La Fic Challenge 2020 si è conclusa! In questo topic sono presenti le valutazioni dei giudici e la classifica finale, mentre qua vengono raccolte tutte le fic (suddivise su 3 messaggi per via del limite di caratteri del forum): potete votare quelle che vi sono piaciute di più e discuterne.
- "Otto prende un cucciolo" di @Carmageddon
- "Il Segno della Pioggia" di @Veemon Tamer
- "Otto prende un cucciolo" di @Carmageddon
La domenica, per Otto, era sempre una giornata un po’ strana. Ne apprezzava certamente i lati positivi, niente sveglia, niente lavoro e soprattutto niente portinaia isterica e annesso gatto demoniaco (Antenore: 12 chili di siamese, di cui 8 di gatto e 4 di bracciali borchiati da un chilo l’uno), ma non aveva passatempi con cui riempire le ore libere. In soffitta erano accumulate le testimonianze di questi tentativi, tutti falliti: una cyclette, un’auto radiocomandata, un drone, un kit da pesca e anche una cuccia con tiragraffi per un gattino che aveva cercato di adottare, ma che non solo non si faceva accarezzare, ma aveva subito imparato ad aprirgli il frigorifero di notte, facendogli fuori tutto il suo contenuto, birre comprese.
Periodicamente, quindi, gli tornava il pallino di adottare un cane. Forse con un cucciolo la vita gli sarebbe diventata più lieta, avrebbe fatto più movimento fisico e soprattutto avrebbe conosciuto persone nuove: era stanco di avere a che fare solamente coi colleghi nei giorni lavorativi e di fissare il soffitto la domenica.
Il lunedì seguente si svegliò di buonumore e si mise il suo gilet preferito, quello verde coi bottoni dorati, sperando di non farsi beccare da Antenore (ogni volta era una battaglia con quel benedetto gilet: Antenore era sempre smanioso di staccargli i bottoni a morsi e di fare a quella lana un crash-test con le unghie) ma purtroppo per lui il terrore del condominio era già lì, acquattato in portineria, pronto all’attacco: prese la rincorsa, saltò, ma Otto si scansò in tempo e scappò fuori col cuore in gola, e Antenore si ritrovò a zampe vuote e col muso spalmato sul pavimento.
“Vedrai, vedrai! Presto tutto questo non succederà mai più! Ti sistemerò una volta per sempre, stronzo!”, esclamò Otto non appena riprese fiato. Ma lo disse a voce molto bassa, poiché una sua grossa cicatrice a forma di morso di gatto sulla caviglia sinistra gli ricordava che Antenore, oltre ad avere un udito finissimo, gli aveva dimostrato di comprendere benissimo l’italiano.
"Ho deciso, oggi prendo un cucciolo! Vado da mio zio Nanni, che ne ha sempre tanti!” disse Otto ad Alex e Gino, durante la consueta pausa caffè.
“Cosa? Un cane? Tu? Ahahah! Naaah, lascia perdere, non fa per te!” rispose Alex. “Un cane va portato a spasso, più volte al giorno, ci vuole una persona atletica, mentre tu già se metti un timbro ti viene il fiatone!”
Scoppiarono tutti a ridere, sfortunatamente anche Giuliana, la procace segretaria a cui tutti ancora facevano il filo, che stava passando proprio in quel momento. Ciò fece bruciare di rabbia Otto: pazienza le prese in giro dai colleghi, ma non poteva permettersi di fare figuracce anche davanti a Giuliana!
Terminato l’orario di lavoro, Otto non passò per casa, e andò direttamente dal suo vecchio zio Nanni a Bergamo.
Nanni aveva 87 anni, degli occhiali spessi quanto il portone del caveau della Banca d’Italia, e una graziosa fattoria piena di animali. Otto sapeva di andare a colpo sicuro con lui, perché periodicamente regalava gattini e cagnolini. Si era fatto buio, ma Nanni era nel cortile, pronto ad aspettarlo.
“Ecco qua! – disse ad Otto porgendogli un carinissimo cucciolo dal musetto bianco e nero. –“Questo frugoletto è vivace, è sano, gioca con chiunque e già tiene il collarino senza problemi! E’ un pezzo che mangia da solo, quindi prendilo, è tuo! Come lo vuoi chiamare? Hai già deciso?”
“Uhm… Sì. E’ veloce, è scattante.. Speedy! Lo chiamerò Speedy! "
Otto tornò a casa pieno di gioia, con un grosso sacco di croccantini nel bagagliaio, e con un cucciolo che saltellava per tutta la macchina, attratto soprattutto dal pedale della frizione.
In giardino era tutto pronto per lui: cuccia, ciotole, qualche gioco, e recinto a prova di fuga: Speedy si sarebbe trovato come un papa! E già immaginava gli occhi di Giuliana brillare di fronte a quel cucciolo: ora sì che aveva una reale possibilità di invitarla fuori del lavoro! Pregustava la gioia di far schiattare di invidia i suoi colleghi, riscattandosi così dalla pessima figura che qualche anno fa Otto aveva fatto con lei, a causa di quel dannato Spinarak brillante. Ce l'aveva ancora: almeno si era consolato col fatto che era riuscito a catturarlo. Lo aveva chiamato Gaetano, e tutti i pomeriggi lo vedeva trotterellare in giardino, oppure nel terrario in caso di brutto tempo, assieme a Luciana, Giuseppe ed Elisabetta, diventati oramai dei possenti Ariados.
Prima di addormentarsi, stanco ma contento, lo sentiva borbottare mentre esplorava la sua nuova casa. Otto si mise ad ascoltarlo. “Strano, non l’ho ancora sentito abbaiare. Sarà perché è piccolo…in un posto nuovo… Vabbè, si vedrà! Tempo al tempo!” e sprofondò nel sonno.
La mattina seguente raccontò tutto ai colleghi, eccitatissimo, e questa volta ricevette delle congratulazioni, specie da parte di Giuliana. Tutti i colleghi volevano vedere il cucciolo. Otto, preso dall’adrenalina che gli scorreva a fiumi, arrivò addirittura a farsi promettere da Giuliana che quella prossima domenica sarebbe passata a casa sua per vederlo, e uscire a passeggiare insieme. Lei, lui, e Speedy. E i colleghi a casa, a rosicare!
“Caro Alex" - disse Otto dandosi una manata sulla sua pancetta - "i tuoi addominali non sono serviti a niente con Giuliana, i miei sì!”
Stavolta le risate piovvero a carico del mortificato Alex, e Otto uscì trionfante dall’ufficio.
Tornato a casa, andò subito in giardino. I croccantini della ciotola erano spariti, ma le due ossa di pollo che aveva aggiunto accanto alla ciotola erano ancora lì.
Speedy non era nei paraggi. “Starà facendo un pisolino, poverino, è stanco da tutto il viaggio di ieri, non vado a disturbarlo in cuccia. Ciao, tesoruccio!”
Si accorse di un cumulo di terra, tutta rivoltata, dietro la cuccia. “Giusto, alcuni cani scavano, me lo avevano detto. Ma vedo che il recinto è a posto! Bene!”
I pomeriggi successivi Otto si divertì molto. Speedy lo rincorreva e poi scappava, mangiava di gusto ogni cibo, anche frutta, e amava particolarmente quella secca. Otto non riusciva mai a farsi dare la zampa o a farsi riportare un bastoncino, e se lanciava una pallina, Speedy la guardava con la stessa espressione di una mucca quando passa il treno. Ma tutto ciò non gli importava, Otto era felice lo stesso, e ad ogni sera che arrivava lo faceva sentire sempre più vicino al giorno del trionfo.
Quella domenica la casa era uno specchio, e il giardino sembrava pronto per uno show televisivo: piante impeccabili, non una foglia fuori posto, i ragni ben chiusi nel terrario. Non aspettava altro che il fatidico squillo del campanello, non si era neppure accorto di aver saltato la colazione.
Driiiin.
Otto balzò dalla poltrona col cuore martellante. Si prese un lopez mostruoso sulla coscia destra beccando l'angolo del tavolino, ma non sentì niente, e volò ad aprire la porta.
Alex.
Gino.
Giuliana.
Il direttore aziendale.
Otto balbettò qualcosa di incomprensibile. Era completamente sotto shock. Poteva aspettarsi un'improvvisata dai suoi colleghi, ma non dal direttore in persona.
Tremando come se lo avessero legato ad un martello pneumatico, li fece comunque entrare e passare per il giardino.
Speedy era lì, che dormiva beato nella cuccia, col musetto illuminato dal sole. Ma si svegliò subito al suono delle loro voci, e corse loro incontro, tutto festante per la sorpresa.
I quattro cominciarono a ridere. Forte. Sempre più forte. Giuliana non ce la faceva più a respirare, il direttore aveva le lacrime e Alex e Gino si erano accasciati a terra reggendosi la pancia dal gran ridere. Speedy zampettava attorno ora all’uno, ora all’altro, annusandoli con curiosità e per nulla intimorito.
Otto non capiva il perché di quella loro reazione: non era mica brutto, Speedy! E avrebbe fatto ingoiare la sua vanga di traverso a chiunque avesse osato dirlo!
La prima a riprendere fiato fu Giuliana, che solamente dopo quattro tentativi riuscì a parlare ad Otto:
“Ma perché hai preso un tasso?”
Otto era senza parole. Aveva però capito che ancora una volta il destino gli stava giocando un brutto tiro. Niente passeggiata a tu per tu con Giuliana. Come si faceva, con tutto quel baccano e quei guastafeste? Ma il direttore gli mise una mano sulla spalla. Non era il classico tiranno come tanti direttori, e capiva il suo momentaneo disagio. “Su su, lo hai scambiato per un cane, ma è simpatico lo stesso questo tuo nuovo amico! Perché non andiamo tutti al parco?”
Di fronte ad una richiesta del genere, posta nientemeno che dal direttore aziendale in persona, non poteva tirarsi indietro. Prese Speedy, che era ben felice di questa improvvisa uscita, e montarono in macchina. Otto sperava che gli sedesse accanto Giuliana, e invece ci si mise il direttore, mentre Alex e Gino si precipitarono dietro, dato che Giuliana aveva già preso posto dietro, tenendosi Speedy in grembo.
Durante il tragitto, il direttore conversava con Otto, ma Otto non lo ascoltava, poiché era tutto teso e concentrato a sentire cosa combinavano con Giuliana quei due, che ovviamente si stavano divertendo un mondo, schiamazzando e chiamando Speedy, che era ben felice di saltare addosso a tutti. Ma ad un certo punto piombò il silenzio, seguito da un “iiiiiih!” di sorpresa.
Speedy si era infilato nella maglietta di Giuliana.
Otto stava seguendo tutta la scena dallo specchietto retrovisore, cercando a tutti i costi di non perdersi un istante, schivando per miracolo un frontale con un TIR.
Si sentivano il borbottio di Speedy e le squillanti risate di Giuliana, per il solletico
che le stava facendo dentro il reggiseno.
Alex istintivamente mise la mano nella maglietta di Giuliana per recuperare Speedy, ma si prese un morso.
Giuliana non fece a tempo ad indignarsi per quel gesto audace, perché il morso e l’urlo di Alex bastarono ampiamente a compensare l’accaduto.
Risero tutti, anche Otto, anche il direttore.
“Hai visto, Otto? Con questo cucciolo hai finalmente passato una bella domenica!”
Cenarono tutti insieme in pizzeria. Speedy fece la parte del leone, più che del tasso: ebbe sempre l’attenzione di tutti, le coccole, e soprattutto dei pezzi di pizza di vari gusti.
Otto si mise a letto. Era molto stanco, ma stavolta era ancora più contento.
Poco prima di addormentarsi, sentì un piccolo tonfo e che qualcosa sul letto gli si stava poggiando su un fianco.
Era Speedy.
Periodicamente, quindi, gli tornava il pallino di adottare un cane. Forse con un cucciolo la vita gli sarebbe diventata più lieta, avrebbe fatto più movimento fisico e soprattutto avrebbe conosciuto persone nuove: era stanco di avere a che fare solamente coi colleghi nei giorni lavorativi e di fissare il soffitto la domenica.
Il lunedì seguente si svegliò di buonumore e si mise il suo gilet preferito, quello verde coi bottoni dorati, sperando di non farsi beccare da Antenore (ogni volta era una battaglia con quel benedetto gilet: Antenore era sempre smanioso di staccargli i bottoni a morsi e di fare a quella lana un crash-test con le unghie) ma purtroppo per lui il terrore del condominio era già lì, acquattato in portineria, pronto all’attacco: prese la rincorsa, saltò, ma Otto si scansò in tempo e scappò fuori col cuore in gola, e Antenore si ritrovò a zampe vuote e col muso spalmato sul pavimento.
“Vedrai, vedrai! Presto tutto questo non succederà mai più! Ti sistemerò una volta per sempre, stronzo!”, esclamò Otto non appena riprese fiato. Ma lo disse a voce molto bassa, poiché una sua grossa cicatrice a forma di morso di gatto sulla caviglia sinistra gli ricordava che Antenore, oltre ad avere un udito finissimo, gli aveva dimostrato di comprendere benissimo l’italiano.
"Ho deciso, oggi prendo un cucciolo! Vado da mio zio Nanni, che ne ha sempre tanti!” disse Otto ad Alex e Gino, durante la consueta pausa caffè.
“Cosa? Un cane? Tu? Ahahah! Naaah, lascia perdere, non fa per te!” rispose Alex. “Un cane va portato a spasso, più volte al giorno, ci vuole una persona atletica, mentre tu già se metti un timbro ti viene il fiatone!”
Scoppiarono tutti a ridere, sfortunatamente anche Giuliana, la procace segretaria a cui tutti ancora facevano il filo, che stava passando proprio in quel momento. Ciò fece bruciare di rabbia Otto: pazienza le prese in giro dai colleghi, ma non poteva permettersi di fare figuracce anche davanti a Giuliana!
Terminato l’orario di lavoro, Otto non passò per casa, e andò direttamente dal suo vecchio zio Nanni a Bergamo.
Nanni aveva 87 anni, degli occhiali spessi quanto il portone del caveau della Banca d’Italia, e una graziosa fattoria piena di animali. Otto sapeva di andare a colpo sicuro con lui, perché periodicamente regalava gattini e cagnolini. Si era fatto buio, ma Nanni era nel cortile, pronto ad aspettarlo.
“Ecco qua! – disse ad Otto porgendogli un carinissimo cucciolo dal musetto bianco e nero. –“Questo frugoletto è vivace, è sano, gioca con chiunque e già tiene il collarino senza problemi! E’ un pezzo che mangia da solo, quindi prendilo, è tuo! Come lo vuoi chiamare? Hai già deciso?”
“Uhm… Sì. E’ veloce, è scattante.. Speedy! Lo chiamerò Speedy! "
Otto tornò a casa pieno di gioia, con un grosso sacco di croccantini nel bagagliaio, e con un cucciolo che saltellava per tutta la macchina, attratto soprattutto dal pedale della frizione.
In giardino era tutto pronto per lui: cuccia, ciotole, qualche gioco, e recinto a prova di fuga: Speedy si sarebbe trovato come un papa! E già immaginava gli occhi di Giuliana brillare di fronte a quel cucciolo: ora sì che aveva una reale possibilità di invitarla fuori del lavoro! Pregustava la gioia di far schiattare di invidia i suoi colleghi, riscattandosi così dalla pessima figura che qualche anno fa Otto aveva fatto con lei, a causa di quel dannato Spinarak brillante. Ce l'aveva ancora: almeno si era consolato col fatto che era riuscito a catturarlo. Lo aveva chiamato Gaetano, e tutti i pomeriggi lo vedeva trotterellare in giardino, oppure nel terrario in caso di brutto tempo, assieme a Luciana, Giuseppe ed Elisabetta, diventati oramai dei possenti Ariados.
Prima di addormentarsi, stanco ma contento, lo sentiva borbottare mentre esplorava la sua nuova casa. Otto si mise ad ascoltarlo. “Strano, non l’ho ancora sentito abbaiare. Sarà perché è piccolo…in un posto nuovo… Vabbè, si vedrà! Tempo al tempo!” e sprofondò nel sonno.
La mattina seguente raccontò tutto ai colleghi, eccitatissimo, e questa volta ricevette delle congratulazioni, specie da parte di Giuliana. Tutti i colleghi volevano vedere il cucciolo. Otto, preso dall’adrenalina che gli scorreva a fiumi, arrivò addirittura a farsi promettere da Giuliana che quella prossima domenica sarebbe passata a casa sua per vederlo, e uscire a passeggiare insieme. Lei, lui, e Speedy. E i colleghi a casa, a rosicare!
“Caro Alex" - disse Otto dandosi una manata sulla sua pancetta - "i tuoi addominali non sono serviti a niente con Giuliana, i miei sì!”
Stavolta le risate piovvero a carico del mortificato Alex, e Otto uscì trionfante dall’ufficio.
Tornato a casa, andò subito in giardino. I croccantini della ciotola erano spariti, ma le due ossa di pollo che aveva aggiunto accanto alla ciotola erano ancora lì.
Speedy non era nei paraggi. “Starà facendo un pisolino, poverino, è stanco da tutto il viaggio di ieri, non vado a disturbarlo in cuccia. Ciao, tesoruccio!”
Si accorse di un cumulo di terra, tutta rivoltata, dietro la cuccia. “Giusto, alcuni cani scavano, me lo avevano detto. Ma vedo che il recinto è a posto! Bene!”
I pomeriggi successivi Otto si divertì molto. Speedy lo rincorreva e poi scappava, mangiava di gusto ogni cibo, anche frutta, e amava particolarmente quella secca. Otto non riusciva mai a farsi dare la zampa o a farsi riportare un bastoncino, e se lanciava una pallina, Speedy la guardava con la stessa espressione di una mucca quando passa il treno. Ma tutto ciò non gli importava, Otto era felice lo stesso, e ad ogni sera che arrivava lo faceva sentire sempre più vicino al giorno del trionfo.
Quella domenica la casa era uno specchio, e il giardino sembrava pronto per uno show televisivo: piante impeccabili, non una foglia fuori posto, i ragni ben chiusi nel terrario. Non aspettava altro che il fatidico squillo del campanello, non si era neppure accorto di aver saltato la colazione.
Driiiin.
Otto balzò dalla poltrona col cuore martellante. Si prese un lopez mostruoso sulla coscia destra beccando l'angolo del tavolino, ma non sentì niente, e volò ad aprire la porta.
Alex.
Gino.
Giuliana.
Il direttore aziendale.
Otto balbettò qualcosa di incomprensibile. Era completamente sotto shock. Poteva aspettarsi un'improvvisata dai suoi colleghi, ma non dal direttore in persona.
Tremando come se lo avessero legato ad un martello pneumatico, li fece comunque entrare e passare per il giardino.
Speedy era lì, che dormiva beato nella cuccia, col musetto illuminato dal sole. Ma si svegliò subito al suono delle loro voci, e corse loro incontro, tutto festante per la sorpresa.
I quattro cominciarono a ridere. Forte. Sempre più forte. Giuliana non ce la faceva più a respirare, il direttore aveva le lacrime e Alex e Gino si erano accasciati a terra reggendosi la pancia dal gran ridere. Speedy zampettava attorno ora all’uno, ora all’altro, annusandoli con curiosità e per nulla intimorito.
Otto non capiva il perché di quella loro reazione: non era mica brutto, Speedy! E avrebbe fatto ingoiare la sua vanga di traverso a chiunque avesse osato dirlo!
La prima a riprendere fiato fu Giuliana, che solamente dopo quattro tentativi riuscì a parlare ad Otto:
“Ma perché hai preso un tasso?”
Otto era senza parole. Aveva però capito che ancora una volta il destino gli stava giocando un brutto tiro. Niente passeggiata a tu per tu con Giuliana. Come si faceva, con tutto quel baccano e quei guastafeste? Ma il direttore gli mise una mano sulla spalla. Non era il classico tiranno come tanti direttori, e capiva il suo momentaneo disagio. “Su su, lo hai scambiato per un cane, ma è simpatico lo stesso questo tuo nuovo amico! Perché non andiamo tutti al parco?”
Di fronte ad una richiesta del genere, posta nientemeno che dal direttore aziendale in persona, non poteva tirarsi indietro. Prese Speedy, che era ben felice di questa improvvisa uscita, e montarono in macchina. Otto sperava che gli sedesse accanto Giuliana, e invece ci si mise il direttore, mentre Alex e Gino si precipitarono dietro, dato che Giuliana aveva già preso posto dietro, tenendosi Speedy in grembo.
Durante il tragitto, il direttore conversava con Otto, ma Otto non lo ascoltava, poiché era tutto teso e concentrato a sentire cosa combinavano con Giuliana quei due, che ovviamente si stavano divertendo un mondo, schiamazzando e chiamando Speedy, che era ben felice di saltare addosso a tutti. Ma ad un certo punto piombò il silenzio, seguito da un “iiiiiih!” di sorpresa.
Speedy si era infilato nella maglietta di Giuliana.
Otto stava seguendo tutta la scena dallo specchietto retrovisore, cercando a tutti i costi di non perdersi un istante, schivando per miracolo un frontale con un TIR.
Si sentivano il borbottio di Speedy e le squillanti risate di Giuliana, per il solletico
che le stava facendo dentro il reggiseno.
Alex istintivamente mise la mano nella maglietta di Giuliana per recuperare Speedy, ma si prese un morso.
Giuliana non fece a tempo ad indignarsi per quel gesto audace, perché il morso e l’urlo di Alex bastarono ampiamente a compensare l’accaduto.
Risero tutti, anche Otto, anche il direttore.
“Hai visto, Otto? Con questo cucciolo hai finalmente passato una bella domenica!”
***
Cenarono tutti insieme in pizzeria. Speedy fece la parte del leone, più che del tasso: ebbe sempre l’attenzione di tutti, le coccole, e soprattutto dei pezzi di pizza di vari gusti.
Otto si mise a letto. Era molto stanco, ma stavolta era ancora più contento.
Poco prima di addormentarsi, sentì un piccolo tonfo e che qualcosa sul letto gli si stava poggiando su un fianco.
Era Speedy.
- "Il Segno della Pioggia" di @Veemon Tamer
L'asse dell'orizzonte scinde i due specchi di una simmetria distorta, il cielo cova gonfiandosi la sua rabbia, mentre la macchia grigia delle nubi si traccia sul lago, che il vento increspa agitandosi inquieto, e dilaga come petrolio in mare, coprendo i solchi di azzurro. Come una timida lacrima strappata in un solitario silenzio, la prima goccia inumidisce la guancia di lei, mentre io guardo in alto il lampo che spezza definitivamente il sereno. Il cielo può liberare il suo grido. Il mio grido.
Il lago, dieci anni prima, era il regno della fantasia della mia infanzia: le corse sui prati, i nascondigli tra i salici, le dormite sotto il sole, le notti ad osservare il cielo stellato. Allora, Giada era una bambina vivace, intraprendente, curiosa, sempre alla ricerca di qualcosa. Non si limitava a guardare le cose per come erano, ma voleva aggiungerci del suo, immaginare come potessero cambiare nel tempo, dare loro una sorta di personalità che le caratterizzasse.
« Guarda, Leo. Ogni fiore in questo campo è speciale. Se li guardi da lontano sembrano tutti uguali, puntini colorati che rendono bello e profumato il prato. Ma se li guardi da vicino, vedi che nessuno è davvero identico. Ognuno ha una sua storia. »
Giada era già a quei tempi la ragazzina più sensibile che conoscessi. Era profonda. Arrivava sempre un passo prima degli altri, sapeva guardare il mondo con occhi più maturi, nonostante l'età precoce, ma con quel pizzico di magia che appartiene solo ad un bambino.
« Forse possiamo rendere questo fiore ancora più speciale. » le dissi cogliendo un bocciolo giallo dorato, stringendo tra le tenere dita lo stelo, e infilandolo delicatamente tra le sue ciocche bionde che rifulgevano carezzate dai raggi solari, raccolte in una treccia.
Sorrideva sempre, un angioletto dai vivaci occhi blu, che col tempo si è saputa trasformare nella più audace ribelle e fedele alleata. E ora è la mia più stretta compagna di morte.
« Vuoi sapere qualcosa di davvero speciale? » disse quel giorno, in quel ricordo. Timidamente intrecciava le dita e rivolgeva lo sguardo sulla superficie del lago, lievemente mossa dal vento primaverile, seduta sull'alto di quella duna erbosa.
« Dillo. »
« Prometti di credermi? »
Per lei era una promessa speciale sigillata per sempre in un posto speciale. Quella promessa sarebbe fatalmente diventata legge.
« Puoi dirmelo, Jade. Ti ascolto. »
« Ogni tanto mi sembra di poter sentire qualcosa. Il vento sussurra. Il lago ci parla con i suoni delle onde. »
Quelle parole, mi tornano in mente in continuazione, come se avesse lanciato una maledizione.
« Ma che dici? Io non sento niente. È impossibile, come fa l’acqua a parlare? »
« Ci parla qui. » Mi mise una mano sul petto. Per me era soltanto un gioco. « Forse è il mio papà. Io ci credo. È un pensiero molto bello. »
« Io non ci credo, Jade. È come la storia dei fantasmi, sono tutte cose che si inventano i grandi. Quelli come te abboccano subito. Tuo papà non c’è più. »
Io sono sempre stato più volto a credere soltanto a quello di cui mi veniva fornita una prova tangibile, di natura diffidente. Non accettavo di mettere in discussione niente di cui ero convinto e non ero mai stato diplomatico.
« Non lo puoi dire che i fantasmi non esistono, solo perché non ne hai mai visto uno. »
« Ecco, visto? Lo sapevo che avresti detto così. Vado a chiederlo a mia mamma, vedrai. »
« Non puoi. È un segreto. »
« Non c'è nessun segreto, Jade. Nessuno. »
Un'altra goccia di pioggia bussa sulla sua fronte e vuole attirare la sua attenzione, scivolando sul viso, prosciugandosi lentamente con i suoi pensieri distratti, mentre fissa il vuoto. Giada si lecca il labbro. Mi sembra di poterlo sentire, quel lieve sapore acidulo sulle sue labbra. L’unico sapore che potrei trasmetterle in questo momento.
La bimba con la treccia è ora una ragazza matura, i tratti del volto seri, tra i bei lineamenti, rimasti morbidi e delicati come se il tempo non avesse voluto sciuparli. La treccia si è sciolta in una una coda tenuta da un elastico, come usa portare i capelli di solito. Una frangia cala sul viso adombrando il sopracciglio sinistro, mentre la chioma folta si scioglie sulle spalle. Una catenina scende fin sulla scollatura, tra i lembi della camicetta sbottonata in alto. Un ciondolo stellato riposa sul petto, provocando lo sguardo a posarsi sul seno, poi sulle braccia nude conserte, scendendo lungo i fianchi e i pantaloncini di jeans che lasciano scoperte le cosce. Veste spesso estivo anche sul finire dell'inverno, non si è mai lamentata del freddo. Le piace mettere in mostra il suo fisico perfetto e non gliene ho mai fatto un difetto.
« Siamo alle solite. Guarda che disastro stai combinando. Perché non la lasci stare, Leonardo? »
La solita voce calda rompe tutta la magia del momento. Mi aspettavo che sarebbe arrivato. Non mi volto, ma immagino la sua entrata scenica, alle mie spalle, con il mantello bianco, l’armatura a maglie dorate, lucente come un paladino baciato dal sole, anche con la pioggia che aveva incominciato a riversarsi incessante.
« Non posso. » rispondo senza smettere di guardare Giada.
« Sei giovane, Leonardo. Ma sembri un vecchio distrutto da una vita infame. »
Spero per lui che mi stia prendendo in giro e che non stia parlando sul serio.
« Vecchio? Giovane? Ho ancora un’età? Cosa importa. Sono solo uno spettro. Lei non può vedermi. Qualunque cosa io faccia. »
« Per l’appunto. Scatenare nubifragi sulla sua testa non ti aiuterà a cambiare le cose. Le renderai difficile un’altra giornata. »
« Non è colpa mia se sono associato all’elemento acqueo. Mi sarebbe piaciuto essere tiepido e luminoso come te, sai? » È probabilmente molto più facile vederla in questo modo, per me. Mi piace dare la colpa di tutto al destino. « Tu sai sempre quello che è giusto, sei autorevole, carismatico, sputi sentenze su quelli che soffrono come me. Non te ne frega un cazzo se sei morto, è come se vivessi. Ma sì, che differenza fa! »
« Leonardo, attento a come parli. »
Tiro un lungo sospiro. « Scusa. Maestro. »
Mi degno finalmente di rivolgergli attenzione.
Lui scuote la testa e sorride. « Leo, Leo. Non so cosa fare con te. Vediamo intanto se riusciamo a migliorare un po’ questa situazione. »
Alza le braccia al cielo, in un ampio gesto di pace. E il cielo risponde, quando tra le nubi un raggio solare scende sfidando le intemperie e abbracciando le acque del lago, e poi un’altro e un’altro ancora, come comete nell’oscurità.
Lo chiamano l’Arcangelo. Salem incarna bene quella figura. È spettacolare. Ma nessuno conosce la sua vera storia.
« Il tuo potere cresce con la tua tristezza, Leonardo. Se continui così, potrei fare fatica a contrastarlo. »
« Mi dispiace. »
« Lo sai, non sono molti gli spiriti che riescono ad avere un’influenza così potente sul mondo dei vivi. Tu puoi e continui a farlo nel modo più sbagliato e deleterio persino per te stesso. Cosa ti ho sempre detto? Non dobbiamo- »
« Interferire con il ciclo dei vivi. » lo scimmiotto. « Non ne abbiamo il diritto, è pericoloso e bla, bla, bla… finiremo tutti all’inferno. »
« Fai poco lo spiritoso. »
Salem poggia una mano sulla mia spalla.
Il contatto per noi fantasmi non è mai scontato. Significa lasciare che l’altro veda qualcosa di te. E ogni volta che mi tocca, io vedo lampi nel buio, che cercano disperatamente di emergere.
Non si direbbe che possa esserci del buio in lui, perciò penso che sia colpa mia se non riesco a scorgere tutta la sua luce.
« Forse è ora che ti parli di una cosa, ragazzo mio. »
Io non lo sto già più ascoltando. Mi sono fatto distrarre da Salem e Giada è già tra le braccia di un altro.
Marco, così si chiama. Non la capisco. Non è mai stata scontata nelle sue scelte. Questo tizio è così superficiale, un tutto muscoli e niente cervello.
La tiene stretta e le butta addosso la sua felpa, cercando di asciugarla e ripararla dal freddo. È come se stesse staccandomi da lei, prosciugando goccia per goccia della mia pioggia.
« Certo che questi temporali di marzo sono strani. Non è durato neanche due minuti. » commenta il ragazzo. « Tu stai bene? Se pigli freddo poi son cavoli. Come ti porto a cena stasera? »
Giada ride e gli tira un buffetto sulla guancia: sono bastate due patetiche parole per rasserenarla. Io invece non so fare altro che gettarle addosso malinconia.
« Leonardo, mi stai ascoltando? Che cosa stai facendo? » Improvvisamente mi ricordo di Salem, che ha cambiato tono. Quando si arrabbia diventa solenne e impetuoso come un dio che scaglia tempeste.
E mi accorgo solo ora delle nubi nere e stracce che sono ricomparse in cielo causa della mia frustrazione, mentre Salem tenta di lacerarle con la sua luce.
« Sì, certo, ti ho sentito. Non posso sempre controllare il mio potere a comando. Ho capito, è pericoloso. Ci sto attento. » gli rispondo con un filo di arroganza. Non voglio che creda di avermi spaventato.
« Se hai capito abbastanza, allora torniamo tra le ombre. Per oggi l’hai seguita a sufficienza. » tuona lui.
« Ma… »
« Non voglio neanche starti a sentire. Ti ci trascino con la forza, se necessario. »
Lo odio quando fa così. Non è mio padre. Non è nessuno. Perché ce l’ha sempre con me? Perché non sta dietro a qualcun altro?
Così, Salem riapre il passaggio per il mondo dei morti e ricomincia la routine. Una porta si apre e una porta si chiude. È l’immagine che si ripete ogni giorno e sta diventando un incubo. Se almeno fossi capace di dormire, forse scaricherei gli incubi durante la notte. Ma no, quando sei uno spettro, è come se il tuo subconscio fosse sempre vivo in ogni momento e ti tenesse per la gola.
E il mondo delle ombre è… spento, come chiunque potrebbe immaginarlo, come se avessero rubato le regole del tempo e dello spazio e avessero lasciato tutto a consumarsi in una lugubre staticità.
« E questo dovrebbe aiutarmi a stare meglio, vero? »
« Vediamo le nostre ombre come riflesso di noi stessi, Leonardo. Io vedo un giardino meraviglioso. »
« Perché non riesco mai a crederti? Sei uno dei pochi che riesce a vedere questo posto in quel modo. »
Lo chiamiamo l’Eden. È vasto e pieno di anime, ma molte, come me, non amano fare amicizia. Incontro di norma giusto quel paio di morti che si sono interessati a me.
Mi allontano da Salem e mi metto come sempre nel mio angolo. Non si tratta di un angolo particolarmente felice: è il limitare di un bosco di alberi quasi spogli in autunno, sulla riva di ruscello per lo più stagnante. Piove sempre, ovviamente. I colori sembrano quelli di una vecchia fotografia. Di solito, come sto facendo ora, mi siedo su un ramo alto, con le gambe a penzoloni e guardo le foglie palmate che continuano a correre col vento e a rimescolarsi.
« Fa freschino oggi. Più del solito. »
Sobbalzo sul mio ramo. Ogni tanto provo a dimenticare che Liliana mi può raggiunge anche qui.
« Lilli cosa ci fai qui? »
Liliana fa spallucce, seduta sul ramo più in basso. « Qui è carino. »
« Non lo è affatto. Non c’è niente di bello da vedere. Vattene. »
Mi rendo conto di essere molto brusco con lei, ma non riesco ad evitarlo, specialmente in momenti come questo.
Il fantasma di Liliana ha l’aspetto di lei a quindici anni, due in meno di me, ma Liliana aveva la mia stessa età quando è morta. Sembra persino più piccola, di bassa statura, con quei codini e le guance appena paffute. Ad essere cinico, potrei definirla insignificante, l’opposto di Giada. La sua cadenza lenta e cantilenante e la sua abitudine di venirmi a disturbare con i suoi discorsi privi di logica non la aiutano.
« Invece sì. Mi piace il tuo angolo. Ha un buon odore. »
Gli elementi del mondo dei morti sono fatti come noi, quindi possiamo ancora toccarli e avvertirne gli odori, mentre nel mondo dei vivi ci sono concessi solo la vista e l’udito.
« Foglie marce? »
« No. Sa di pioggia. Anche tu sai di pioggia. Quando ero bambina e c’era il temporale uscivo con mio fratello sulla veranda e guardavo le bollicine che si formano sulle pozzanghere in strada. C’era sempre questo profumo nell’aria e... c’era la musica. »
« Musica? »
« Sì. La senti? Tic-tic-tic. È come un allegro concerto. »
Mi torna in mente Giada che mi parla di suoni inesistenti, il che non fa altro che irrigidirmi.
« Commovente. Ora, se non te ne vai mi arrabbio. Ho bisogno di starmene per conto mio. Sto dando di matto, devo calmarmi un po’. »
Sto seriamente dando in escandescenza. Il mio silenzio mi serve come una droga ogni volta che torno dal mondo dei vivi. Non è la prima volta che trovo Liliana qui, ma più la cosa va avanti più riesco a sopportarlo di meno.
« Puoi darmi la mano. Ci calmiamo assieme. »
« Lilli. » rispondo fermo.
« Certo. Non hai mai voluto neanche sfiorarmi per un secondo. »
« Perché sei fissata con questa cosa? Non mi piace toccare gli altri fantasmi. Nessuno. Mi mette a disagio. »
Liliana si è bloccata. Sta guardando il torrente.
« Ma… quello è…? »
Lo guardo con lei. L’acqua si sta tingendo di rivoli rossi. « No. Non di nuovo. »
« La pioggia. È opera tua? » Lilli osserva le macchie rosse sulle sue mani che sbocciano come papaveri in un campo brullo. Non è più così entusiasta.
Io non so cosa dire.
Lei spalma il liquido rosso tra le dita, che misto alla pioggia sembra acquarello. Avvicina l’indice alle narici.
So a cosa sta pensando, ma non mi piace. « Non ci provare. »
Liliana si tocca le labbra e fa scivolare fuori la lingua. La sua espressione si fa molto più seria e adulta.
« Come sei morto, Leonardo? »
« Adesso te ne vai. » Non alzo la voce, ma un fulmine mi accompagna.
Liliana svanisce, con l’aria pensante. Sembrava un giovane investigatore che si è ritirato per riflettere sul caso.
Mi appoggio al tronco duro della pianta. Anche le venature del legno hanno iniziato a colorarsi di rosso. Chiudo gli occhi e desidero che quel tronco sia morbido e che io possa sfuggire alla morsa dell’anima per far smettere questa pioggia e tutto questo rumore insopportabile di tuoni.
Improvvisamente, mi fischiano le orecchie e cala il silenzio, il tronco cede come schiuma e la mia schiena si lascia cadere. Ho perso il tatto, quindi sono finito ancora nel mondo dei vivi. Quando riapro gli occhi, immagino già dove mi trovo. Sono sdraiato sul mio letto, nella mia stanza. La sveglia digitale è ancora in funzione e segna le nove di sera. Non passo la notte qui da secoli.
« Così è questo che ho desiderato. » dico tra me e me.
Un letto, delle coperte calde, la sensazione che ci sarà qualcuno ad aspettarmi la mattina, magari sognando i croissants della forneria di papà per colazione.
Mi accorgo di essere asciutto. Ha funzionato.
Poi intravedo con sgomento una sagoma sulla soglia. Non riesco quasi a riconoscere mio padre: ha l’angoscia negli occhi e sembra un fantasma più di me.
« Papà? » Mi sollevo. So che è inutile, ma non posso fare a meno di provarci.
Papà richiude la porta, con la maniglia, poi la sospinge per assicurarsi di averla chiusa bene. Non la volevo mai aperta e me ne stavo tutto il giorno in stanza a perdere tempo. A cena mi alzavo di fretta per correre al cellulare, a volte non assaggiavo nemmeno il dolce che i miei avevano cucinato assieme la domenica.
Non posso piangere. Se mi faccio coinvolgere troppo, potrei far piovere in casa.
Mi guardo, dal petto in giù. Ho addosso la mia felpa grigia e i pantaloni della tuta, come quella volta che… già.
Quella volta non ero da solo. Posso quasi vederla, Giada che ficca il naso tra i cassetti dei miei ricordi di bambino.
« E questo? » si rigirava un braccialetto di finte pietre azzurre tra le mani. « È carino! Facevi davvero queste cose? È un po’... »
« Insomma puoi lasciare stare la mia roba? » Io imbarazzatissimo tentavo di tenere a freno le sue mani che aprivano uno sportello dietro l’altro.
« La tua roba? Questo è appena diventato mio. »
« Ah, ora fai anche la prepotente. »
Glielo lasciavo indossare, mentre si guardava allo specchio per sentirsi una modella prima di una sfilata. Poteva persino essere bello addosso a lei.
« Hai dei gusti veramente discutibili. »
« Sai cosa mi ricorda? I colori del lago. » Si è buttata sul mio letto di schiena e per traverso. Anche quando doveva sembrare pesante nei gesti, in realtà riusciva sempre a uscirne miracolosamente con eleganza. Non so come ne fosse capace.
« Ma ci pensi ancora a tutti i casini che combinavamo? » mi sorrideva.
« Be’, di continuo. »
Era lì distesa, nella mia camera, e io me ne stavo pateticamente nell’angolo, senza alzare un dito e con le gambe paralizzate. Era una di quelle situazioni in cui iniziava a venirmi il fiatone. Finché, mentre la guardavo, dietro al braccialetto, non ho notato un taglio. E poi un altro e un altro, lungo il braccio nudo.
« Ma che hai fatto? »
Mi sono avvicinato, probabilmente anche troppo impetuosamente, come una mamma preoccupata. Non le ho dato il tempo di rispondere e le ho preso il polso.
« A-ahi! Ma è solo un taglietto, di che ti preoccupi? » Si è sottratta, massaggiandosi la ferita. Mi è sembrato che avesse avuto paura di qualcosa.
« Non mi sembra. » Mi sono ricomposto. « Scusa. »
« Tranquillo. » Ha ricominciato a sorridere. « Sono solo io che gioco con le porcellane di mia nonna esattamente come faccio con i tuoi oggetti, ma… be’, non mi va sempre tutto bene. » Ci siamo messi a ridere.
Ma mentre ridevo guardavo le sue ferite. Non mi aveva convinto.
Non mi ha mai detto tutto, ma non posso seguirla neanche adesso ovunque o negli orari che voglio. Questa storia va avanti da un anno e mezzo per colpa di Salem. Ma sono stanco.
« Ogni tanto mi sembra di rivedere mio padre. Mi chiedo se sarebbe fiero di me. »
« Che c’entra adesso? »
Giada ha fatto spallucce. « Non lo so. » Le è sfuggita un’altra risata, stavolta nervosa. « Ti sto dicendo che vedo i fantasmi e tu mi chiedi se ha senso dirtelo adesso? »
« Perché era un modo di dire. » Dissi ponendola più come una domanda che un’affermazione.
Giada è diventata pallida. « Ti è mai capitato che qualcuno ti guardi come un morto? E quando cerchi di andargli incontro sparisce misteriosamente dietro il primo angolo? Poi la notte stessa ti svegli di soprassalto e ti sembra che una presenza sia lì ad osservarti. Stai sudando freddo e non riesci a riprendere sonno. Accendi la luce e non hai coraggio di spegnerla. » Ha deglutito. « Lui somiglia così tanto a... »
« Jade così mi metti ansia sul serio. » l’ho interrotta.
Giada si è scompigliata i capelli e ha ripreso colorito « Ah, sì. Erano tutte stronzate per prendermi gioco di te, mi stavo quasi calando nella parte. Ci sei cascato. » Mi ha fatto l’occhiolino. « Ma dai Leo, ti sembro il tipo da cacciarmi nei guai? Seriamente, non pensarci. »
« Certo. » Ho ricambiato la sua finta risata.
Mi ritrovo a guardare me stesso nello specchio di camera, proprio come in quel momento. Per me è un po’ come guardarmi dentro, attraverso i miei occhi. Peccato che il vecchio specchio non rifletta più nulla.
« Dannazione. »
Appena pronunciata quell’imprecazione, mi accorgo che qualcuno è qui, ma come me non è riflesso nello specchio.
« Lilli, non ti avevo detto di starmi lontano? »
« Ero in pensiero. Eri così triste. Non dovresti essere qui. »
« Oh, Dio! » Mi metto le mani nei capelli e faccio scivolare le unghie sulla faccia. « Senti, vivere come un fantasma per l’eternità non mi servirà nulla. Se deve succedermi qualcosa, così sia. Siamo ancorati qui, Lilli. Alcuni se ne vanno subito, ma a noi è stato concesso di restare e non sappiamo per quanto e perché. »
Liliana si guarda attorno, indecisa sul modo più giusto per rispondere.
« Ma stai bene adesso? »
« Onestamente, se te ne andassi starei molto meglio. »
La ragazza ha un velo di lacrime sugli occhi. Dopo qualche attimo di silenzio, a guardarmi con disappunto, si avvicina.
« Perché fingi di essere cattivo? »
Mi mordo la lingua e guardo fuori dalla mia finestra grande. Sembra che il lago mi guardi, come un grande occhio scuro, sempre.
Rabbrividisco, quando la mano di Lilli mi afferra per il polso.
« Hai paura? »
Il mio primo istinto è quello di ritrarlo, ma poi associo a quella stretta il mio stesso gesto di premura nei confronti di Giada, all’interno di quel ricordo nella stanza.
« Forse un po’. » rispondo, sempre teso. Anche lei è spaventata, ora lo sento. « E sono freddo, non penso che leggere i miei pensieri porti a nulla di buono. »
« A te? Continui a rifiutarlo. Forse è questo il problema, non credi? »
Inizio ad avvertire il suo pianto, la sua angoscia, la sua ricerca di affetto e la sua voglia di tornare infante per sentirsi protetta. Mi sembra di aver appena ottenuto la chiave per i suoi segreti più oscuri, quelli che nessuno può permettersi di violare. E lei mi sta facendo entrare.
« Ora ho paura. » sussurro con il cuore in gola.
In un flash ritrovo me stesso nei panni di un altro. Sono al volante di una macchina e sorrido a Liliana tenendola per mano, sporgendomi sul sedile posteriore. Liliana sta ridendo di una felicità naturale, come quella di una bimba, quando improvvisamente la morte si dipinge sul suo volto.
Ritorno in me. Liliana ha stretto la presa.
« Lui se n’è andato. Mi ha lasciata qui da sola. »
« Era tuo fratello, vero? »
Lei si asciuga le lacrime e annuisce. « Aveva qualche anno più di te, ma tu me lo ricordi. Stavamo andando a vedere la partita. Io ho iniziato a prenderlo in giro come una scema. È davvero bastato un niente, non riesco ancora a capacitarmene. Un attimo prima mi sentivo invincibile e poi… non ho potuto realizzare in tempo quanto fossimo fragili. » Prende un respiro. « Ha ragione ad essersene andato. Ho rovinato la vita a tutti e due. »
Io non so che rispondere. La mia voce fa per uscire, ma poi tace, perché non trovo le parole. Ma è Liliana che mi invita con lo sguardo.
Io tentenno ancora, poi domando: « Ora tocca a me, dici? »
Lei non risponde, aspettandosi che scelga da solo di aprirmi.
Così decido di assecondarla. « Ah… è complicato. Una storia triste. »
« Esistono le morti felici? »
Rimango a di nuovo incapace di ribattere. « No. » Faccio una pausa. « Ma sono uno stupido anche io. » mi sfugge un risolino nervoso.
« Sai, c’è una ragazza a cui tengo tanto. Le ho regalato un braccialetto. »
« È un gesto carino. »
« In realtà se l’è preso da sola. » rido. « Ma non fa differenza, nella mia testa era il mio regalo. »
Ci sediamo finalmente sul letto, anche senza poterlo fare davvero, come se avesse un senso.
« La ragazza era piena di scheletri nell’armadio. Sai, quelle cose brutte. »
Mentre continuo a raccontare, rivedo l’ansa nascosta del lago, l’estate di qualche tempo prima.
« Ma che dolce, un pensiero davvero carino! » diceva in tono di scherno un ragazzo della mia età.
Era uno dei bulli del paese, nessuna novità.
Poi però ha sfilato il braccialetto dal polso di Giada e l’ha gettato nel lago. Lei non ha detto una parola. È sempre stata quella che sorrideva, quella che quando mi vedeva triste non mi chiedeva perché, ma tirava fuori dal cilindro un modo per alzarmi il morale, quella a cui piaceva rompere gli schemi e mettersi nei guai. E la mia amica. Quella volta l’avevo seguita e l’avevo trovata in compagnia di quei ragazzi. Loro le giravano attorno come avvoltoi e lei era spenta e inespressiva. E in quel momento, quando le hanno strappato il bracciale, era come se le avessero strappato tutto.
« Ops. Vedi, Leonardo, è scortese fare delle avance verso la donna d’altri. Credi? » ha continuato il teppista.
Io ero così arrabbiato e mi sentivo allo stesso tempo così impotente. Cinque figuri mi guardavano dall’alto al basso. Sono sempre stato così, chiuso nelle mie insicurezze. Se non facevo qualcosa in quel momento, sarebbe stato l’ennesimo rimorso che non se ne va. Uno pesante da digerire.
Non ho saputo dire nulla. Ho sfilato le scarpe, ho sputato a terra e mi sono tuffato. Il lago era limpido e non era così infossato in quel punto, ma neanche così basso. Ho smesso di pensare, di sentire gli schiamazzi degli altri, coperti dall’acqua. Volevo solo trovare quel braccialetto. Ho resistito fino a scoppiare, tastando sul fondo, nel punto in cui era caduto. Non volevo risalire a mani vuote. E l’ho trovato.
Ho teso la mano verso la superficie e ho spinto forte con le gambe per risalire. Il respiro mi mancava e il lago sembrava volermi giù con lui, ma passo dopo passo rompevo un muro d’acqua dietro l’altro e tornavo verso la luce.
« Non so cosa credessi di ottenere. Era chiaro che non me l’avrebbero fatta passare liscia. Giada non c’era più quando sono tornato verso riva, ma gli altri c’erano eccome. Il più grosso, a cui avevo sputato in faccia, ha estratto un coltello. Così, col sorriso beffardo, come se fosse stata una partita a un videogioco. Qualcuno alle sue spalle ha provato a dirgli di andarci piano o di non fare cazzate. Ma non c’è andato piano. » ho concluso. « Quel ragazzo ora non se la passa bene. »
Liliana ha fatto un respiro profondo. « E lei... »
« Non ha mai detto niente. Ma è chiaro che lo sa. Frustrante, sì, ma almeno dopo quell’episodio non l’hanno più cercata. E lei ha smesso di farsi del male, per qualche ragione. » mi alzo, sgranchendo le ossa per cercare di levarmi di dosso quella tremarella che mi è salita. « Comunque ormai lo sanno tutti. »
« Wow. » esordisce in risposta, senza poi sapere cosa aggiungere.
« Hai ragione. Mi ha fatto bene parlare. » dico, anche se con la voce tremula non sono molto convincente. « Ho capito una cosa. »
Liliana mi vede in moto e intuisce che sto per fare qualcosa. « Cosa? » chiede un po’ perplessa.
« Che non sono l’unico a sentirmi oppresso dalla morte. Nemmeno Salem è tutto bianco. Io l’ho visto, il nero che c’è in lui, ma non ho voluto crederci. Ognuno ha i suoi demoni. »
« Quindi? » incalza lei, a cui sembro sempre più criptico.
« Quindi basta. Sono stanco di darmi colpe e di avere paura. Voglio fare qualcosa di buono. Voglio dire “Ehi, vaffanculo. Non mi importa cosa sono diventato, voglio essere me stesso.” »
Prendo ancora la mano di Liliana e non la lascio. Ci muoviamo in alto, sopra il paese, sopra il lago. Giada è uscita sulla terrazza di casa sua con Marco. Sembra ancora che mi stia guardando, quassù.
Viene distratta da una goccia umida sulle labbra. Ma sorride: sono sicuro che questa volta era dolce.
« Marco, guarda! Nevica! » alza le mani al cielo per cogliere i fiocchi, gioiosa.
Marco non fa a tempo a rendersene conto che lei è già rientrata e sta correndo alla porta di casa. La segue fino all’uscio e poi la rincorre sul prato, gettandola a terra dove si rotolano assieme.
« È questo che voglio essere, Lilli. » mi rivolgo a Liliana. « L’acqua è un elemento bellissimo e si può giocare così tanto con tutte le sue forme. È vita, è la sensazione che ti scorre addosso quando fai una doccia per lavare via le incertezze, quella che ti rianima dopo la fatica e che ti rinfresca quando il caldo è troppo intenso. Tutte queste cose possono fare parte di me. Soprattutto ora che ho capito di non essere da solo qui. » Le sorrido. « “Insieme”, non è una parola scontata. Godiamoci il nostro tramonto finché non sarà tempo per la nostra notte di scendere e a quel punto, ci accoglierà con i sogni più lieti. »
Il lago, dieci anni prima, era il regno della fantasia della mia infanzia: le corse sui prati, i nascondigli tra i salici, le dormite sotto il sole, le notti ad osservare il cielo stellato. Allora, Giada era una bambina vivace, intraprendente, curiosa, sempre alla ricerca di qualcosa. Non si limitava a guardare le cose per come erano, ma voleva aggiungerci del suo, immaginare come potessero cambiare nel tempo, dare loro una sorta di personalità che le caratterizzasse.
« Guarda, Leo. Ogni fiore in questo campo è speciale. Se li guardi da lontano sembrano tutti uguali, puntini colorati che rendono bello e profumato il prato. Ma se li guardi da vicino, vedi che nessuno è davvero identico. Ognuno ha una sua storia. »
Giada era già a quei tempi la ragazzina più sensibile che conoscessi. Era profonda. Arrivava sempre un passo prima degli altri, sapeva guardare il mondo con occhi più maturi, nonostante l'età precoce, ma con quel pizzico di magia che appartiene solo ad un bambino.
« Forse possiamo rendere questo fiore ancora più speciale. » le dissi cogliendo un bocciolo giallo dorato, stringendo tra le tenere dita lo stelo, e infilandolo delicatamente tra le sue ciocche bionde che rifulgevano carezzate dai raggi solari, raccolte in una treccia.
Sorrideva sempre, un angioletto dai vivaci occhi blu, che col tempo si è saputa trasformare nella più audace ribelle e fedele alleata. E ora è la mia più stretta compagna di morte.
« Vuoi sapere qualcosa di davvero speciale? » disse quel giorno, in quel ricordo. Timidamente intrecciava le dita e rivolgeva lo sguardo sulla superficie del lago, lievemente mossa dal vento primaverile, seduta sull'alto di quella duna erbosa.
« Dillo. »
« Prometti di credermi? »
Per lei era una promessa speciale sigillata per sempre in un posto speciale. Quella promessa sarebbe fatalmente diventata legge.
« Puoi dirmelo, Jade. Ti ascolto. »
« Ogni tanto mi sembra di poter sentire qualcosa. Il vento sussurra. Il lago ci parla con i suoni delle onde. »
Quelle parole, mi tornano in mente in continuazione, come se avesse lanciato una maledizione.
« Ma che dici? Io non sento niente. È impossibile, come fa l’acqua a parlare? »
« Ci parla qui. » Mi mise una mano sul petto. Per me era soltanto un gioco. « Forse è il mio papà. Io ci credo. È un pensiero molto bello. »
« Io non ci credo, Jade. È come la storia dei fantasmi, sono tutte cose che si inventano i grandi. Quelli come te abboccano subito. Tuo papà non c’è più. »
Io sono sempre stato più volto a credere soltanto a quello di cui mi veniva fornita una prova tangibile, di natura diffidente. Non accettavo di mettere in discussione niente di cui ero convinto e non ero mai stato diplomatico.
« Non lo puoi dire che i fantasmi non esistono, solo perché non ne hai mai visto uno. »
« Ecco, visto? Lo sapevo che avresti detto così. Vado a chiederlo a mia mamma, vedrai. »
« Non puoi. È un segreto. »
« Non c'è nessun segreto, Jade. Nessuno. »
Un'altra goccia di pioggia bussa sulla sua fronte e vuole attirare la sua attenzione, scivolando sul viso, prosciugandosi lentamente con i suoi pensieri distratti, mentre fissa il vuoto. Giada si lecca il labbro. Mi sembra di poterlo sentire, quel lieve sapore acidulo sulle sue labbra. L’unico sapore che potrei trasmetterle in questo momento.
La bimba con la treccia è ora una ragazza matura, i tratti del volto seri, tra i bei lineamenti, rimasti morbidi e delicati come se il tempo non avesse voluto sciuparli. La treccia si è sciolta in una una coda tenuta da un elastico, come usa portare i capelli di solito. Una frangia cala sul viso adombrando il sopracciglio sinistro, mentre la chioma folta si scioglie sulle spalle. Una catenina scende fin sulla scollatura, tra i lembi della camicetta sbottonata in alto. Un ciondolo stellato riposa sul petto, provocando lo sguardo a posarsi sul seno, poi sulle braccia nude conserte, scendendo lungo i fianchi e i pantaloncini di jeans che lasciano scoperte le cosce. Veste spesso estivo anche sul finire dell'inverno, non si è mai lamentata del freddo. Le piace mettere in mostra il suo fisico perfetto e non gliene ho mai fatto un difetto.
« Siamo alle solite. Guarda che disastro stai combinando. Perché non la lasci stare, Leonardo? »
La solita voce calda rompe tutta la magia del momento. Mi aspettavo che sarebbe arrivato. Non mi volto, ma immagino la sua entrata scenica, alle mie spalle, con il mantello bianco, l’armatura a maglie dorate, lucente come un paladino baciato dal sole, anche con la pioggia che aveva incominciato a riversarsi incessante.
« Non posso. » rispondo senza smettere di guardare Giada.
« Sei giovane, Leonardo. Ma sembri un vecchio distrutto da una vita infame. »
Spero per lui che mi stia prendendo in giro e che non stia parlando sul serio.
« Vecchio? Giovane? Ho ancora un’età? Cosa importa. Sono solo uno spettro. Lei non può vedermi. Qualunque cosa io faccia. »
« Per l’appunto. Scatenare nubifragi sulla sua testa non ti aiuterà a cambiare le cose. Le renderai difficile un’altra giornata. »
« Non è colpa mia se sono associato all’elemento acqueo. Mi sarebbe piaciuto essere tiepido e luminoso come te, sai? » È probabilmente molto più facile vederla in questo modo, per me. Mi piace dare la colpa di tutto al destino. « Tu sai sempre quello che è giusto, sei autorevole, carismatico, sputi sentenze su quelli che soffrono come me. Non te ne frega un cazzo se sei morto, è come se vivessi. Ma sì, che differenza fa! »
« Leonardo, attento a come parli. »
Tiro un lungo sospiro. « Scusa. Maestro. »
Mi degno finalmente di rivolgergli attenzione.
Lui scuote la testa e sorride. « Leo, Leo. Non so cosa fare con te. Vediamo intanto se riusciamo a migliorare un po’ questa situazione. »
Alza le braccia al cielo, in un ampio gesto di pace. E il cielo risponde, quando tra le nubi un raggio solare scende sfidando le intemperie e abbracciando le acque del lago, e poi un’altro e un’altro ancora, come comete nell’oscurità.
Lo chiamano l’Arcangelo. Salem incarna bene quella figura. È spettacolare. Ma nessuno conosce la sua vera storia.
« Il tuo potere cresce con la tua tristezza, Leonardo. Se continui così, potrei fare fatica a contrastarlo. »
« Mi dispiace. »
« Lo sai, non sono molti gli spiriti che riescono ad avere un’influenza così potente sul mondo dei vivi. Tu puoi e continui a farlo nel modo più sbagliato e deleterio persino per te stesso. Cosa ti ho sempre detto? Non dobbiamo- »
« Interferire con il ciclo dei vivi. » lo scimmiotto. « Non ne abbiamo il diritto, è pericoloso e bla, bla, bla… finiremo tutti all’inferno. »
« Fai poco lo spiritoso. »
Salem poggia una mano sulla mia spalla.
Il contatto per noi fantasmi non è mai scontato. Significa lasciare che l’altro veda qualcosa di te. E ogni volta che mi tocca, io vedo lampi nel buio, che cercano disperatamente di emergere.
Non si direbbe che possa esserci del buio in lui, perciò penso che sia colpa mia se non riesco a scorgere tutta la sua luce.
« Forse è ora che ti parli di una cosa, ragazzo mio. »
Io non lo sto già più ascoltando. Mi sono fatto distrarre da Salem e Giada è già tra le braccia di un altro.
Marco, così si chiama. Non la capisco. Non è mai stata scontata nelle sue scelte. Questo tizio è così superficiale, un tutto muscoli e niente cervello.
La tiene stretta e le butta addosso la sua felpa, cercando di asciugarla e ripararla dal freddo. È come se stesse staccandomi da lei, prosciugando goccia per goccia della mia pioggia.
« Certo che questi temporali di marzo sono strani. Non è durato neanche due minuti. » commenta il ragazzo. « Tu stai bene? Se pigli freddo poi son cavoli. Come ti porto a cena stasera? »
Giada ride e gli tira un buffetto sulla guancia: sono bastate due patetiche parole per rasserenarla. Io invece non so fare altro che gettarle addosso malinconia.
« Leonardo, mi stai ascoltando? Che cosa stai facendo? » Improvvisamente mi ricordo di Salem, che ha cambiato tono. Quando si arrabbia diventa solenne e impetuoso come un dio che scaglia tempeste.
E mi accorgo solo ora delle nubi nere e stracce che sono ricomparse in cielo causa della mia frustrazione, mentre Salem tenta di lacerarle con la sua luce.
« Sì, certo, ti ho sentito. Non posso sempre controllare il mio potere a comando. Ho capito, è pericoloso. Ci sto attento. » gli rispondo con un filo di arroganza. Non voglio che creda di avermi spaventato.
« Se hai capito abbastanza, allora torniamo tra le ombre. Per oggi l’hai seguita a sufficienza. » tuona lui.
« Ma… »
« Non voglio neanche starti a sentire. Ti ci trascino con la forza, se necessario. »
Lo odio quando fa così. Non è mio padre. Non è nessuno. Perché ce l’ha sempre con me? Perché non sta dietro a qualcun altro?
Così, Salem riapre il passaggio per il mondo dei morti e ricomincia la routine. Una porta si apre e una porta si chiude. È l’immagine che si ripete ogni giorno e sta diventando un incubo. Se almeno fossi capace di dormire, forse scaricherei gli incubi durante la notte. Ma no, quando sei uno spettro, è come se il tuo subconscio fosse sempre vivo in ogni momento e ti tenesse per la gola.
E il mondo delle ombre è… spento, come chiunque potrebbe immaginarlo, come se avessero rubato le regole del tempo e dello spazio e avessero lasciato tutto a consumarsi in una lugubre staticità.
« E questo dovrebbe aiutarmi a stare meglio, vero? »
« Vediamo le nostre ombre come riflesso di noi stessi, Leonardo. Io vedo un giardino meraviglioso. »
« Perché non riesco mai a crederti? Sei uno dei pochi che riesce a vedere questo posto in quel modo. »
Lo chiamiamo l’Eden. È vasto e pieno di anime, ma molte, come me, non amano fare amicizia. Incontro di norma giusto quel paio di morti che si sono interessati a me.
Mi allontano da Salem e mi metto come sempre nel mio angolo. Non si tratta di un angolo particolarmente felice: è il limitare di un bosco di alberi quasi spogli in autunno, sulla riva di ruscello per lo più stagnante. Piove sempre, ovviamente. I colori sembrano quelli di una vecchia fotografia. Di solito, come sto facendo ora, mi siedo su un ramo alto, con le gambe a penzoloni e guardo le foglie palmate che continuano a correre col vento e a rimescolarsi.
« Fa freschino oggi. Più del solito. »
Sobbalzo sul mio ramo. Ogni tanto provo a dimenticare che Liliana mi può raggiunge anche qui.
« Lilli cosa ci fai qui? »
Liliana fa spallucce, seduta sul ramo più in basso. « Qui è carino. »
« Non lo è affatto. Non c’è niente di bello da vedere. Vattene. »
Mi rendo conto di essere molto brusco con lei, ma non riesco ad evitarlo, specialmente in momenti come questo.
Il fantasma di Liliana ha l’aspetto di lei a quindici anni, due in meno di me, ma Liliana aveva la mia stessa età quando è morta. Sembra persino più piccola, di bassa statura, con quei codini e le guance appena paffute. Ad essere cinico, potrei definirla insignificante, l’opposto di Giada. La sua cadenza lenta e cantilenante e la sua abitudine di venirmi a disturbare con i suoi discorsi privi di logica non la aiutano.
« Invece sì. Mi piace il tuo angolo. Ha un buon odore. »
Gli elementi del mondo dei morti sono fatti come noi, quindi possiamo ancora toccarli e avvertirne gli odori, mentre nel mondo dei vivi ci sono concessi solo la vista e l’udito.
« Foglie marce? »
« No. Sa di pioggia. Anche tu sai di pioggia. Quando ero bambina e c’era il temporale uscivo con mio fratello sulla veranda e guardavo le bollicine che si formano sulle pozzanghere in strada. C’era sempre questo profumo nell’aria e... c’era la musica. »
« Musica? »
« Sì. La senti? Tic-tic-tic. È come un allegro concerto. »
Mi torna in mente Giada che mi parla di suoni inesistenti, il che non fa altro che irrigidirmi.
« Commovente. Ora, se non te ne vai mi arrabbio. Ho bisogno di starmene per conto mio. Sto dando di matto, devo calmarmi un po’. »
Sto seriamente dando in escandescenza. Il mio silenzio mi serve come una droga ogni volta che torno dal mondo dei vivi. Non è la prima volta che trovo Liliana qui, ma più la cosa va avanti più riesco a sopportarlo di meno.
« Puoi darmi la mano. Ci calmiamo assieme. »
« Lilli. » rispondo fermo.
« Certo. Non hai mai voluto neanche sfiorarmi per un secondo. »
« Perché sei fissata con questa cosa? Non mi piace toccare gli altri fantasmi. Nessuno. Mi mette a disagio. »
Liliana si è bloccata. Sta guardando il torrente.
« Ma… quello è…? »
Lo guardo con lei. L’acqua si sta tingendo di rivoli rossi. « No. Non di nuovo. »
« La pioggia. È opera tua? » Lilli osserva le macchie rosse sulle sue mani che sbocciano come papaveri in un campo brullo. Non è più così entusiasta.
Io non so cosa dire.
Lei spalma il liquido rosso tra le dita, che misto alla pioggia sembra acquarello. Avvicina l’indice alle narici.
So a cosa sta pensando, ma non mi piace. « Non ci provare. »
Liliana si tocca le labbra e fa scivolare fuori la lingua. La sua espressione si fa molto più seria e adulta.
« Come sei morto, Leonardo? »
« Adesso te ne vai. » Non alzo la voce, ma un fulmine mi accompagna.
Liliana svanisce, con l’aria pensante. Sembrava un giovane investigatore che si è ritirato per riflettere sul caso.
Mi appoggio al tronco duro della pianta. Anche le venature del legno hanno iniziato a colorarsi di rosso. Chiudo gli occhi e desidero che quel tronco sia morbido e che io possa sfuggire alla morsa dell’anima per far smettere questa pioggia e tutto questo rumore insopportabile di tuoni.
Improvvisamente, mi fischiano le orecchie e cala il silenzio, il tronco cede come schiuma e la mia schiena si lascia cadere. Ho perso il tatto, quindi sono finito ancora nel mondo dei vivi. Quando riapro gli occhi, immagino già dove mi trovo. Sono sdraiato sul mio letto, nella mia stanza. La sveglia digitale è ancora in funzione e segna le nove di sera. Non passo la notte qui da secoli.
« Così è questo che ho desiderato. » dico tra me e me.
Un letto, delle coperte calde, la sensazione che ci sarà qualcuno ad aspettarmi la mattina, magari sognando i croissants della forneria di papà per colazione.
Mi accorgo di essere asciutto. Ha funzionato.
Poi intravedo con sgomento una sagoma sulla soglia. Non riesco quasi a riconoscere mio padre: ha l’angoscia negli occhi e sembra un fantasma più di me.
« Papà? » Mi sollevo. So che è inutile, ma non posso fare a meno di provarci.
Papà richiude la porta, con la maniglia, poi la sospinge per assicurarsi di averla chiusa bene. Non la volevo mai aperta e me ne stavo tutto il giorno in stanza a perdere tempo. A cena mi alzavo di fretta per correre al cellulare, a volte non assaggiavo nemmeno il dolce che i miei avevano cucinato assieme la domenica.
Non posso piangere. Se mi faccio coinvolgere troppo, potrei far piovere in casa.
Mi guardo, dal petto in giù. Ho addosso la mia felpa grigia e i pantaloni della tuta, come quella volta che… già.
Quella volta non ero da solo. Posso quasi vederla, Giada che ficca il naso tra i cassetti dei miei ricordi di bambino.
« E questo? » si rigirava un braccialetto di finte pietre azzurre tra le mani. « È carino! Facevi davvero queste cose? È un po’... »
« Insomma puoi lasciare stare la mia roba? » Io imbarazzatissimo tentavo di tenere a freno le sue mani che aprivano uno sportello dietro l’altro.
« La tua roba? Questo è appena diventato mio. »
« Ah, ora fai anche la prepotente. »
Glielo lasciavo indossare, mentre si guardava allo specchio per sentirsi una modella prima di una sfilata. Poteva persino essere bello addosso a lei.
« Hai dei gusti veramente discutibili. »
« Sai cosa mi ricorda? I colori del lago. » Si è buttata sul mio letto di schiena e per traverso. Anche quando doveva sembrare pesante nei gesti, in realtà riusciva sempre a uscirne miracolosamente con eleganza. Non so come ne fosse capace.
« Ma ci pensi ancora a tutti i casini che combinavamo? » mi sorrideva.
« Be’, di continuo. »
Era lì distesa, nella mia camera, e io me ne stavo pateticamente nell’angolo, senza alzare un dito e con le gambe paralizzate. Era una di quelle situazioni in cui iniziava a venirmi il fiatone. Finché, mentre la guardavo, dietro al braccialetto, non ho notato un taglio. E poi un altro e un altro, lungo il braccio nudo.
« Ma che hai fatto? »
Mi sono avvicinato, probabilmente anche troppo impetuosamente, come una mamma preoccupata. Non le ho dato il tempo di rispondere e le ho preso il polso.
« A-ahi! Ma è solo un taglietto, di che ti preoccupi? » Si è sottratta, massaggiandosi la ferita. Mi è sembrato che avesse avuto paura di qualcosa.
« Non mi sembra. » Mi sono ricomposto. « Scusa. »
« Tranquillo. » Ha ricominciato a sorridere. « Sono solo io che gioco con le porcellane di mia nonna esattamente come faccio con i tuoi oggetti, ma… be’, non mi va sempre tutto bene. » Ci siamo messi a ridere.
Ma mentre ridevo guardavo le sue ferite. Non mi aveva convinto.
Non mi ha mai detto tutto, ma non posso seguirla neanche adesso ovunque o negli orari che voglio. Questa storia va avanti da un anno e mezzo per colpa di Salem. Ma sono stanco.
« Ogni tanto mi sembra di rivedere mio padre. Mi chiedo se sarebbe fiero di me. »
« Che c’entra adesso? »
Giada ha fatto spallucce. « Non lo so. » Le è sfuggita un’altra risata, stavolta nervosa. « Ti sto dicendo che vedo i fantasmi e tu mi chiedi se ha senso dirtelo adesso? »
« Perché era un modo di dire. » Dissi ponendola più come una domanda che un’affermazione.
Giada è diventata pallida. « Ti è mai capitato che qualcuno ti guardi come un morto? E quando cerchi di andargli incontro sparisce misteriosamente dietro il primo angolo? Poi la notte stessa ti svegli di soprassalto e ti sembra che una presenza sia lì ad osservarti. Stai sudando freddo e non riesci a riprendere sonno. Accendi la luce e non hai coraggio di spegnerla. » Ha deglutito. « Lui somiglia così tanto a... »
« Jade così mi metti ansia sul serio. » l’ho interrotta.
Giada si è scompigliata i capelli e ha ripreso colorito « Ah, sì. Erano tutte stronzate per prendermi gioco di te, mi stavo quasi calando nella parte. Ci sei cascato. » Mi ha fatto l’occhiolino. « Ma dai Leo, ti sembro il tipo da cacciarmi nei guai? Seriamente, non pensarci. »
« Certo. » Ho ricambiato la sua finta risata.
Mi ritrovo a guardare me stesso nello specchio di camera, proprio come in quel momento. Per me è un po’ come guardarmi dentro, attraverso i miei occhi. Peccato che il vecchio specchio non rifletta più nulla.
« Dannazione. »
Appena pronunciata quell’imprecazione, mi accorgo che qualcuno è qui, ma come me non è riflesso nello specchio.
« Lilli, non ti avevo detto di starmi lontano? »
« Ero in pensiero. Eri così triste. Non dovresti essere qui. »
« Oh, Dio! » Mi metto le mani nei capelli e faccio scivolare le unghie sulla faccia. « Senti, vivere come un fantasma per l’eternità non mi servirà nulla. Se deve succedermi qualcosa, così sia. Siamo ancorati qui, Lilli. Alcuni se ne vanno subito, ma a noi è stato concesso di restare e non sappiamo per quanto e perché. »
Liliana si guarda attorno, indecisa sul modo più giusto per rispondere.
« Ma stai bene adesso? »
« Onestamente, se te ne andassi starei molto meglio. »
La ragazza ha un velo di lacrime sugli occhi. Dopo qualche attimo di silenzio, a guardarmi con disappunto, si avvicina.
« Perché fingi di essere cattivo? »
Mi mordo la lingua e guardo fuori dalla mia finestra grande. Sembra che il lago mi guardi, come un grande occhio scuro, sempre.
Rabbrividisco, quando la mano di Lilli mi afferra per il polso.
« Hai paura? »
Il mio primo istinto è quello di ritrarlo, ma poi associo a quella stretta il mio stesso gesto di premura nei confronti di Giada, all’interno di quel ricordo nella stanza.
« Forse un po’. » rispondo, sempre teso. Anche lei è spaventata, ora lo sento. « E sono freddo, non penso che leggere i miei pensieri porti a nulla di buono. »
« A te? Continui a rifiutarlo. Forse è questo il problema, non credi? »
Inizio ad avvertire il suo pianto, la sua angoscia, la sua ricerca di affetto e la sua voglia di tornare infante per sentirsi protetta. Mi sembra di aver appena ottenuto la chiave per i suoi segreti più oscuri, quelli che nessuno può permettersi di violare. E lei mi sta facendo entrare.
« Ora ho paura. » sussurro con il cuore in gola.
In un flash ritrovo me stesso nei panni di un altro. Sono al volante di una macchina e sorrido a Liliana tenendola per mano, sporgendomi sul sedile posteriore. Liliana sta ridendo di una felicità naturale, come quella di una bimba, quando improvvisamente la morte si dipinge sul suo volto.
Ritorno in me. Liliana ha stretto la presa.
« Lui se n’è andato. Mi ha lasciata qui da sola. »
« Era tuo fratello, vero? »
Lei si asciuga le lacrime e annuisce. « Aveva qualche anno più di te, ma tu me lo ricordi. Stavamo andando a vedere la partita. Io ho iniziato a prenderlo in giro come una scema. È davvero bastato un niente, non riesco ancora a capacitarmene. Un attimo prima mi sentivo invincibile e poi… non ho potuto realizzare in tempo quanto fossimo fragili. » Prende un respiro. « Ha ragione ad essersene andato. Ho rovinato la vita a tutti e due. »
Io non so che rispondere. La mia voce fa per uscire, ma poi tace, perché non trovo le parole. Ma è Liliana che mi invita con lo sguardo.
Io tentenno ancora, poi domando: « Ora tocca a me, dici? »
Lei non risponde, aspettandosi che scelga da solo di aprirmi.
Così decido di assecondarla. « Ah… è complicato. Una storia triste. »
« Esistono le morti felici? »
Rimango a di nuovo incapace di ribattere. « No. » Faccio una pausa. « Ma sono uno stupido anche io. » mi sfugge un risolino nervoso.
« Sai, c’è una ragazza a cui tengo tanto. Le ho regalato un braccialetto. »
« È un gesto carino. »
« In realtà se l’è preso da sola. » rido. « Ma non fa differenza, nella mia testa era il mio regalo. »
Ci sediamo finalmente sul letto, anche senza poterlo fare davvero, come se avesse un senso.
« La ragazza era piena di scheletri nell’armadio. Sai, quelle cose brutte. »
Mentre continuo a raccontare, rivedo l’ansa nascosta del lago, l’estate di qualche tempo prima.
« Ma che dolce, un pensiero davvero carino! » diceva in tono di scherno un ragazzo della mia età.
Era uno dei bulli del paese, nessuna novità.
Poi però ha sfilato il braccialetto dal polso di Giada e l’ha gettato nel lago. Lei non ha detto una parola. È sempre stata quella che sorrideva, quella che quando mi vedeva triste non mi chiedeva perché, ma tirava fuori dal cilindro un modo per alzarmi il morale, quella a cui piaceva rompere gli schemi e mettersi nei guai. E la mia amica. Quella volta l’avevo seguita e l’avevo trovata in compagnia di quei ragazzi. Loro le giravano attorno come avvoltoi e lei era spenta e inespressiva. E in quel momento, quando le hanno strappato il bracciale, era come se le avessero strappato tutto.
« Ops. Vedi, Leonardo, è scortese fare delle avance verso la donna d’altri. Credi? » ha continuato il teppista.
Io ero così arrabbiato e mi sentivo allo stesso tempo così impotente. Cinque figuri mi guardavano dall’alto al basso. Sono sempre stato così, chiuso nelle mie insicurezze. Se non facevo qualcosa in quel momento, sarebbe stato l’ennesimo rimorso che non se ne va. Uno pesante da digerire.
Non ho saputo dire nulla. Ho sfilato le scarpe, ho sputato a terra e mi sono tuffato. Il lago era limpido e non era così infossato in quel punto, ma neanche così basso. Ho smesso di pensare, di sentire gli schiamazzi degli altri, coperti dall’acqua. Volevo solo trovare quel braccialetto. Ho resistito fino a scoppiare, tastando sul fondo, nel punto in cui era caduto. Non volevo risalire a mani vuote. E l’ho trovato.
Ho teso la mano verso la superficie e ho spinto forte con le gambe per risalire. Il respiro mi mancava e il lago sembrava volermi giù con lui, ma passo dopo passo rompevo un muro d’acqua dietro l’altro e tornavo verso la luce.
« Non so cosa credessi di ottenere. Era chiaro che non me l’avrebbero fatta passare liscia. Giada non c’era più quando sono tornato verso riva, ma gli altri c’erano eccome. Il più grosso, a cui avevo sputato in faccia, ha estratto un coltello. Così, col sorriso beffardo, come se fosse stata una partita a un videogioco. Qualcuno alle sue spalle ha provato a dirgli di andarci piano o di non fare cazzate. Ma non c’è andato piano. » ho concluso. « Quel ragazzo ora non se la passa bene. »
Liliana ha fatto un respiro profondo. « E lei... »
« Non ha mai detto niente. Ma è chiaro che lo sa. Frustrante, sì, ma almeno dopo quell’episodio non l’hanno più cercata. E lei ha smesso di farsi del male, per qualche ragione. » mi alzo, sgranchendo le ossa per cercare di levarmi di dosso quella tremarella che mi è salita. « Comunque ormai lo sanno tutti. »
« Wow. » esordisce in risposta, senza poi sapere cosa aggiungere.
« Hai ragione. Mi ha fatto bene parlare. » dico, anche se con la voce tremula non sono molto convincente. « Ho capito una cosa. »
Liliana mi vede in moto e intuisce che sto per fare qualcosa. « Cosa? » chiede un po’ perplessa.
« Che non sono l’unico a sentirmi oppresso dalla morte. Nemmeno Salem è tutto bianco. Io l’ho visto, il nero che c’è in lui, ma non ho voluto crederci. Ognuno ha i suoi demoni. »
« Quindi? » incalza lei, a cui sembro sempre più criptico.
« Quindi basta. Sono stanco di darmi colpe e di avere paura. Voglio fare qualcosa di buono. Voglio dire “Ehi, vaffanculo. Non mi importa cosa sono diventato, voglio essere me stesso.” »
Prendo ancora la mano di Liliana e non la lascio. Ci muoviamo in alto, sopra il paese, sopra il lago. Giada è uscita sulla terrazza di casa sua con Marco. Sembra ancora che mi stia guardando, quassù.
Viene distratta da una goccia umida sulle labbra. Ma sorride: sono sicuro che questa volta era dolce.
« Marco, guarda! Nevica! » alza le mani al cielo per cogliere i fiocchi, gioiosa.
Marco non fa a tempo a rendersene conto che lei è già rientrata e sta correndo alla porta di casa. La segue fino all’uscio e poi la rincorre sul prato, gettandola a terra dove si rotolano assieme.
« È questo che voglio essere, Lilli. » mi rivolgo a Liliana. « L’acqua è un elemento bellissimo e si può giocare così tanto con tutte le sue forme. È vita, è la sensazione che ti scorre addosso quando fai una doccia per lavare via le incertezze, quella che ti rianima dopo la fatica e che ti rinfresca quando il caldo è troppo intenso. Tutte queste cose possono fare parte di me. Soprattutto ora che ho capito di non essere da solo qui. » Le sorrido. « “Insieme”, non è una parola scontata. Godiamoci il nostro tramonto finché non sarà tempo per la nostra notte di scendere e a quel punto, ci accoglierà con i sogni più lieti. »
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