[One Shot] A Love Story.

Rust

Sovietico di PCF
Ci ho messo dei giorni a scrivere questa One Shot, spero la leggiate in tanti e commentiate come si deve. 

Dunque vi lascio alla lettura. 


A LOVE STORY

“Rosamund. Rosamund. Rosamund”

Penso al mio nome, lo ripeto per distrarmi. La stanza bianca, tre uomini che mi guardano, con quelle mascherine bianche, io legata a quel letto gelido, ma mi piace sentire questa sensazione, me la devo godere, perché sarà l’ultima della mia vita. A quanto pare me lo merito. 

Ero ad una festa, avevo bevuto. Non molto, ma avevo bevuto. Tre giorni dopo avrei compiuto 29 anni e non ero ancora sposata ne fidanzata, ma poco m’importava. Avevo un buon lavoro, dei genitori che mi sostenevano e volevano bene. Fu lì che mi si avvicinò Ben. Corporatura robusta, capelli corti e neri e due irresistibili fossette sulle guance. Mi abbordò con una frase gentile, pacata, anche un po’ dolce. Insomma, il ragazzo ci sapeva fare. Il feeling c’era, lui era solo un panettiere, usciva da una storia di cinque anni, con una donna che si chiamava Felicity. Una volta vidi anche una sua foto, bellissima ragazza. Capelli castani, occhi azzurri e labbra carnose. In pochi minuti mi ritrovai a bere un altro bicchiere di vino. Forse il terzo, magari il quarto, poco importava, ero incredibilmente ubriaca di lui. Gli detti il mio numero e me ne tornai a casa. 

“Ben. Ben. Ben”
Penso al mio nome, mentre salgo le scale che portano… Che portano?
Non lo so dove portano. Sono scale lunghissime e in fondo vedo solo una luce. Penso a Rosamund e al nostro primo incontro.
Mi ero lasciato con Felicity  e per tre mesi non avevo partecipato a feste o a eventi. Lei era una bravissima ragazza, indipendente, spiritosa. Mea Culpa se la persi, fu un pomeriggio e non ricordo neanche per quale assurda lite, ma le tirai uno schiaffo.
Il giorno dopo non la vidi a casa e mandò la madre a prendere le sue cose. Non la vidi mai più.
Dunque dopo tre mesi partecipai alla prima festa e lì conobbi Rosamund.
Bionda, sguardo magnetico e occhi di un nero penetrante, alta e bella. Andai a parlarle e le dissi una frase. Ricordo che non scelsi di dirle una frase fatta. Le dissi qualche sciocchezza non banale, si vedeva che era una ragazza da stupire e credo ci rimase stupita, perché mi diede il suo numero.
Qualche giorno dopo la chiamai e dopo una serie di uscite ci fidanzammo. E dopo poco tempo ci sposammo anche.


Le nozze.
È stato il giorno più bello della mia vita. Erano tutti presenti e finalmente potevo dimostrare al mondo di essere sposata, di essere qualcuno. Ero bellissima quel giorno, mi sentivo una principessa. Capelli raccolti in una coda, niente velo, vestito semplice scollato e uno chignon di tulipani azzurri.  Tutte le mie amiche m’invidiavano e io godevo nel vederle rosicare. 


Stavo per sposare l’uomo perfetto. Di una simpatia e bellezza unica!
Il buffet era ricco di cose buone. Ho adorato come i tavoli fossero decorati con rose rosse. Il fiore dell’amore. Vedevo mio marito Ben divertirsi con i suoi amici e io con un bicchiere di champagne in mano, dall’alto della mia sedia guardavo gli invitati crogiolarsi nel miglior giorno di qualcun altro.
In quel momento arrivò la torta e io sorrisi, perché era bellissima. Due piani, totalmente bianca e due cigni in un laghetto azzurro sulla cima.
Dopo il matrimonio, la prima notte di nozze. Con tanto di sesso non protetto.


Il Matrimonio

Un giorno normale. Lei era entusiasta. Io mi sentivo normale e sinceramente volevo che la giornata passasse in fretta, non mi piacevano tutti quegli occhi puntati sopra di me, quasi a ricordarmi che avrei passato il resto della mia vita con la stessa donna. La stessa donna. È vero, l’amavo e non avrei scelto nessun altra con cui finire i miei giorni, però questo pensiero mi martellava la testa. Il buffet faceva schifo, pieno di porcherie che non piacciono a nessuno, per non parlare dei tavoli, pieni di rose rosse, non potevo neanche muovermi senza toccare una di quelle stupide rose. Per fortuna c’erano i miei amici, che sono riusciti a farmi sorridere per tutta la serata.
La torta era orrenda. Su tutte le torte ci sono degli sposini mentre sulla nostra due cigni. Mi chiedo ancora il perchè. Grazie a dio, dopo l’inferno, la parte migliore: il sesso. Tanto e per la prima volta non protetto. Nove mesi dopo nacque Atticus, il nostro unico figlio.


Il Giorno che…
Atticus era a scuola, il giorno prima aveva compiuto sette anni e Ben, come al solito, anche durante il giorno speciale di nostro figlio, mi aveva picchiata.
Segni e lividi sopratutto sulle braccia e quando tutti uscirono di casa, rimasi da sola con me stessa, nuda di fronte allo specchio a guardare i segni che mi aveva inflitto mio marito. Misi l’acqua per un bagno e ci entrai. Mi guardavo intorno e pensavo a quanto fosse bello il bagno. Totalmente bianco e la vasca da bagno era posizionata su una specie di gazebo, con due colonne e quattro finestre intorno. Adoravo quel bagno e mi addormentai all’interno della vasca.
Quando riaprii gli occhi c’era Ben che mi gridava contro per una causa che non ricordo e mi tirò forte uno schiaffo. Poi se ne andò. Mi sentivo male a essere picchiata ogni giorno da lui. Prima o poi mi avrebbe uccisa e dovevo reagire. Come aveva reagito Felicity dovevo farlo anche io. Nuda uscii dalla vasca, Ben aveva acceso la tv e la stava guardando. C’era Good Morning America e ospite un regista che parlava in modo strano David Fin…qualcosa.
Senza perdere tempo presi un taglierino e mi avvicinavo sempre di più a lui. Tremando e piangendo. Da dietro le sue spalle, sgozzai a sangue freddo mio marito. Ero piena di sangue e non credevo a ciò che avevo fatto. Ma non credevo neanche di ritrovare dietro di me Atticus, che aveva visto tutto.
Cosa prova un figlio che vede la madre completamente nuda, piena di sangue del marito, morto sgozzato sul pavimento? Non so rispondere a questa domanda. Ma so solo dirvi che una madre che dopo tutto questo si ritrova il figlio dietro, prova oppressione, panico, voglia di ammazzarsi.
Ma anche voglia di non ammazzarsi. E così si scaraventa sul figlio e fa fuori anche lui.

 

Quella volta che sono morto.
Penso a quella volta che sono morto. Ero uscito la mattina, lasciando mio figlio a scuola e Rosamund a casa. Lavorai tutto il giorno, mi vidi anche con Emily, la mia fidanzata e andammo in un hotel. Mi stavo godendo in pieno la vita. Come immaginavo però, non mi riuscì di essere fedele a mia moglie, che tra l’altro odiavo già abbastanza. Quella mattina dovetti tornare a casa, dato che mio figlio tornava prima da scuola e Rosamund non ne sapeva niente. Lei per l’ennesima volta, mi fece arrabbiare. La sgridai per bene mentre si faceva un bagno e serenamente, dato che avevo svolto il mio compito di marito, mi misi a guardare la televisione.
Poi, lì sono morto. Non so perché. So solo che sono morto e mi ritrovo a salire queste scale che portano alla luce. Mi guardo a sinistra e con grande sorpresa vedo Atticus che mi fa un sorriso a cento denti. Così mi giro a destra ma con grande sorpresa, Rosamund non c’è.
Le scale finiscono e mi ritrovo di fronte a un cancello Sembra Buckingham Palace, ma non lo è. È qualcosa di più grande. Intorno a me è tutto arancione. Tranne il cancello.
Faccio per aprire il cancello, ma con mia grande sorpresa, non si apre. Sento una voce che mi sussurra una parola: Peccatore.
Di istinto prendo le scale che portano giù non senza prima girarmi e vedere mio figlio Atticus che varca saltellando i cancelli del Paradiso.


Ultimo Atto.
La polizia aveva infilato in dei sacchi neri i corpi di mio marito e mio figlio. Mi aveva fatta coprire e poi mi aveva arrestato. Ero sotto shock e avevo deciso di non parlare, non parlare mai più. Guardavo nel vuoto e ripensavo a questi ultimi anni, con che disagio interiori gli avessi vissuti. 


Al processo, il giudice era un uomo. Pensai a che sfortuna, magari mi fosse capitata una donna, lesbica, femminista che avrebbe capito la mia situazione, con un marito violento.
Non fu così. Il giudice mi condannò a morte.
Venni etichettata come serial killer. I miei capelli ogni giorno diventavano sempre più bianchi e in carcere non mi feci neanche un’amica. Guardavo sempre nel vuoto mentre passavano i mesi aspettando la fine. E fu così che arrivò Marzo. Mi prelevarono dalla cella e mi portarono nella tanto attesa stanza della morte. Ed eccomi qui, che mi ritrovo legata ad un lettino, con tre uomini e delle mascherine intorno, che avverto il freddo gelido del letto.
Mi iniettano qualcosa e provo un dolore fortissimo in tutto il corpo. La mia attenzione è però catturata da un qualcosa, un elemento di quella stanza totalmente vuota e arredata con niente. Un orologio. A cosa serve un orologio in una stanza della morte?
Ci penso e ci ripenso e i minuti che precedono la mia morte passano. I minuti che precedono la mia morte passano. I minuti che precedono la mia morte passano.
E l’arcano si risolve. L’orologio serve a contare in quanti minuti una persona muore.
Tic, Tac. 


Di Rust. 
 

Shadow Wind

......
Adesso non ho tempo di spendere molte parole, ma devo dirti che è un racconto splendido (se si puó aggettivarlo così, considerando la tematica), scritto con uno stile veramente pulito e comprensibile senza essere inutilmente lineare. Il soggetto è attuale. Complimenti.
 

Rust

Sovietico di PCF
Adesso non ho tempo di spendere molte parole, ma devo dirti che è un racconto splendido (se si puó aggettivarlo così, considerando la tematica), scritto con uno stile veramente pulito e comprensibile senza essere inutilmente lineare. Il soggetto è attuale. Complimenti.
Grazie, lo apprezzo molto :)
 
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