mattina di sole quasi non pensai a mia nonna. Ero talmente preso dall'indagine che mi premurai solo di avere lo smartphone carico e ben fissato al taschino laterale del mio zainetto, facendo sporgere solo l'obiettivo. Avrei avviato la registrazione prima di avvicinarmi all'uomo.
Dopo aver pescato due biscotti dei miei preferiti dal barattolo, inforcai la mia bicicletta ancora un po' inumidita dalla notte e lasciai il vialetto di casa. Strada facendo mi chiesi se non fosse tutto un enorme sbaglio. “Mi starò mettendo in pericolo?”
Ripensai all'uomo anziano che faceva rimbalzare il pallone in quel vecchissimo campetto. Era così surreale.
Tump tump tump tump.
Quel rimbombo ritmico e vibrante mi era entrato nella testa, era come se potessi sentirlo con le mie orecchie.
Tump tump tump tump.
Tump tump tump tump.
No, un momento: lo stavo davvero sentendo con le mie orecchie. Ero giunto all'ultima curva del percorso che avevo seguito il giorno prima nel parco, e una volta svoltato l'immagine dell'uomo che palleggiava si sovrappose a quella mentale del mio ricordo.
Mi stava rivolgendo le spalle, così ebbi tempo di fare mente locale. Forse non avrei dovuto interagirci, dopotutto. Potevo filmarlo finché non mi stava guardando. Mi tolsi lo zainetto, sfilai il telefono, sbloccai lo schermo e...
“Ragazzo, mi hai portato il caffè?”
Sobbalzai fino quasi a farmi sfuggire di mano il mio preziosissimo regalo di promozione. Come poteva avermi visto? Aveva gli occhi sulla nuca?
“Se sei tornato per giocare a basket, devi darmi il mio caffè.” Solo a quel punto fermò la palla tra le due mani e si girò verso di me. “Allora?”
Mi tremavano le mani, avevo fatto appena in tempo a nascondere al volo il telefono nello zaino, a casaccio. Quel tizio era davvero inquietante, ero rimasto lì bloccato come un coniglio impaurito. Un brivido mi scosse via il torpore e riuscii a biascicare un “n-non... non ce l'ho il caffè...”
“Bah. Eppure non mi pareva di aver chiesto tanto. D'accordo, lasciamo perdere. Vieni qua.”
No, dannazione, non così! Non ho avviato il video!
Scesi dalla bicicletta e la poggiai a un gracile e sofferente alberello vicino al limite del campo, lasciando lì anche lo zainetto. Non sapevo cosa fare. Avrei dovuto annullare la missione ed andarmene? Fingere di non essere solo? Telefonare a mia nonna... per farla intervenire? No. Non avevo bisogno di una nonna. Mia mamma era morta, dovevo cominciare a ragionare da orfano e diventare indipendente. Avanzai verso l'uomo con lo sguardo a terra.
“Oooff!”
Un colpo violento all'addome mi fiaccò il respiro.
Mentre la mia mente già induceva in me il panico per un'aggressione fisica, le mie mani afferrarono istintivamente il pallone rugoso che mi aveva colpito.
“Toh, prova. Palleggia.”
“Io... io non so se...”
“Santa miseria, ci riesce la mia nipotina di quattro anni!”
Avvampai. Poi cercai di nascondere il tremore alle mani iniziando a spingere la palla ripetutamente contro il terreno.
Tump. Tu-tump. Tump. Tu-tump.
“Ragazzo, sei dannatamente irregolare. Rilassati.”
Come posso rilassarmi accanto a uno psicopatico?!
“Ecco, io non... non credo che faccia per me. Non so nemmeno perché sono qui.” Fermai il pallone tra le mani, sperando che l'uomo non si arrabbiasse, nel suo modo malato di ragionare. Lo guardai per un momento, ma non potei smettere di osservarlo. Mi stava fissando con uno sguardo intenso e profondo, ma di certo non era arrabbiato. Sembrava più che mi stesse studiando, proprio come farebbe un pazzo che si prepara ad aggredire; ma per qualche motivo non mi provocava più brividi lungo la schiena. Per qualche motivo lo guardavo e mi sentivo finalmente tranquillo. Continuò a guardarmi un istante da sotto le sue sopracciglia ingrigite e leggermente aggrottate, poi mi diede una pacca sulla spalla sinistra.
“Riprova.”
Ripresi a palleggiare, sforzandomi di ammorbidire la presa, ma il suono che producevo era decisamente disarmonico. Non riuscivo a prendere un ritmo regolare, perché a tratti premevo troppo forte, mentre in altri momenti la spinta era insufficiente e dovevo riprendere la palla decisamente più in basso perché non si fermasse. Non riuscivo a comprendere appieno il meccanismo. In quei giorni c'erano un mare di cose che non capivo. Perché non dirmelo prima, ad esempio? Perché non dopo? Perché proprio a tredici anni? E perché...
Stump!
“Ahio!”
Il pallone aveva appena colpito forte il mio piede destro, rotolando verso il bordo campo.
“Non devi palleggiare di fronte a te, ti distrai e ti ostacoli da solo. Tieni la palla al tuo fianco: è la tua compagna di squadra, non il tuo capobranco.”
“Ma io che ne so!”, sbottai. “Mica ho mai giocato a basket! Che me ne faccio poi di saper palleggiare? A cosa serve? A niente! A niente!!!”
Oh, no. Oh, no.
Mi si stavano riempiendo gli occhi di lacrime. Non adesso! Non davanti a quello sconosciuto! Ma perché, dannazione? Che mi aveva detto di così grave? Perché ero così arrabbiato?
“Io me ne vado”, dissi, dandogli le spalle. Feci per andare a recuperare lo zaino, ma una mano enorme mi avvolse la spalla e mi costrinse a girarmi. Poi con un dito mi alzò il mento. Era fatta. Una lacrima mi scese lungo una guancia, presentandomi come il ragazzino debole che non regge la pressione. Mi aspettai di vederlo sorpreso, di sentirlo ridacchiare, di sentirmi trattare come un bambino con un ginocchio sbucciato. Tutto, insomma, tranne che di sentirmi dire un numero, senza tradire la minima reazione.
“Undici.”
“Eh?”
“Lascia stare la palla per oggi. Fammi undici giri di campo.”
“Ma...”
“Di corsa! Adesso!”
E così mi misi a correre. Durante le prime falcate mi asciugai rapidamente il viso con il colletto della maglietta, poi continuai. E ancora adesso non so perché lo feci. Non era nessuno per me, nessuno. Non era un professore, non era un familiare. Non gli dovevo obbedienza. Eppure continuai a correre, e più correvo, più volevo correre. Arrivai al decimo giro stremato, perché avevo accelerato sempre di più, così feci l'ultimo rallentando. O forse rallentai perché non avevo nessuna voglia di smettere di correre, in realtà. E può darsi che non sapessi bene cosa dire, una volta smesso di correre. Era imbarazzante. Fatto sta che i giri finirono, ed io portai l'andatura al passo per poi raggiungere il centro del campo camminando in silenzio.
“Ora torno a casa.”
“Vai, ragazzo. E domani non scordare il mio caffé.”
“Io non torno, domani.”
Andai dritto verso il mio zaino senza più voltarmi indietro, me lo issai su una spalla sola e montai in sella alla mia bici, pedalando subito verso l'uscita del parco.
“Lo prendo doppio!”

***​

Stavo arrancando senza meta. Dovevo tornare a casa per il pranzo, ma allo stesso tempo volevo stare con mia nonna il meno possibile. Mi fermai a poca distanza da casa e mi sedetti sul bordo del marciapiede, pur di non rientrare in anticipo suscitando domande scomode. Presi in mano il mio telefono e aprii la chat con Peppe.
“Quando torni dalla montagna?”
Non impiegò molto a rispondermi. Probabilmente si annoiava, dato che non amava molto passare ogni inizio estate nello stesso posto. Per la sua famiglia era una sorta di tradizione: finisce la scuola, andiamo a trascorrere un po' di tempo al lago. Un paio di volte ci ero andato anche io, ma generalmente era una cosa di famiglia, che facevano solo loro. Era un bel posto, ma non c'era nulla, a parte acqua, montagne e un freddo che a giugno non interessava a nessuno.
“Ancora quattro giorni...”
Non me la sentivo di scrivergli di mia nonna, però potevo raccontargli dell'uomo fuori di testa.
“Hai letto sul gruppo di classe? Oggi ho visto di nuovo il tizio strambo.”
“Sì, ma cosa fa? Palleggia e basta? O parla anche da solo?”
Esitai un momento. Non sapevo se fosse saggio andare avanti. Sul momento non mi era sembrato male provare a giocare con la sua palla da basket, ma rivedendo la scena dall'esterno mi rendevo conto che non era stata una grande idea avvicinare quel tizio. Non sapevo nulla di lui. Nulla. E così scrissi una piccola bugia.
“Boh, ci sono solo passato davanti in bici.”
“Se lo vedi di nuovo fagli un video!”
“Ok”, faccina sorridente. Peccato che in quel momento io non stessi sorridendo. Ero soltanto più confuso di prima. Che la pazzia di quell'anziano fosse contagiosa?
Mi immersi nei miei pensieri per un altro po', poi decisi di tornare a casa per evitare di ricevere un sollecito telefonico da mia nonna. Sembrava tutto come al solito. La tv accesa, la tavola apparecchiata per due, le pentole sui fornelli. Ma sapevo che non stavo più consumando i pasti con mia mamma. Anzi, non lo avevo mai fatto: avevo chiamato “mamma” mia nonna per tredici anni. Ora come mi sarei rivolto a lei?
“Luca!”
Sussultai. Ero talmente immerso nei miei pensieri che non mi ero accorto che mi stesse parlando.
“Hai lavato le mani?”
Alzai gli occhi al cielo, pronto a rispondere di sì come al solito, ma in effetti me n'ero dimenticato. Il pranzo proseguì senza intoppi o riferimenti alla recente rivelazione, e mi andava benissimo così. Dopo mangiato sparecchiai e andai ad infilarmi in camera. Mi lanciai sul letto a fissare il soffitto. C'era una ragnatela in un angolo. Fu un momento così silenzioso che potei percepire il battito del mio cuore pulsarmi nelle orecchie.
Tump. Tump. Tump. Tump.
Mi alzai di scatto ed aprii YouTube. Trovai una marea di tutorial su come palleggiare e tirare a canestro. Ne scelsi uno dietro l'altro e passai ore intere a guardare video sul basket.

***​

Il giorno dopo mi alzai carico. Scesi al piano di sotto, pescai una banana dal cesto della frutta e bevvi un bicchierone di succo d'arancia. Poi mi infilai in bocca due biscotti.
“Luca...”
“Sto uscendo. Mi porto il telefono, tranquilla.”
“Non vuoi parlare un momento? Come stai?”
“Sto bene. Ok, non serve parlare, ho capito. Tanto sei sempre la stessa persona, cosa vuoi che mi cambi se sei mia mamma o mia nonna?”
Nel frattempo mi infilai le scarpe più in fretta possibile.
“Sei sicuro di non voler parlare?”
“Ma cosa vuoi che ti dica?”, dissi, cercando di apparire disinvolto. “Sto bene, davvero!”
“Beh, ad esempio, mi piacerebbe sentire come vuoi chiamarmi da adesso in poi.”
Raggelai. Era esattamente quello che mi spaventava dell'aprire una conversazione con mia nonna. Non sapere che appellativo utilizzare. Non sapere più se vederla come una mamma, come era sempre stato, o come una nonna. Che è una figura completamente diversa. E in tutta la mia confusione sapevo solo una cosa: non volevo mostrarmi oppresso da quella situazione.
“Ma che vuoi che cambi? È lo stesso. Scegli tu. Io vado in piazza coi miei amici, a dopo!”, dissi uscendo di casa, quando potei finalmente chiudermi la porta alle spalle. Il mio respiro era affannato, il mio cuore era a mille. Per quanto ancora avrei potuto fingere? Salii sulla bicicletta e partii.

***​

“Piega le gambe! Scarica i talloni!”
L'uomo era di nuovo lì. Mi ero presentato stringendo in una mano un caffè. Un caffè doppio, in un bicchiere monouso che mi aveva dato il barista, e glielo avevo offerto in silenzio. E mentre mi chiedevo che diamine stessi facendo, e cosa avrei dovuto dire, o se fosse il caso di chiedere scusa, l'uomo mi aveva lanciato un'altra volta il pallone nello stomaco, senza versare nemmeno una goccia di caffè, e mi aveva intimato di cominciare a palleggiare.
Tump. Tump. Tu-tump. Tump.
Ci stavo lavorando da decine di minuti, ma per quanto mi sforzassi non riuscivo ad ottenere quel suono ritmico perfetto che avevo sentito produrre a quell'uomo.
“Fermati.”
Mi faceva male il braccio e grondavo sudore come se avessi corso tutto il tempo, così non mi dispiacque fare una pausa. Quando però vidi l'uomo avvicinarmisi con un fazzoletto, pronto a coprirmi gli occhi, balzai indietro. Era a questo che mirava? Bendarmi? Per poi drogarmi, rapirmi o cosa?
“Ehi, guarda che è pulito. Mica ti spalmo in faccia le mie caccole.”
Lanciai una fugace occhiata alla bicicletta, poi cercai di memorizzare bene la mia posizione. In caso di bisogno avrei fatto uno scatto bendato, per poi levarmi il fazzoletto una volta fuori tiro. Poi l'uomo fece un nodo al fazzoletto dietro la mia nuca fissandomelo sugli occhi.
“E ora, riprova.”
A giudicare dalla provenienza della sua voce, si era allontanato, come aveva fatto le volte precedenti, per farmi palleggiare. Partii, ma dopo il primo rimbalzo persi il contatto con la palla e la sentii rotolare via.
“Non credo di poterla palleggiare bendato se a malapena ci riesco guardando quello che faccio.”
“Se palleggi grazie al fatto che la palla la vedi, non palleggerai mai bene. La palla devi sentirla, non vederla.”
Lo sentii avvicinarsi a me e piantarmi nuovamente il pallone nello stomaco.
“Riprova.”
Persi la palla un'altra volta.
E ancora.
E di nuovo.
Ed ogni volta lui mi disse “riprova”.
“Respira. Senti la palla sotto le dita.”
“Ma io non...”
“Non parlare, respira. Fai respiri profondi, rilassati.”
Mi rilassavo. O almeno, ci provavo. Ma nel frattempo mi tornava in mente il mio telefono.
Tump. Tu-tump. Tump. Tu-tump.
Sul quale avevo intravisto un messaggio non letto dal mittente “mamma”.
Tu-tump. Tump. Tump. Tu-Tump.
E avevo pensato che forse avrei dovuto cambiarlo in “nonna”.
Tu-tump. Tump. Tump. Tump.
Ma ci avrei pensato dopo. Adesso, stavo palleggiando.
Tump. Tump. Tump. Tump.
Stavo palleggiando e basta.
Tump. Tump. Tump. Tump.
E quanto si stava bene lì. Nel buio. Senza pensare a null'altro che al suono che producevo con i rimbalzi.
Che fossero davvero i battiti del cuore del campo da basket?
Non so per quanto tempo continuai, ma l'uomo non mi fermò. Né mi fermai io. Non avrei lasciato quell'ipnotico limbo per nulla al mondo, così andai avanti finché non ebbi la mente completamente vuota. A quel punto afferrai la palla al volo, perché ormai sapevo esattamente dove fosse, la posai a terra e mi sfilai il fazzoletto. L'uomo era di fronte a me che mi fissava dall'alto in basso con i suoi occhi scuri.
“Hai visto? Puoi palleggiare senza guardare la palla.”
Mi sentivo rilassato, come se fossi stato in una spa. Non che ci fossi mai stato, ma era così che mi immaginavo ci si sentisse.
“Adesso, posizionati davanti al canestro. Togli il peso dai talloni. Tienilo in avanti.”
Stavo per tirare a canestro? Beh, forse era giusto. Dopotutto, dopo il palleggio viene il tiro, no?
“Adesso guarda il canestro. Lo vedi?”
“Certo.”
“Lo hai focalizzato?”
“A-ha.”
“Bene, non staccargli gli occhi di dosso. E ora, palleggia.”
“MA CHE...!”
“Prima si trattava di saper palleggiare senza guardare la palla. Adesso si tratta di saper palleggiare mentre guardi il tuo obiettivo.”
Non poteva essere difficile. Lo avevo appena fatto correttamente. Eppure persi la palla dopo due rimbalzi.
“Non è facile rimanere stabili mentre si mantiene l'attenzione fissa su qualcosa, vero?”
“Sì, cioè, no...”
Incespicai perché mi resi conto che quell'uomo non stava parlando del basket. Non solo, per lo meno. Poco prima avevo trovato la mia stabilità proprio mettendo da parte il mio pensiero fisso.
“Per oggi può bastare, vai a casa.”
“Ma io voglio continuare!”
“Tornerai domani, è ora di pranzo adesso.”
“Ma...”
“E non scordare il mio caffè.”

***​

Sì, ci tornai. Con il caffè, doppio. Ogni giorno, per due settimane.
Tump. Tump. Tump. Tump.
Tump. Tump. Tump. Tump.
Ora i palloni erano due, e anche le bende sugli occhi. Dopo alcuni esercizi di vario tipo, palleggiavamo in silenzio ogni giorno, in sincrono. E quando decidevamo di fermarci, mi faceva tentare un tiro a canestro. Uno solo, col peso sugli avampiedi, la gamba destra leggermente avanzante, la palla poggiata sui polpastrelli della mano destra, con braccio ed avambraccio piegati a novanta gradi e sulla stessa linea della gamba avanzata. La mano sinistra reggeva il pallone.
E avevo sempre sbagliato il tiro.
“Non preoccuparti. Riuscirai domani.”
“Ma perché? Perché domani? Se provassi oggi dieci volte, farei il lavoro di dieci giorni! Perdo un sacco di tempo!”
“Se provassi oggi dieci volte, sbaglieresti dieci volte.”
“Ok, ma questo non cambia! Se il mio tiro giusto fosse il centesimo, mi riuscirebbe in dieci giorni, e non in cento! Tutto questo non ha senso!”
“Undici!”
Dannazione. Ogni volta che mi ribolliva il sangue, l'uomo mi metteva a correre. In quel campo era impossibile rimanere preda dei propri sentimenti.
Cominciai il primo giro, richiamando alla mente gli eventi dei giorni trascorsi.

“Non posso palleggiare, correre, fare lo slalom e anche saltare gli ostacoli!”
Una mattina, il campo era stato allestito con ostacoli improvvisati, fatti con vecchi mattoni e rami secchi.
“Certo che puoi. Respira. Senti la palla.”
Ma io ero inciampato in un ostacolo un istante dopo, rovinando a terra e prendendo una storta. Mi ero alzato furibondo, avevo scagliato il pallone fuori dal campetto e spezzato in due il ramoscello incriminato.
E poi avevo fatto undici giri di campo.

E quando a casa mia nonna aveva insistito a voler parlare ancora della questione, cosa che odiavo, perché più cercavo di non pensarci e più rigirava il coltello nella piaga, ero arrivato già infastidito al campetto, e vi avevo trovato l'anziano pronto a chiedermi come mai il caffè fosse freddo e io fossi in ritardo.
“Ma possibile? E se non parlo non va bene! E se parlo troppo non va bene! E l'orario non va bene, che poi, vorrei sapere chi lo ha deciso che debbano sempre essere le dieci in punto, visto che nessuno di noi due lo ha mai detto! E il caffè non va bene! E compratelo da solo, cazzo!”
E le lacrime avevano di nuovo rigato il mio viso.
E poi avevo fatto undici giri di campo.

E altre volte avevo urlato, pianto, imprecato.
Sì, avete indovinato: poi avevo fatto undici giri di campo, ogni volta.

Finii la mia punizione come le altre volte, dopodiché decisi di provare a chiederglielo. Mi avvicinai, ancora ansante, e tossii la mia domanda:
“Perché... uff... sono sempre... uff... undici giri?”
L'uomo mi aveva lanciato la palla, che ormai avevo imparato ad afferrare al volo per preservare la mia gabbia toracica, e poi mi aveva indicato i polpastrelli.
“Le dita sono la parte del corpo con cui percepisci la palla. Non gli occhi, non le orecchie, non il naso, non la lingua. Le dita. E sono dieci.”
“E all'ora, quell'uno?”
“Le dita non bastano per sentire davvero il basket dentro di te. Prima di ogni cosa devi metterci il cuore. E se ci metti il tuo cuore, l'unico che hai, può darsi che tu riesca a sentir battere anche quello del più scalcinato dei campi, col suono dei tuoi palleggi.”

***​

Il giorno dopo mi alzai, mi diressi in cucina e trovai mia nonna a stilare la lista della spesa col frigorifero aperto ed un'aria pensierosa. L'avevo vista spesso pensierosa, ultimamente, mentre io giorno dopo giorno mi focalizzavo e stabilizzavo. Aveva smesso di farmi domande. Così presi fiato, mi avvicinai, e le dissi “ciao, mamma. Segna anche i biscotti, per favore.”
Lei spalancò gli occhi, che diventarono lucidi all'improvviso, mi afferrò per le spalle e poi mi abbracciò, respirando forte. Poi si distanziò, mi guardò negli occhi e mi chiese: “sei sicuro?”
“Certo. Li ho sempre avuti per colazione, e continuerò a volerli ogni mattina. Come è sempre stato.” Mi sorrise come non faceva da settimane, poi la sentii tirare su col naso mentre uscivo di casa per recarmi dal mio amico come ogni giorno, ma una volta lì non lo trovai. Mi preoccupai subito che potesse essergli capitato qualcosa, ma poi notai il pallone a bordo campo. Quando lo raggiunsi, subito accanto trovai un biglietto, fermato a terra con un sasso.

“Continua da solo.

Dino.”

Curioso. In oltre due settimane non mi era mai venuto in mente di chiedergli come si chiamasse, né lui l'aveva chiesto a me.
Non mi preoccupai troppo. Ero convinto che lo avrei rivisto. Mi posizionai di fronte al canestro, tirai e centrai l'anello di metallo arrugginito con un tiro pulito e preciso. Presi il telefono, aprii la chat di gruppo e scrissi un messaggio ai miei amici.

“Chi viene a fare due tiri al campetto da basket?”
Bonus: easter egg (difficile da cogliere per i non appassionati)
Il nome Dino rappresenta un riferimento a Dino Meneghin, cestista che aveva la maglia numero... Undici!

- "Leggenda popolare di Galar" di @Losba
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Tema Libero – Fic Challenge 2020

Leggenda popolare di Galar

Uscito da Steamington, ero pronto a farmi una passeggiata nelle Terre Selvagge a caccia di qualche selvatico raro, quando, voltatomi per cercarne qualcuno, mi soffermai sulle rovine della Torre Diroccata. Mio nonno me ne parlò quando ero piccolo: diceva che era una testimonianza di un grande passato. Dame, cavalieri e Pokémon dimoravano in quel luogo che, a suo dire, tanto tempo fa era un fiorente castello. La leggenda narrava più o meno così:

«Dove ora sorge Steamington, un tempo si trovava un enorme fortezza. Ne è testimonianza la Torre Diroccata che, nonostante tutto, è sopravvissuta ed è stata risparmiata come memoriale dei funesti eventi avvenuti 3000 anni fa.»
«Cos’è successo 3000 anni fa, nonno?»
«Oh beh, nessuno lo sa con certezza, ma la leggenda racconta che l’intera regione di Galar venne attaccata da Dynamax incontrollati!»
«Wow! Il Dynamax è proprio forte.»
«Già, e pensa che solo recentemente siamo riusciti a controllare questo potere. Ai tempi fu una vera e propria catastrofe…

Era un giorno come gli altri quando, a poco a poco, delle nubi violacee iniziarono ad oscurare il cielo di Galar. A Turffield un Gigamax Toxtricity impazzito seminò il panico con le sue folgori; d’altra parte a Keelford furono proprio i Toxtricity a tenere testa ai colossi provenienti dal mare; e qui a Steamington il Dynamax incontrollato colpì la cittadina nel suo profondo…
Cavalieri armati tentarono di contenere l’orda di Pokémon giganti provenienti dalle Terre Selvagge. Al loro fianco valorosi Corviknight attaccavano con i loro possenti Baldeali. Si sa che questi Pokémon hanno sempre avuto un ruolo fondamentale nella cultura della regione.
Ad un tratto un fragoroso schianto fece voltare tutti i soldati in direzione della città… un Corviknight più grande di tutti gli altri si era ingigantito proprio al suo interno! Al solo spalancare delle sue ali devastò torri e mura, tanto che tutti si sentirono perduti. Poi si alzò in volo, distese le ali e liberò una tempesta di piume dure come l’acciaio che, veloci come dardi, bombardarono la città. Presto i villici capirono che non si trattava di un Corviknight normale, ma di un esemplare Gigamax e mai avrebbero pensato che il Pokémon Corvo ne fosse capace.
La situazione era drammatica: l’esercito era occupato sul lato delle Terre Selvagge, e la città ormai rasa al suolo continuava a subire la furia incontrollata del rapace.»

«Nonno ma tu hai 3000 anni, quindi?»
«No no, oh oh oh… è una leggenda che mi raccontavano, a loro volta, i miei nonni. Ma ora lasciami finire, sta giusto per arrivare l’eroe della nostra storia.»
«Come Dandel?»
«Sì, più o meno forte quanto il Campione.

Ehm, dicevo… Ormai la situazione era tragica quando, come una luce nell’oscurità, un baldo cavaliere dall’armatura dorata giunse in soccorso! Veloce come il vento corse tra le macerie del castello tenendo il proprio scudo sul capo per proteggersi dalle Aviolame del Corviknight che continuava imperterrito nel suo operato. Si fece strada sui resti di abitazioni e mura con grandi ed aggraziati balzi fino a raggiungere un punto sufficientemente alto, e da lì proruppe in un potente grido di battaglia rivolto al gigante. Il Corviknight lo individuò e repentinamente, con una rapida giravolta, si avventò su di lui! La velocità a cui andava era folle! Mentre si avvicinava sempre più al cavaliere, questo rimaneva immobile fissando intensamente il suo nemico, fino a quando con un rapido e deciso movimento trafisse il Pokémon in mezzo agli occhi…»

«Bleah, che schifo!»
«Aspetta aspetta, non è finita qui…

Tuttavia, la creatura non stramazzò al suolo, ma si dissolse nell’etere come se non avesse massa. L’eroe si tirò in piedi, si prese un secondo per contemplare la situazione e poi spiccò un enorme balzo tornando a terra ad affiancare uomini e Pokémon nella lotta contro i giganti. Non si sa poi dove finì, ma l’indomani il cielo tornò a splendere su Galar, alcuni dicono sia stato grazie a lui.
Anche a Circhester c’è testimonianza dell’eroe, e noi gli abbiamo pure eretto una statua all’interno della Budew Inn.
Tuttavia, ciò che una guerra lascia è peggio della guerra stessa. Moltissimi Pokémon ed umani morirono quel giorno, e Galar si ritrovò indebolita. Ancora oggi si narra che nei pressi della Torre Diroccata, le anime degli antichi abitanti di Steamington si aggirino sotto forma di Pokémon…»

Mio nonno non mi spiegò mai perché le anime continuassero a vivere nei dintorni della rocca. Forse per un “semplice” legame d’appartenenza con la propria città? Oppure erano costrette a farlo? Erano per caso un monito per noi posteri? E se sì, cosa volevano rammentarci?
Credo di aver trovato una risposta… quegli Spettri sono morti per causa del fenomeno Dynamax e con loro anche numerosi Pokémon. Oggi noi sappiamo gestire tale potere, ma “da grandi poteri derivano grandi responsabilità”. Spero solo che il Presidente Rose, senza il quale la Galar di oggi non esisterebbe, non ne abusi…


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Lucas992X

Senza gli apici
Wiki
- "La fottuta Repubblica di California" di @Apeshit
La fottuta Repubblica di California
«Keep a place for me, for me
I'll sleep between y'all, it's nothing
It's no thing, it's nothing
Keep a place for me, for me»
Frank Ocean, Self Control
Erano settimane che aspettavo quella sera. La mia concentrazione dallo studio era ormai ridotta ai minimi termini. La fine di ogni pagina, la fine di ogni paragrafo, la fine di ogni singola frase mi portava a fare mente locale così da capire quanti giorni rimanevano. E mi innervosiva. Mi innervosiva essere così poco efficiente. Alla frustrazione delle 700 pagine di diritto da studiare si aggiungeva al fastidio dettato dal fatto che ci mettevo sempre più per raggiungere l’obiettivo giornaliero. Quando ero piccolo nonna diceva che se non mangiavo in fretta la pasta, la pasta sarebbe cresciuta nel piatto. Una moltiplicazione dei pani e dei pesci senza i pani, senza i pesci e soprattutto senza il Figlio di Dio. Credo che per quel libro funzionasse alla stessa maniera. Ogni volta che riducevo ad icona il pdf mi sembrava che la pagina si fosse allungata un po’. Ma non ne potevo fare a meno. Come una falena non riesce a rinunciare ad avvicinarsi alla luce che la brucerà, la mia mente era fissa su quella data. Quando il numero di settimane si era ridotta ad una, la mia capacità di concentrazione si fece ancora più debole. E più i giorni si bruciavano sotto il sole dell’estate più calda del Secolo, più il concetto stesso di concentrazione si faceva astratto, quasi sconosciuto. Il giovedì fu un vero e proprio disastro. Non ero neanche più in grado di arrivare al termine di una frase senza che il mio corpo non sentisse la necessità di fare mente locale ad ogni parola che superasse i quattro caratteri.
Il venerdì non provai nemmeno a studiare. Farlo avrebbe solamente rallentato lo scorrere del tempo proprio nella giornata in cui volevo che la Terra finisse il moto di rotazione il prima possibile. Volevo che il sole cominciasse la sua discesa con ogni cellula e batterio del mio corpo. E quindi feci quella cosa che mi aiutava a consumare lo scorrere delle ore con facilità. Mi attaccai alla Playstation. E più falcidiavo gli Heartless e più i secondi, i minuti e le ore passavano. E più queste passavano ed era già ora di pranzo. E poi era pomeriggio e altri Heartless e altri secondi, minuti, ore.
Poi arrivarono le 18. Le 18 in punto perché avevo aspettato quell’orario con una maniacale attesa e fu il momento in cui il mio corpo poté bearsi di una doccia fresca. Ma dopo la doccia, dopo che mi fui attentamente pulito e vestito come avevo preventivato con diversi giorni d’anticipo, ecco che il tempo ricominciò a scorrere lento. E allora un altro turno alla Playstation così che le 20.45 potessero giungere senza troppi intoppi. E quando il numero 44 lasciò spazio al numero 45, aprii la porta di casa con la mano destra umidiccia per l’agitazione e misi il naso fuori casa. Il sudore scendeva dalle ascelle e scorreva lungo i fianchi, la schiena. Lo sentivo bagnarmi zone del corpo di cui non ero a conoscenza. Sceso per strada sentii un venticello tanto leggero quanto fresco risalire dai pantaloncini di jeans e le maniche della camicia. Andavo alla festa di paese. O meglio, andavo ad un concerto.
Arrivai lì in circa un quarto d’ora, con qualche minuto d’anticipo rispetto a quello che era l’obiettivo prefissato, le nove; tanto che la milza aveva cominciato a farmi un po’ male. Un discreto numero di ragazzi affollava il bancone di quel bar temporaneo. Riconobbi un tale della mia città dietro il bancone. Penso avesse la mia età, un tipo magrolino, col volto scavato. Non aveva l’aria di divertirsi molto. I suoi colleghi, invece, sembravano più rilassati nel muoversi da un cliente all’altro. Erano così veloci. Adesso servivano una birra, adesso prendevano un amaro, ora facevano il caffè. E in quella selva di persone che assiepava il bar, quello che attirò la mia attenzione… furono le spalle. Le spalle non sono esattamente il tratto più riconoscibile di una persona e di certo non lo erano le sue. Non erano spalle larghe, che ne so, quelle tipiche da nuotatore. E non erano nemmeno spalle di un fisico gracile come il tizio che lavorava al bar.
Però erano le sue spalle e tanto bastava per farmelo riconoscere.
Mi insinuai tra la folla. Probabilmente il cuore mi batteva così forte solo nel momento in cui salivo sulle montagne russe. E tra un permesso sussurrato e l’altro, con il mio costante raspino in gola, ero al suo fianco. Prima che potessi rendermene conto, come in preda ad un qualche sortilegio, la mia mano sinistra si alzò per aria e si appoggiò sulla sua spalla.
«Hey»
Si voltò, allontanò il volto per un istante e poi le sue labbra si aprirono mostrando un sorriso che, all’apparenza, era sincero. «Marco, come stai? Tutto bene?»
Annuì, gli dissi di sì, gli chiesi come stesse, soliti convenevoli per dimostrarsi persone civili ed educate. Ma mi resi conto che il mio cervello – presumo che fosse lui il responsabile – non riuscisse a cogliere niente di tutto quello che diceva. Non era solo la troppa confusione, tra chi chiedeva un Amaro del Capo e chi invece il limoncello, sembrava che il mondo attorno a me avesse cominciato a girare all’impazzata. Ricordo il consueto dolore tra il cuore e la spalla destra, tipica di quando sono su di giri dopo quel brutto incidente al polmone. Probabilmente stavo continuando a sorridergli.
Realizzai che aveva smesso di rispondermi e oh-mio-dio non so quanto tempo fosse passato da quando lo fece a quando lo capii. E gli dissi la prima cosa che riuscii a pensare. E fortunatamente, nonostante tutto, ero ancora una persona che sapeva mostrare un po’ di coerenza con quello che l’ambiente gli forniva. «Emozionato?» chiesi cercando di celare con un sorriso quell’imbarazzo di chi sa di aver potenzialmente fatto una gargantuesca gaffe.
Mi sorrise, si rivolse verso il banco, prese il bicchierino con dentro un liquido nero, «Ne vuoi uno anche tu?»
«Magari dopo»
«Ci conto, eh» e lo trangugiò tutto, di colpo. Visto quanto poco ce n’era dentro non credo che fosse qualcosa di particolarmente difficile. «Adesso non lo sono più» e scoppiò a ridere.
«G.» lo chiamò una ragazza, allungando la lettera finale del suo nome all’infinito. Si voltò all’indietro. La band era sul palco sotto il tendone. «Devo andare, ci vediamo dopo?» disse e senza aspettare una risposta mi batté la mano sulla spalla, lasciandomi là.
***​
Appena salì sul palco le luci si spensero e cominciammo a gridare come se fossimo a San Siro o al Forum e davanti ci fosse Tiziano Ferro o Marracash. Non ci avevo fatto caso ma non era vestito esattamente come qualcuno che deve reggere un concerto di due ore. Ai piedi aveva un paio di All Stars, un paio di pantaloncini di jeans e una camicia bianca di lino sbottonata a sufficienza per lasciare intravedere un po’ il petto.
Presero a ballare con l’inizio della musica. Ballavano tutti. Ballavano e ridevano, saltavano, battevano le mani. E io, nello stare fermo mi sentivo così a disagio. E allora lo feci anche io. Cominciai a ballare. Cominciai a far slittare i piedi a destra e sinistra, a muovere le spalle da una parte e l’altra e a canticchiare quello che G. e i suoi amici stavano cantando. Anche se la canzone faceva schifo, anche se Riccione era una canzone che meritava di esser bandita, gli autori incarcerati e i master bruciati facendogli fare la stessa sorte che è capitata a “Ultimo Tango a Parigi”. E vedete, non avevo capito esattamente come funzionasse. Perché non mi ero accorto che tra una canzone e l’altra le persone lasciavano il centro della pista. E ne bastarono quattro-cinque perché fui davanti, in prima fila. G. mi aveva visto, mi aveva sorriso e mi aveva fatto l’occhiolino.
«Ora è il momento di riportare in auge gli anni ’60… sentite Woodstock nell’aria? Dallas novembre ’63, l’odore del napalm con il caffè» disse muovendosi e schioccando le dita. «E le collane dei fiori attorno al collo, la canapa e la maria nell’aria». Riconobbi la melodia in sottofondo. Non era una canzone qualsiasi.
«All the leaves are brown» e il cuore parve scoppiarmi. Attorno a me si muovevano, ma io non riuscivo. Le gambe, le ginocchia si erano pietrificate.
«And the sky is gray» cantò, facendomi l’occhiolino con l’angolo della bocca all’insù. E sentii la mia faccia bruciare.
«I’d be safe and warm if I was in L.A.» e alzò il dito, indicandomi.
«California Dreamin’ on a such winter day» seppi che qualcuno mi stava ora osservando. Mimetizzarmi. L’imperativo fu di mimetizzarmi. Cominciai a ballare e chiusi gli occhi, non volevo incrociare il suo sguardo né di qualcun altro curioso di scoprire chi fosse la persona che stava ricevendo tutte quelle attenzioni.
Ascoltai quella canzone la prima volta che venne a casa mia, un mese e mezzo prima.
«Vuoi sentire una canzone che penso di suonare al concerto?» mi aveva chiesto alzandosi dal letto su cui eravamo sdraiati. L’aroma dell’incenso indiano era amplificato dall’assunzione di una pasticca di ecstasy che aveva portato. Gli osservai i polpacci e alzai lo sguardo cercando di memorizzare la posizione di ogni singolo pelo. Le mutande aderivano perfettamente al sedere, tanto da metter in evidenza il solco intergluteo che pareva esser stato scolpito nel marmo di quei boxer grigio chiari. Lo ricordo piegarsi in avanti per far riprodurre la canzone sul computer e sentii le viscere prendere il controllo di me. Ebbi l’istinto di allungare il braccio per tastare e toccare quel sedere come se con il mio solo arto potessi superare lo spazio di circa un metro che separava il letto e la scrivania.
«California Dreamin’» sbiascicai.
«La conosci?» disse poco dopo l’inizio della canzone.
«Sì», dissi sorridendogli. «Ci sei mai andato in California?»
«Ma la California non esiste. È uno stato mentale». Le foglie sono tutte marroni e il cielo è grigio, cantavano le voci che fuoriuscivano dal computer e non so cosa successe perché proprio come G. stava cantando nel mezzo del concerto, anche io, come il protagonista della canzone, mi ero messo in ginocchio e nessuno dei due lo stava facendo per pregare. Ricordo di aver alzato lo sguardo per vederlo in faccia, ma la luce al neon sopra il suo capo pulsava e ne copriva i lineamenti, permettendomi di intravedere solo il profilo della bocca dischiusa e i riccioli dei capelli che superavano le orecchie.
Credo che fossero da poco passate le ventitré quando la musica si interruppe e le luci si riaccesero. G. e i ragazzi si avvicinarono al bordo del palco, fecero l’inchino e poi scesero nel pubblico venendosi a prendere i complimenti, le pacche sulle spalle e gli abbracci. Davanti a quel bagno di folla mi misi sul lato con la schiena che sfiorava il lato destro del tendone. Lo guardavo venir circondato da ragazze, persone che non avevo mai visto prima d’ora, persone che non ero nemmeno sicuro venissero dalla nostra città. Sentii una strana sensazione alla bocca dello stomaco, come se si fosse chiusa all’improvviso. Sentivo freddo. Freddo al centro del petto. E mi dava fastidio. Sentivo una sensazione di inquietudine, come se stessi aspettando qualcosa che non arrivava. E mi venne voglia di andarmene. Decisi di prendermi una Coca-Cola al bar. Andai al bancone e non appena appoggiai le labbra alla cannuccia, sentii un dito pungolarmi la spalla.
«Sei Marco, giusto?». Quando mi voltai vidi una di quelle ragazze che non avevo mai visto prima e che però mi era sembrato di scorgere nel gruppetto di groupie che si era complimentato con lui.
«Sì» le dissi, accigliando la fronte.
«Ha chiesto G. se puoi andare là» alzai lo sguardo sopra la sua spalla. I ragazzi si erano seduti in cerchio. La maggior parte di loro avevano qualcosa da bere, bicchieri di birra fondamentalmente. Non appena cominciai ad incamminarmi, G. posò lo sguardo su di me. Fece un gesto, un gesto che mi tolse il respiro: picchiettò con la mano il proprio ginocchio. Rimasi fermo, paralizzato. Scossi con un gesto rapido la testa. Pensavo fosse impercettibile ma lui, di risposta, annuì e batté la mano ancora sulla gamba. Sgranai gli occhi e con la mano libera afferrai lo schienale di una delle sedie di plastica trascinandola verso di loro. Lo vidi scuotere la testa sorridendo, con i riccioli sudati coprirgli il naso. Si alzò e corse verso di me, mi venne alle spalle e mi abbracciò stringendomi.
«Ti avevo detto» e scoppiò a ridere mentre mi spingeva verso la sedia che aveva lasciato. Mi lasciò per un istante, il tempo di sedersi e poi con le braccia mi avvinghiò e mi fece sedere sulle gambe.
Sentivo il volto cuocere, sentivo il suo respiro accarezzarmi il collo, sentivo il calore del suo petto su tutta la schiena. Gli altri ci ignoravano, come se avere una coppia omosessuale davanti a loro fosse la cosa più normale del mondo. Ma soprattutto, non erano neanche sorpresi dal fatto che mi stesse abbracciando come io avessi sempre fatto parte del loro mondo, come se mi conoscessero. Come se mi avesse bramato per tutta la sera. Ridevano e scherzavano e in tutto quel trambusto lo sentii chiaramente.
«Grazie» e le mani mi strinsero ancora di più il ventre. Mi rilassai e andai indietro e lui dovette seguire il movimento.
***​
Andammo a farci un giro dopo il concerto. O meglio, dopo che con i suoi amici aveva smontato tutta la strumentazione utilizzata. Me ne stavo andando quando venne a fermarmi, chiedendomi di aspettarlo. Avevamo camminato senza meta per tutta sera che divenne notte. Non sapevo che ore erano, non avevamo mai guardato il telefono per controllare i messaggi, tanto meno l’orario.
Finimmo seduti sul marciapiede nel piazzale della stazione, la mattina sempre gremito di automobili dei pendolari e a quell’ora invece assolutamente deserto. Anche i tossici e gli alcolizzati che ronzano là intorno la in tarda serata non si facevano vedere a quell’ora.
«A cosa pensi?» mi chiese guardandomi, notando quello che era il mio sguardo fisso sul marciapiede dall’altra parte della piazza.
«A niente» risposi. Ed era vero. Non pensavo a niente, non riuscivo a pensare a niente se non a godermi ogni secondo di quella compagnia. Allargò le gambe e il suo ginocchio destro toccò il mio sinistro. Tanto bastò per farmi scattare la più rapida erezione della mia vita.
«Che bellezza» disse sdraiandosi.
«Non hai paura che sia sporco?» feci. Allungò la mano sulla mia spalla e sgranai gli occhi, perché cominciò a tirarmi verso il basso. Eravamo entrambi supini a guardare il cielo che ci deliziava con qualche stella ma soprattutto uno spicchio di luna.
«Ho sudato come un porco questa sera, sarà più pulita la strada di quanto possa esserlo io prima di una doccia», sorrisi. Si mise sdraiato di lato, sentivo i suoi occhi scivolarmi addosso, passare in rassegna i miei lineamenti.
Lo vidi a rallentatore. Vidi a rallentatore il braccio allungarsi. Vidi a rallentatore la mano aprirsi ad uncino, vidi a rallentatore il braccio passarmi da spalla a spalla. Sentii le dita chiudersi sulla manica e lo sentii tirarmi verso di lui. Ebbi tutto il tempo per rilassarmi, per far sì che il mio peso non fosse un problema per qualsiasi cosa avesse intenzione di fare. E collaborai facendomi mettere di lato e in una frazione di secondo avevo l’incontro delle nostre lingue in bocca. Sentivo il respiro su di me. Gli afferrai la camicia, gliela stropicciai, gliela sporcai con la poltiglia che ormai mi trovavo sulla mano mista di polvere del marciapiede, terra e sudore. Lo spinsi a terra e mentre mi divincolavo dalla sua presa al contempo la mia gamba destra gli passò sopra, permettendomi di sedermi su di lui. Ero proprio seduto sopra il suo sesso. Lo provocavo e mi stuzzicavo muovendo il bacino a cerchio. Mi sorrideva in quel misto di eccitazione e sorpresa.
«Ti voglio» gli dissi prima di tornare a baciarlo mentre la mano scendeva sul cannoncino della camicia, cercando di sbottonarglielo.
Quando tornai a casa e guardai il telefono scoprii che mancavano pochi minuti alle cinque. Mi sdraiai e fissai il soffitto. Una leggera brezza mi accarezzava. E così coccolato mi addormentai.

***​
«Cosa stai leggendo in questi giorni?» mi chiese dopo che aveva soffiato fuori il fumo della sigaretta dalla bocca. Avevamo scoperto che entrambi eravamo lettori. Lui però consumava più libri di me.
«It»
«Lo vuoi un palloncino, Marco?» fece con voce bassa e strozzata, «Vieni a vivere col Clown!»
«Piace anche a te?»
«Adoro King» e allungò le gambe verso la strada.
«Davvero?»
«Certo, ho letto It quando è uscito il primo film» e la camicia, aperta, cominciò a sventolare in balìa del vento.
Ci eravamo visti la sera dopo. Me lo aveva chiesto lui quando mi aveva riaccompagnato a casa.
«E ti è piaciuto?»
Aveva avuto un’espressione felice quando mi aveva fatto la proposta.
«Il film o il libro?»
Non avevo neanche finto di guardare i miei impegni sul telefono.
«Entrambi»
Ormai non avevo più amici in città, erano andati via tutti.
«Hanno entrambi pro e contro. Però, sì, mi sono entrambi piaciuti. A te? Sta piacendo?»
C’era solo la mia famiglia.
«Decisamente. Sta forse cambiando il mio approccio alla scrittura»
E lui.
«Scrivi?» mi domandò con una sorta di eccitazione nella voce. Mi fissava con gli occhi sgranati. Si era seduto sul sedile del passeggero anteriore della sua auto. Io ero invece nella zona posteriore. Una pallina di fazzoletti bagnati giaceva a terra tra noi.
«Sì, ogni tanto mi diletto nella scrittura» dissi abbassando lo sguardo sulle mani.
«Non me lo hai mai detto prima. Perché? Cosa scrivi?»
«Non lo so… un po’ di tutto. Al momento sto provando a scrivere un fantasy, qualcosa che potrebbe essere ispirato a Final Fantasy»
«Non sono un fan del genere… altre cose? Horror?» mi misi a riflettere. Effettivamente una volta avevo provato a scrivere una storia horror, ma altri non era che un plagio di “Rec” e “Resident Evil”.
«No, horror mai»
«Mi leggi qualcosa?»
Alzai le spalle, «Nah, non mi va»
«Dai, ti prego» e allungò la mano, posandomela sul ginocchio. Inutile dire che reazione fisica mi avesse causato.
Alzai la testa per guardarlo.
Sapete, ci sono due motivi per cui questa domanda viene fatta. C’è il primo motivo, che riguarda il 99,99% dei casi e che rappresenta fino a quel momento l’unico che conoscevo. È il motivo per cui le persone sono curiose di sapere quanto tu sia capace di scrivere qualcosa e capire quanto tempo perdi nel fare qualcosa dai più ritenuto inutile. E poi c’è un secondo motivo che mi si rivelò solo in quel momento e la scoperta mi investì, mi colpì in pieno, fu un pugno alla bocca dello stomaco. Rappresenta l’interesse di qualcuno di volerti conoscere utilizzando come porta di ingresso al tuo mondo quello della scrittura. Riesce sempre. Chiunque scrive lascia sempre brandelli di sé nel proprio racconto.
Presi il telefono per la prima volta quella sera e gli lessi le bozze di un racconto che mi ero salvato una notte di qualche settimana prima. Rimase in silenzio tutto il tempo, ascoltando con la testa abbassata e gli occhi chiusi. Immobile. Inerme. Il fumo della sigaretta continuava a salire verso l’alto, diventando sempre meno visibile, scomparendo nell’aria.
«Caspita» mi disse dopo qualche secondo di silenzio. «Non so se mi piace il tuo stile, ma caspita».
«Non è nulla di che, anzi… rileggendolo mi accorgo che potrei scriverlo diversamente e in modo migliore». Buttò la sigaretta in avanti, facendole perdere cenere lungo la traiettoria. Poi si alzò e chiuse la portiera, per venire a sedersi vicino a me. Mi chiese se mi desse fastidio l’odore del fumo. Gli dissi di sì.
Mi rispose che dovevo abituarmi.
Ma lo avevo già fatto.
***​
I primi giorni di agosto i miei sarebbero partiti per le vacanze, lasciandomi casa libera. Quando realizzai l’opportunità di passare del tempo con G. al chiuso piuttosto che per strada, avevo cominciato a fare il conto alla rovescia dei giorni che sarebbero mancati. Ma accadde qualcosa. Accadde l’imprevisto. Nella traiettoria di due magneti si era inserita una terza forza che ne modificava inevitabilmente il percorso.
Erano i primi giorni di agosto, ero sdraiato a letto. Stavo perdendo del tempo al telefono quando mi arrivò una notifica di un messaggio che mi raggelò il sangue.
“Stasera mi vedo con un ragazzo”, proveniente da G.
Le mani che sentivo essere calde e madide di sudore da quel momento le percepii fredde. Aprii WhatsApp per assicurarmi che quanto avessi letto fosse semplicemente una finzione.
“Stasera mi vedo con un ragazzo” sostava sotto la scritta “Oggi”. E sopra una serie di “notte” da parte mia e da parte sua con una serie di emoji che si scambiavano bacini col cuore. E percepii che non stava scherzando. Non era il genere di scherzi che faceva. Scherzava sulla politica, sulla pandemia ma non mi scriveva mai nulla di serio che potesse rivelarsi poi una palla. Quelle sei parole costituivano un messaggio chiaro che non lasciava spazio ad alcun dubbio. Quelle sei parole implicavano che lui, G., si sarebbe visto con un ragazzo che non si chiamava Marco, che non aveva visto nel precedente mese e con cui non aveva cominciato a parlare nel mese di maggio.
Poteva però essere un’eccezione. Poteva però trattarsi di uno scherzo. Poteva trattarsi di un cambiamento della sua personalità dopo settimane di rapporto.
“In che senso?” è mai esistita una frase più finta-tonta? Quando una persona chiede in-che-senso, il senso lo sa sempre. Cominciò a scrivere. E fu l’attesa più straziante della mia esistenza. L’attesa per aspettare che mi dicesse “Con te, pirla. Già lento di prima mattina?”.
E scriveva. Scriveva. Scriveva. Scriveva.
“C’era ‘sto tizio che frequentava ‘Diritto Internazionale dell’Ambiente’ lo scorso semestre. Oggi ho acceso Grindr e l’ho visto. Gli ho scritto. Non abbiamo nulla da fare questa sera e quindi usciamo”.
Mi è difficile descrivere quello che accadde in quel momento. Mi è difficile perché ho solo ricordi vaghi in proposito. Ricordo di aver sentito una morsa al petto. Ricordo che il polmone destro ricominciò a farmi male.
“Ah” risposi e ricordo che sentii un’aria fredda, pungente proveniente dalla finestra. Alzai il lenzuolo e mi coprii.
“Ci sei rimasto male?”. «Ma vaffanculo» gridai, «ma vaffanculo, Dio santo» spensi lo schermo del telefono e lo misi sotto il cuscino. Rimasi a fissare il soffitto e sentii la gola chiudersi. Mi misi prono con il viso verso la parete. Mi si inumidirono gli occhi e allora li chiusi. Feci colazione e quando tornai in camera vidi una sfilza di messaggi:
“Eddai, Marco, non ti prendere male.
Alla fine non siamo una coppia.
Non c’è nulla di male nell’uscire con qualcun altro.
Anche tu puoi farlo.”
Con la differenza che a me non andava di farlo. Provai a non agire in maniera gelosa e continuai a scrivergli per tutto il giorno facendo finta di niente, con la mente che però continuava a ricordarmi che presto la sera sarebbe arrivata e i nostri contatti si sarebbero persi inevitabilmente. Infatti, dopo le nove, smise di rispondermi. E non mi rispose neanche alle dieci. Neanche alle undici. Neanche a mezzanotte. Fu solo alle due di notte, quando ormai il mio corpo aveva cominciato ad esser scosso da sussulti del pianto, che mi arrivò il messaggio dove mi augurava una buona notte. Avrei giocato d’anticipo. Gli augurai la buonanotte e gli dissi che per la sera successiva si sarebbe dovuto considerare mio ospite. Nessun compagno di corso appena conosciuto su Grindr poteva competere con una conoscenza relativamente più lunga.
“Okay :)” e bastò quella faccina stilizzata a rasserenarmi il cuore e darmi una parvenza di sonno tranquillo.
La sera si presentò sull’uscio di casa poco dopo le nove. Ci sedemmo sul divano del salotto e cominciammo a vedere un film su Netflix che mi aveva detto che voleva vedere. Ogni tanto guardava il telefono, mandava un messaggio, ma dalla posizione in cui ero io non vedevo il destinatario. Ogni volta era un piccolo dramma per me. Arrivò a posare la mano sul divano così ne approfittai per cambiare posizione e afferrargliela. E mentre mi avvicinavo gli guardai il viso per scorgere qualsiasi segno di apprezzamento. Anche minimo. Ma rimase impassibile e non mi guardò. Il telefono vibrò un’altra volta, tolse la mano e rispose al messaggio. Si mise piegato sul lato sinistro, così che io non potessi vedere a chi stesse scrivendo. Quando smise di scrivere tenne entrambe le mani sul bracciolo.
Aspettai che il film finì prima di mettermi in ginocchio affianco a lui, avvicinarmi al lobo dell’orecchio, prendendoglielo tra i denti. Vidi i muscoli del viso stendersi e sorridere.
«Indovina di cosa ho voglia» sussurrai.
«Oggi non mi va» mi disse facendo dei grattini sotto il collo.
«Sicuro-sicuro?»
«Mi leggi qualcosa?» lo accontentai. Fu l’ultima richiesta della notte. Poi si fece accompagnare alla porta. Gli chiesi se ci saremmo visti anche il giorno dopo, mi disse di no, che si sarebbe visto con il tizio della sua università. Ci lasciammo con un cenno della mano.
***​
È corretto immaginare che io e G. cominciammo a vederci con minore frequenza. Si continuava ad uscire, certo, però non ci si vedeva più tutti i giorni come prima che tale Francesco entrasse nella nostra vita.
Le cose erano cambiate.
Le carezze erano scomparse.
Gli sguardi languidi erano scomparsi.
Non c’era più traccia dei nostri baci, non c’era più traccia del sesso.
Mi chiedeva sempre di leggere qualcosa di mio.
Le sere in cui usciva con tale Francesco le ore non passavano mai. Vedevo il divano, vedevo il letto di camera mia e lo immaginavo, lo vedevo seduto e sdraiato là. Bramavo la sua fisicità in quei luoghi, nei miei luoghi, nei miei spazi. Ero arrivato a desiderare il tocco delle sue mani non solo su di me, ma su i miei oggetti. E il reiterare di quella mancata presenza perché si trovava con quell’altro, il non sapere ma solo poter immaginare cosa stessero combinando mi mandava a pezzi. Mi domandavo perché. Perché non volesse passare il suo tempo con me. Perché non aveva scelto di passare quella sera con me. Cosa avessi di sbagliato. Se fosse il mio comportamento ad avergli fatto perdere interesse o se magari non fossi troppo bravo nel sesso. Ed era sicuramente una di tutte queste cose, o forse erano tutte assieme. Mi ero trovato più di una volta ad affondare la testa nel cuscino e a soffocare le grida. O a piangere ancora sporco di sperma dopo essermi masturbato pensando alle nostre scopate. Avevo iniziato a saltare i pasti e passavo gran parte delle mie giornate sdraiato sul letto, in mutande, lasciando che il sudore impregnasse slip e lenzuola.
Ricordo molto bene la sera del 16 agosto. La ricordo come se la stessi vivendo in questo preciso istante. Fu lui a chiedermi di uscire e ormai avevo chiara la situazione. Non mi aspettavo nulla di positivo. Si trattava semplicemente del funerale di questa frequentazione. Dovevo riconoscergli il coraggio di volermi affrontare faccia a faccia e non tramite messaggio o smettendo di rispondermi direttamente.
La sera del 16 agosto faceva caldo. Andammo direttamente al piazzale della stazione a bordo della sua auto. Lui parlava, io non ne avevo voglia e mi ero accorto che ogni volta che provavo a rispondergli le mie parole avevano tutte una punta di ostilità. Non riuscivo a dissimulare. Era più forte di me.
«Senti, volevo parlarti di una cosa», appena parcheggiato ci eravamo messi nei sedili posteriori per stare più larghi. Mi ero messo con le ginocchia appoggiate al sedile del passeggero anteriore. Dal parabrezza si poteva vedere il marciapiede dove, settimane prima, avevamo pomiciato.
«Ok», dissi guardando fuori dal finestrino alla mia destra.
«Penso di essermi innamorato», chiusi gli occhi forte e trattenni il respiro.
«Beh, bello».
«Il problema… il problema è che non c’è futuro»
«Perché?»
«Francesco non vuole alcuna relazione, è appena uscito da una storia di diversi anni e non vuole assolutamente fidanzarsi in questo momento. Ma a me piace così tanto. Mi piace.»
«Ah…» risposi. Sempre con la testa verso il finestrino, così che non potesse vedermi, mi misi la mano sugli occhi. E pregai. Pregai qualunque forza ultraterrena di non farmi piangere in quel momento. Di lasciarmi apparire forte davanti lui. Avrei pagato le conseguenze dopo. Mi sarei messo a piangere per tutta la notte se fosse stato necessario, ma non in quel momento. «Se ti piace davvero, allora, combat-» e mi fermai. La gola mi si era chiusa. Il respiro aveva cominciato a farsi corto. Stavo per cedere. Ma non si rese conto di nulla, perché continuò.
«E c’è un’altra cosa che vorrei dirti, Marco» e rimase in silenzio.
«Ti sto ascoltando»
«Ho ricevuto una proposta di lavoro negli scorsi giorni»
«Grandioso, di cosa si tratta?» continuai con la mia voce monotòna.
«Uno studio di avvocati», la sua voce aveva cominciato a tremare.
«Beh, presumo che paghino bene.»
«Si trova in California.» Le gambe mi si distesero in avanti, avevo perso tutta la forza.
«Non so se accettare, cosa mi consigli?». Sorrisi. Alzai lo sguardo al cielo. La luna era fottutamente grande quella sera. Ed era gialla. Si potevano vedere i crateri ad occhio nudo. E mi ci specchiavo dentro. Un aereo le passò sopra e il rumore dei suoi motori rimbombò in tutta la città. Era lento. Abbassai lo sguardo quando la mia attenzione fu attirata dal passaggio di una macchina. Anche lei era lenta. Il conducente ci fissò per qualche istante prima di tornare a fissare la strada davanti a lui. Non ebbe nessuna reazione.
«La California che è solo uno stato mentale?»
«Forse è qualcosa di più.»
«Accetta». Sarebbe stata solamente l’ennesima persona a fuggire dalla città da quando il Corona aveva colpito. Ne eravamo usciti da diversi mesi, ma le persone continuavano a sentirne la presenza. Chi prima della primavera del ’20 non avrebbe mai lasciato la propria famiglia, ora aveva capito che in fin dei conti era qualcosa che si poteva fare, le nostre vite si erano dimostrate brevi e fragili per non essere vissute a pieno.
«Dici?»
«Assolutamente», chiusi le mani a pugno in grembo. «Non ti ricapita più un’occasione di questo tipo. Non ti risuccede più di avere una proposta per andare negli Stati Uniti. C’è gente che ucciderebbe per andare in America», mandai in dietro la testa e feci un respiro profondo, «Io ucciderei per andarmene negli Stati Uniti. Prendi la palla al balzo e vattene» e mi resi conto solo quando era troppo tardi di quel vattene.
Lo sentii muoversi e sentii la sua mano sulla spalla. Mi diede un brivido tanto che scossi la schiena, facendogliela rimuovere.
«Tutto bene?»
«Assolutamente, sì»
«Mi sembri nervoso. C’è qualcosa che non va?»
«È solo che non me l’aspettavo, tutto qua», dissi aprendo la portiera. Stavo per uscire dall’abitacolo quando la sua mano mi trattenne. E vidi la sua testa finirmi sulle gambe. Cominciò a singhiozzare.
«Che ti prende?» feci guardandolo, avevo le braccia sollevate per aria.
«È che volevo solamente essere… felice.»
Sollevai lo sguardo verso il tettuccio. Gli occhi mi si erano fatti lucidi. Mi passai la mano con un gesto rapido, cercando di non farglielo scorgere.
«Andrai in California. Lì hanno un’altra mentalità rispetto a qua. Ti dimenticherai di tutte queste lacrime e conoscerai nuove persone che ti faranno stare bene» dissi accennando un sorriso. La mia voce era ormai rotta. «Ciò che oggi ti sembra impossibile, difficile da dimenticare, un domani ti sembrerà invece solamente un modesto incidente di percorso. Nulla di insuperabile. Anzi, ti domanderai perché lo hai ritenuto così… così…» tirai su col naso, «perché tu lo abbia ritenuto un blocco quando non lo era». Ripensandoci mi sono domandato a chi stessi parlando.
Si girò rivolgendomi il viso. Ci stavamo guardando negli occhi. «Stai piangendo?»
«Già» dissi, togliendomi una lacrima dall’occhio destro, «Piango sempre nel vedere gli altri farlo».
«Mi dispiace, ti ho sporcato tutti i pantaloni» disse una volta risedutosi.
«Non fa niente», feci alzando le spalle mentre con le mani spiegazzavo i pantaloni dove aveva versato le lacrime, «Non è la prima volta che mi sporchi» dissi mettendomi a ridere. Lo osservai con la coda dell’occhio. Non aveva apprezzato la battuta.
«Forse hai ragione, è solo che adesso io…» lo vidi chiudere gli occhi, il viso deformarsi in una smorfia, «Non ci riesco» e ricominciò a piangere, cadendo con la fronte sulla mia spalla sinistra.
«Dai, quando verrò in America passo a trovarti» gli dissi una volta che si fu ricomposto.
«Assolutamente. Devi. E io» la voce venne percorsa da un brivido, «e io ti faccio sapere quando torno a casa»
«E staremo in giro tutta notte…»
«Come i vecchi tempi», sorrise, «ci sta». Annuì, chiuse gli occhi, «Ci sta».
Tornai a casa e mi sdraiai sul letto, fissando il neon. Potei fare quello che, fino a quel momento, avevo represso a fatica. Non ricordo di aver mai pianto così tanto per una persona in una sola volta. Sentivo di aver finito anche le lacrime. Non mi facevo neanche delle domande a cui non avrei mai avuto risposta. Mi limitavo a singhiozzare e a rigirarmi nel letto. Quando riuscii ad addormentarmi era ormai l’alba. L’alba che segnava un nuovo modo di vedere i giorni che passavano. Non si trattava più di contare le ore che separavano me e G. da un altro incontro. Si trattava di contare i giorni che separavano G. dalla fottuta California.

***​
Inevitabilmente, con una distanza oceanica e continentale a separarci, i contatti si erano fatti meno frequenti. Non è vero che i social, le applicazioni, i telefoni moderni riducono le distanze. Certo, ti permettono di sentire con più facilità le persone ma per farlo c’è bisogno della volontà di entrambe le parti. Basta far venire meno una delle due che il tutto diventa impossibile.
Il nostro rapporto continuò come quello di due buoni amici. G. mi parlava della vita in America, mi parlava delle difficoltà che ebbe nello stringere rapporti. Mi chiedeva sempre di passargli qualcosa di mio da leggere ma ormai avevo intrapreso la via di Stephen King: nessuna lettura, nessun parere su alcun testo fino a quando la prima bozza non fosse terminata. Avevo così sempre meno cose da dargli.
Mi chiedeva consigli. In particolare sui ragazzi. Nonostante fosse più grande di me avevo assunto il ruolo di consigliere. Ma questo non mi faceva sentire maggiormente parte della sua vita. La sensazione è che le coste dell’Atlantico stessero semplicemente accelerando quel processo che si era avviato con la conoscenza di Francesco. In quelle conversazioni sentivo tutto il suo potere di cancellarmi, di chiudermi fuori dalla sua vita con la semplicità di un battito di ciglia. Mi sentivo come un elefante in una cristalleria. Un elefante cosciente, un elefante che sa qual è il valore di ogni singolo cristallo e che proprio per questo ha paura a fare qualsiasi cosa, persino respirare. Ero guidato dalla paura di perderlo, dalla paura che potessi farlo arrabbiare, che potessi deluderlo.
Capitava che dopo che ci sentissimo un lenzuolo di malinconia si posasse su di me, tanto invisibile all’occhio altrui quanto soffocante. In quei momenti non riuscivo a riconoscere neanche camera mia. Diveniva uno spazio asettico, buio, freddo. Doveva essere il luogo in cui mi sarei dovuto rifugiare e invece era il posto in cui ogni volta avveniva il massacro. Se ci parlavo il giorno dopo, non gli dicevo che ero triste, non gli dicevo che avevo avuto giornate migliori. Gli dicevo che stavo bene. Perché magari avrebbe potuto interessarsi, magari avrebbe potuto chiedermi cosa fosse successo di così terribile e la mia risposta sarebbe stata inevitabilmente una bugia. Non volevo dire al mio carnefice che mi stava lentamente uccidendo. Non era quel tipo di carnefice che si meritava verità di questo tipo. Semplicemente non lo sapeva. E dall’altra parte, un mio allontanamento volontario avrebbe potuto potenzialmente farlo soffrire. E non volevo neanche questo. E quindi stavo in silenzio. Alla domanda come andasse, alla domanda come mi sentissi, alla domanda come fosse andata la giornata, la risposta era sempre quella: tutto bene.
Quando si diventa amici, si firma un patto non scritto. Una persona può criticare l’altra per delle scelte che si confidano, ma non può decidere di cosa l’altro possa parlare e cosa no. Se lo si facesse il rapporto non sarebbe un rapporto puro d’amicizia, sarebbe un rapporto che ha delle connotazioni diverse. Se non ti senti di poter parlare con qualcuno di un tema è perché forse non hai sufficiente confidenza con quella persona. Oppure è la situazione opposta, hai troppa confidenza con quella persona e dunque è molto più che un amico, è qualcuno nei cui confronti provi dei sentimenti che vadano oltre il semplice “ti voglio bene” e quindi ne temi il giudizio. Non potevo scegliere di quali argomenti G. dovesse parlarmi e quindi lo facevo andare a ruota libera. Ruota che riguardava anche il lato sessuale. Scopava in California come non aveva mai fatto in Italia. Ogni due giorni una scopata con un ragazzo diverso. E sapevo tutto, ne sapevo i dettagli, sapevo quanto era soddisfatto o quanto lo incuriosiva voler continuare a farlo con un certo tizio. Mi raggelava. Ogni volta mi lasciava inerme sul letto, paralizzato dal dolore. Talvolta capitava che piangessi. Un amico non dovrebbe esser dispiaciuto delle cose positive che capitano all’altra persona, eppure io non riuscivo a non desiderare che il ragazzo-del-giorno fosse l’ultimo e che sarebbe arrivato il momento in cui mi venisse a dire che in fin dei conti mi desiderava ancora. Ma questo non accadde. Non accadde mai.
Su Facebook mi era apparso un post della pagina della band in cui cercavano un nuovo front man. Non leggevo mai quello che scrivevano, né ascoltavo mai le canzoni che condividevano da YouTube. Ma lasciavo sempre il like, come per segnalare loro che anche io avevo subito una perdita. Quando mi incrociavano per strada mi fermavano. Le nostre effusioni avevano lasciato il segno. E qualcuno di loro, una volta, mi raccontò anche che proprio il giorno prima si era sentito con lui. Ero geloso.
Nell’autunno del ’22 si prese un periodo di ferie che decise di passare in Italia, con i suoi. Fu lui a dirmelo, aggiungendo “voglio assolutamente vederti, ti devo parlare”. Bastò quella frase per far riportare le lancette all’estate dell’anno prima, quando contavo le settimane, i giorni, le ore e i minuti prima di vederlo. Quando la mia agenda giornaliera era impostata sul minuto in cui lo avrei incontrato. E così tornai a contare il tempo che ci separava, emozionato come la prima volta per sentire quello che doveva dirmi.
Scesi per strada non appena mi aveva detto che era partito da casa. Lo vidi a bordo della macchina alzare la mano per salutarmi. Quando il mio piede si mosse verso la strada mi domandai se volessi farlo davvero. Mi domandai se volessi davvero che quella persona tornasse a far parte della mia vita in quel modo così totalizzante nonostante i tentativi di controllarlo. Avevo cominciato a fingere impegni quando mi scriveva, “Ti scrivo dopo, appena ho finito” era diventato il leitmotiv. Altre volte, quando si trattava di argomenti sessuali, preferivo non rispondere, per interrompere il prima possibile l’agonia che inevitabilmente vivevo.
È evidente che la domanda non me l’ero posta davvero considerando come il mio corpo si stava muovendo senza alcuna capacità di freno verso l’automobile. E ora ero vicino alla portiera del conducente. Ora stavo camminando a fianco al cofano, ora ero davanti la portiera del passeggero. Allungai la mano sulla maniglia, le dita toccarono la plastica nera e per un secondo, per un secondo tutto fu illuminato dalla luce dell’estate del 2021. Aprii la portiera, mi abbassai, entrai nell’abitacolo. Il sole di luglio apparve ancora. Giusto in tempo per vedere il suo volto sudato, i capelli ricci lunghi. Per poi lasciare spazio all’immagine di quella sera. Era cambiato. I capelli ricci se n’erano andati, li aveva tagliati corti. Il volto non era più liscio ma si era fatto il pizzetto. E mi domandai quante altre cose erano cambiate dall’ultima volta che lo avevo visto negli ultimi giorni di agosto. Ecco, la risposta alla domanda che non mi ero posto. Era tutto un fottutissimo errore, non sarei mai dovuto scendere da casa quella sera, non avrei mai dovuto accettare l’invito ad uscire. Perché quei dettagli di cui non sapevo niente, quei cambiamenti di cui non mi aveva dato notizia, tutte queste cose, piccole e insignificanti come un taglio di capelli mi portarono a capire come io non ero più parte della sua vita, la vita quotidiana, quella fatta di gioie e incazzature momentanee, quelle che racconti solo a chi ti sta vicino, quelle che ti scordi quando parli con qualcuno che non senti e non vedi per settimane, perché le cose quotidiane non sono eccezionali. Mi mancava tutta quella banalità. Mi mancava far parte della sua vita banale.
Ci scambiammo i baci sulle guance. E prese a guidare.
«Nel sacchetto», disse indicandomene uno di carta ai miei piedi, «c’è un pensierino per te.»
Lo afferrai e tirai fuori un cappello da baseball con l’orso raffigurato nella bandiera della Repubblica di California. Lo girai tra le mani, facendolo illuminare dalla luce dei lampioni. Lo considerai stupendo, lo ringraziai.
«Tutto bene?» mi chiese.
«Assolutamente, sì» dissi, non riuscendo a cancellare il sorriso dalla mia faccia, «Te?»
«Sono stravolto per il viaggio» fece passandosi una mano sugli occhi, «Però non c’è male, grazie».
«Quante ore sono da qui a là?»
«Troppe» e scoppiammo a ridere.
Lo stavo guardando. Con quel sorriso ebete che non riuscivo a togliermi. Forse se accorse. Forse no. Ma accadde in quel momento. «Devo dirti una cosa.»
«Non dirmi che sei incinta», mi resi conto solo dopo aver parlato che quelle sue parole pesavano come macigni.
«Effettivamente è da un po’ che non ho il ciclo…» le labbra si allargarono nel sorriso più ampio che io abbia mai visto. Tutto sorrideva in quella faccia, persino i pori. «Vado a convivere.»
Mi mancò l’aria. Davvero. Aprii la bocca per recuperarne un po’. Sentii la gola chiudersi.
«Accosta» dissi mentre mi mettevo rigido sul sedile, con gli occhi sgranati. Era come se la saliva non scendesse più.
«Cosa?»
«ACCOSTA, SUBITO» e con una manovra accelerò e si avvicinò al marciapiede. Slacciai la cintura, aprii la portiera ed ero già piegato in avanti a salutare la cena.
«Cazzo, Marco, non stai bene?» e io continuavo ad esser scosso da sussulti interni, mentre ormai versavo per strada anche i succhi gastrici.
Bestemmiai riappoggiando il capo al poggiatesta, alla ricerca d’aria.
«Vuoi tornare a casa?»
«Nella mia tasca c’è il portafogli, prendilo. Vai a prendermi una bottiglia d’acqua al ristorante lì dietro, per favore.» Uscii senza darmi retta. Mentre mi sciacquavo la bocca continuava a chiedermi se volessi tornare a casa. Non so quante volte me l’abbia chiesto e non so quante volte abbia ricevuto il no di risposta.
Andammo al piazzale della stazione, ancora una volta.
«Chi è il fortunello?», eravamo seduti nello stesso spiazzo della serata del concerto.
«Si chiama Rick. Ci esco da sei mesi.»
«Allora la California è davvero qualcosa di più di uno stato mentale?»
«È la mia vita» disse e io dondolai la testa a destra e sinistra.
Ripensai a tutte le conversazioni degli ultimi mesi. Sentivo dentro di me montare la rabbia, l’invidia, la gelosia. Ripensai a tutte le fotografie dei ragazzi con quei fisici da attorni porno, di cui sapevo le prestazioni tra le lenzuola. E ogni singolo pensiero, ogni singolo ricordo veniva ora marchiato con la parola “convivere”. E la rabbia, l’invidia, la gelosia aumentavano. Strinsi le labbra tra loro, facendole diventare pallide. Non lo avrei detto. Non avrei colpito. Presi un altro sorso d’acqua. Non avrei colpito, vero? Lo feci passare da una parte all’altra della bocca, poi sputai.
«E lui è okay con il fatto che mentre vi frequentavate scopavi con altri?». Invece lo colpii.
«Sì, eravamo d’accordo», aggrottò la fronte.
«Moderni» dissi alzando le spalle. Presi ancora un po’ d’acqua. La mia espressione in volto non lasciava più alcun dubbio.
«Non credo di averti mai capito fino in fondo» sputai l’acqua colpito da quelle parole. Lo fissai.
«Perché?»
«Negli ultimi tempi ho cominciato ad adottare una strategia. Non so se mi pagherà nel futuro, però ci provo. Ed è quella di parlare chiaramente» ascoltavo ogni parola attendendo la successiva come si desidera l’acqua in un deserto. Cosa voleva sapere, dannazione? «Marco, credo che tu stia provando qualcosa per me». Le mie dita lasciarono la presa sulla bottiglia. Il rumore della plastica che toccò il suolo riempì il piazzale. Cominciò poi a rotolare allontanandosi da noi seguita dai nostri sguardi.
«Cosa te lo fa dire?»
«Non sei mai stato felice quando ho frequentato Francesco e non mi sembri felice ora, davanti alla notizia di Rick. Sembri quasi geloso»
Rimasi in silenzio. Non era quello che mi sarei spettato dalla serata. «Mi…» mi fermai. Mi guardai le mani. Non le riconoscevo. Non erano le mie mani. Mi sembrava di esser dentro ad un altro corpo. «Mi hai chiesto di uscire per parlarmi di Rick oppure per chiedere di me?»
«Di Rick»
«Oh, certo», scattai in piedi. «Non esiste, non è mai esistita una singola volta in cui tu non ti sia preoccupato per te stesso. Non esiste una singola volta in cui tu abbia mai pensato se quello che facevi poteva ferirmi»
«Perché non me lo hai mai detto?»
«Perché avresti fatto come tutti, te ne saresti andato. E sono fatti miei. Se mi piace qualcuno non sono affari di quel qualcuno, sono affaracci miei»
«Io non sono qualcuno»
«Ti sei comportato come se lo fossi, come se fossi qualcuno con cui non avessi mai condiviso niente di me. Ti ho dato ogni parte di me, ogni briciolo della mia anima, ogni centimetro del mio corpo. È quello che ho ricevuto indietro è vederti piangere per un tizio, vederti andare via senza voltarti indietro, i resoconti delle tue scopate e ora la notizia della convivenza. Quindi sì, scusami se non sono contento. Esser contento è l’ultima»
«Calmati» disse provando ad allungare la mano verso di me, ma gliela respinsi con un colpo ben centrato.
«delle cose che riesce ad essere», cominciai a piangere, «E non mi scuserò se non sono felice» il muco cominciò a scendere ed impiastricciarmi il viso, me lo levai con un gesto di mano, «ho tutto il diritto di piangere e disperarmi anche davanti a te». Ma mi stavo vergognando e abbassai il volto.
«Devi dirmi altro?»
«Perché?!» feci tornando a guardarlo. Non me l’hanno mai posta questa domanda. E non so neanche se lui l’ebbe mai ricevuta. «Perché non ti sono piaciuto? Perché è stato così semplice innamorarti di Francesco e non di me?» ma è una domanda stupida.
«Probabilmente perché…» alzò i palmi delle mani per poi abbassarli, «non lo so, perché non ti avrò mai visto in quella luce.»
«E in che luce mi hai visto?»
«Non lo so… un buon amico… qualcuno con cui era piacevole parlare e non è colpa di nessuno, né tua né mia se le cose non sono andate in un certo modo. Mi dispiace» si fermò un attimo, «se le cose non sono andate come ti aspettassi e non sono stato in grado di ricambiare i tuoi sentimenti.»
Si scusano sempre di non esser in grado di ricambiare i propri sentimenti. Se non lo fanno li consideriamo stronzi ma almeno dovremmo apprezzarne la sincerità. Ogni tanto penso che dovremmo metterci nei panni delle altre persone. Anche per una sola volta e provare ad immaginare quella situazione. Quella situazione in cui ti dispiace vedere una persona che quasi si contorce del dolore a causa tua ma non poter far niente per lenirglielo. Se non mentire, affermare di avere sentimenti che non si hanno mai avuto e che potenzialmente non ci saranno mai. Farsi e farle del male. Chi decide di esser sincero però ha scelto una strada: quella della sopravvivenza. E gli animali, in situazioni di pericolo, seguono l’istinto con l’obiettivo di sopravvivere.
Ogni giorno cerchiamo di sopravvivere. Alla morte. Ad un dispiacere. Alle malattie. Sopravviviamo. È il nostro primo istinto, ci nasciamo.
E sarei sopravvissuto. Sarei sopravvissuto al parassita che era entrato dentro di me quando lo avevo conosciuto e che aveva preso a mano a mano il controllo della mia vita, del mio corpo. Dovevo sopravvivere. Quella sera fu l’ultima sera, me lo promisi in quel momento. Ad alta voce. Con la vista offuscata dalle lacrime, con il suo viso disturbato e frammentato, ma sufficientemente chiaro per vedere la tristezza formarsi in lui. La tecnologia, così potente nell’unirci tramite le distanze sa esser davvero spregevole se utilizzata opportunamente. Dopo quella sera lo bloccai su tutte le piattaforme da cui potevo contattarlo. Avrei sopportato l’idea di farlo soffrire, avrei sopportato l’idea di vederlo aprire la nostra chat e far sì che non vedesse più la mia immagine profilo su WhatsApp o Telegram. Avrei sopportato l’idea che se mi avesse cercato su Instagram un messaggio gli comunicava che lo avevo bloccato.
Regalai il cappello della California a mio nipote. Vederlo correre in giro mentre lo indossava mi scaldava il cuore e al contempo mi ricordava che qualcuno, mesi e mesi prima, aveva scavato così tanto dentro la mia anima da conoscermi come nessun altro aveva provato a fare prima. L’estate successiva lo avrebbe perso al mare e di lui non mi rimase nulla, solo un nome – che pronunciavo a fatica – e ricordi sempre meno chiari e definiti.
Quanto al nostro ultimo scambio, avvenne in macchina, sotto casa mia.
«Finisce così, quindi? Non ci parliamo più?»
«Credo che sia la scelta migliore» dissi senza riuscire a guardarlo. Stavo ricominciando a piangere.
«Allora sei come tutti gli altri di cui parlavi male. Quelli che se ne vanno una volta che si diventa sinceri sui sentimenti», un ultimo tentativo di tenermi con sé, di farmi scontrare con la mia testardaggine.
Ma dovevo sopravvivere.
Gli sorrisi. Una lacrima mi attraversò lo zigomo sinistro. «Già, Giuseppe.»
 
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