Fic Challenge 2011 - Racconti

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In questo topic sono pubblicate le fic dei 6 partecipanti alla Challenge di quest'anno. In cima ad ogni messaggio troverete una versione scaricabile (formato .pdf) che potrete leggere comodamente anche offline.

Per i commenti e la discussione dei racconti siete pregati di andare sul topic apposito.

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Luce Cupa

di AlucarDD

Sedeva alla finestra osservando la sera invadere il viale. Per Daria stava iniziando un'altra serata pesante.

Aveva un figlio il cui nome era Giacomo. Chiamarlo figlio normale sarebbe stato esagerato. Egli era afflitto da una malattia particolare, diciamo più una fobia: la paura del buio. Ma non era un neonato, nè un bambino... bensì un ragazzo di 20 anni. Ogni volta che la madre spegneva qualche luce lui si metteva ad urlare, a muoversi come un demone da esorcizzare.

Daria era disperata: non aveva un lavoro, non era sposata (il precedente marito aveva abbandonato la famiglia qualche anno prima), non aveva amici cari e doveva sempre pagare ogni mese bollette salatissime di luce elettrica per illuminare la casa anche di notte, per evitare che il figlio potesse scoppiare in una crisi: ormai era sull'orlo di crollare dallo stress.

Giacomo comunque era un genio. Egli era l'unica fonte di denaro della famiglia poichè guadagnava impaginando siti web alla gente a poco prezzo. Lavorava di notte disturbando la madre che tentava sempre di riposare e di giorno facendo una pausa di quattro ore nelle quali dormiva come un sasso.

Varie volte la madre è andata dai dottori per capire quale fosse la causa della sua fobia, ma aveva ricevuto sempre una risposta del genere: "Vostro figlio è molto legato al computer e forse ha attribuito il buio ai Blackout che, durante il giorno, possono colpire la città e magari cancellargli i dati dei lavori." Per risolvere la questione aveva anche provato ad acquistargli un computer portatile, ma i risultati non erano cambiati: ogni volta che veniva un blackout lui continuava ad agitarsi, ad avere crisi ed a sfogarsi piangendo e rinchiudendosi in se stesso.

L'ultima volta che ce n'era stato uno aveva giurato che alla prossima mancanza di luce si sarebbe suicidato.

Al ragazzo non riconoscevano l'invalidità 100% e quindi la madre non aveva neanche i soldi aggiuntivi a fine mese. Arrancava facendo lavorare il figlio: non poteva continuare così.




Un giorno comparve dal viale un uomo alto e moro dai caratteri spagnoli che si diresse verso la casa. Bussò. Stupita, Daria aprì la porta e accolse l'uomo che avrebbe cambiato la sua vita. Era un ragazzo che lavorava come rappresentante alla società di finanziamenti "Dreams for you and your Family", aperta da poco. La madre chiese subito un prestito per lei e suo figlio, magari per traslocare da qualche altra parte e fare nuove amicizie o trovare un lavoro. Roberto, il rappresentante, diede loro dei soldi.




Passarono i mesi e la famiglia si era stabilizzata. Lei aveva trovato un lavoro e il figlio continuava a fare siti web per la gente. Avevano anche traslocato ed ora la camera da letto dove dormiva la madre era attaccata a quella di Giacomo tramite una finestrella che serviva a comunicare. La fobia del buio rimaneva, comunque, in fondo al suo animo. Roberto tornò a trovarli per esigere la somma prestata, ma Daria non era in grado di ridarla nonostante avesse trovato un impiego temporaneo... quindi per tappare il buco aveva bisogno di inventarsi qualcosa.

La sera Roberto giunse nella casa che, secondo lui, era un po' strana poichè le luci erano tutte accese. Suonò il campanello e si ritrovò Daria sulla porta, pronta per fare sesso. Si diressero insieme nella camera da letto. La povera madre era costretta a farlo perchè altrimenti non avrebbe avuto vita facile. Si tolsero i vestiti, li buttarono sulla sedia e prepararono il letto. Ella si ripeteva fra sè: "Lo faccio per mio figlio, lo faccio solo per mio figlio!".




Si iniziarono a corteggiare, si buttarono sotto le coperte e spensero la luce.

 
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Temno

di Quello_nello_Specchio

Il sole era al tramonto. I suoi tiepidi raggi si stagliavano contro i corpi dei due uomini proiettando, sulla superficie dell'imbarcazione, l’ombra del loro viaggio. Erano curvi, mesti e taciturni ormai da parecchie ore, il silenzio si era insediato dentro di essi: lo sentivano sotto la lingua quando deglutivano, lo percepivano dentro le narici quando inspiravano e lo cullavano nelle vene ad ogni pulsazione. Nessuno dei due si sentiva tanto coraggioso, o forse sciocco, da destare il silenzio dal proprio riposo e rigettarlo in mezzo a loro; tanto erano immersi nel fluire del tempo e dell’acqua che gli era impossibile non considerare tale gesto come un atto di impudenza, una mancanza di rispetto per ciò che naturalmente non può essere altrimenti.

La primavera era già iniziata da qualche settimana ed i primi fiori non tardavano a sottolinearlo, tuttavia ciò non impediva al respiro di manifestarsi ciclicamente sottoforma di caldo fantasma del battito del cuore. Complice il sopraggiungere delle tenebre, si strinsero sempre più nelle loro giubbe di montone, e fu proprio questo movimento istintivo delle braccia che fece ripiegare su sé stessa la tasca di una delle giacche; da questa capitolò fuori una piccola scatola di latta con i bordi arrugginiti che, cadendo fragorosamente in terra, face definitivamente evaporare l’alone del silenzio.

L’aria si accese all’improvviso:

«Fai attenzione, compagno Radčenko.»

«Già, già.» Sbuffò ostentatamente mentre egli rimetteva frettolosamente in tasca il contenitore.

«Ah! Ma io conosco quel portagioie.» Insistette. «Te lo regalò il compagno Borodjuk, giusto, compagno Radčenko?»

«Già, già.»

E non disse altro.

«Suo padre vendeva parecchie di queste scatoline, nel paese, giù per la collina.»

«Ti sbagli compagno Salenko, la merceria del padre del compagno Borodjuk si trovava sopra la collina del Surgut.» Aggiunse con sorprendente rapidità. «Ne sono sicuro perché io stesso abitavo poco più sotto. Conosco quella zona.»

Radčenko, senza scomporsi, spiegò all’amico: «La mia casa si trovava più in alto della collina del Surgut, ad un tiro si schiocco dalla frontiera con Neftejugansk; e la segheria dove passavo le mie giornate era addirittura oltre il bosco di Nižnevartovsk. Per questo motivo, compagno Radčenko, ho detto che la merceria del padre del compagno Borodjuk si trovava in basso, giù per la collina.»

«Già, già.» Le sopracciglia corrugate guardavano minacciose attraverso la nebbia in sospensione proveniente dal fiume che li avvolgeva. «Già, già, compagno Salenko. Ricordo bene dove abitavi e dove lavoravi. Ma questo non cambia il fatto che ogni mattina, dalla mansarda dove riposavano i miei pochi stracci, ogni volta che aprivo le imposte della finestrella rotonda e miravo in alto il cielo per sapere se fosse l’inizio di una buona od una cattiva giornata; ebbene, ogni giorno, la merceria del padre del compagno Borodjuk, era lì, in alto, sopra la collina, con il suo comignolo appuntito da cui usciva sempre un filo di cenere, e svettava indisturbata tra le altre botteghe del popolo.»

Pronunciò le ultime parole con l’enfasi tipica di chi vuole chiudere un discorso, senza replica.

«Compagno Radčenko, ma secondo te, il padre del compagno Borodjuk era convinto di abitare sopra o sotto la collina?»

«Tu e le tue domande, compagno Salenko. Tu e le tue domande!» era talmente furibondo che si mise in bocca una sigaretta ma non la accese.

Le tenebre erano ormai scese sulle loro sagome, coprendole interamente. Gli effluvi delle acque attorno a loro, in movimento immobile, si mischiavano con la nebbia del tramonto rendendo l’aria quasi un mezzo tangibile attraverso cui farsi spazio.

Una debole fiammella fluttuò davanti al viso del compagno Oleg Anatolyevič Radčenko ed egli vi avvicinò il viso fino a quando il bagliore non si trasformò in una piccola nuvola di fumo nero, confondendosi con i vapori del fiume.

«Non te la sarai mica presa, compagno Radčenko?», chiese con falsa timidezza il compagno Salenko gettando il fiammifero spento oltre il bordo dell’imbarcazione.

Non ottenne risposta, ma ciò non lo scoraggiò.

«Ricordi la prima volta che siamo andati a giocare alla vecchia segheria? Me lo sentivo che avrei fatto grandi cose in quel posto.»

«Già, già.» Sentenziò di rimando. «Grandi cose, come arrampicarti su quel grosso pino senza riuscire a scendere.»

«Ti confondi, compagno Radčenko. Era il compagno Onopko che salì ma non riuscì più a scendere.»

«Già, già.» Così disse, e fu felice che il buio fosse lì a nascondere la sorpresa di quell’attimo di tristezza.

«Mi arrampicai per gioco sui primi rami.» Continuò con la testa affacciata ai ricordi. «Ero così felice lì sopra, svettavo sopra le vostre teste .Nessuno era alla mia altezza. Credo che, preso dalla foga, staccai qualche pigna per lanciarvela addosso.»

«Già, già. Sei sempre stato un maestro di simpatia, compagno Salenko.»

«Eravamo bambini. Comunque – non interrompermi compagno Radčenko, altrimenti perdo il filo del discorso – fu in quel momento che il compagno Onopko raccolse una delle pigne che vi avevo tirato e la lanciò verso di me. Io ovviamente la evitai e... »

«Non l’hai evitata.»

«Come dici?»

«Dico che non l’hai evitata, compagno Salenko. Dico che il compagno Onopko ti centrò in piena faccia e tu per tutta risposta scappasti, rifugiandoti nei rami più alti. Ecco cosa dico.»

«Non ricordavo tutti questi dettagli. Mi sorprendi, compagno Radčenko.»

«Già, già.» un impercettibile ghigno di soddisfazione restò invisibile nella notte.

«Ad ogni modo, il compagno Onopko iniziò ad arrampicasi sull’albero con l’intento di raggiungermi, ma senza cattiveria. Di questo son sicuro. Era solo il fuoco dell’infanzia che rende ogni gioco una sfida che non può esser persa. Ovviamene io non rimasi fermo ad aspettarlo, ma iniziai a scalare il pino. Di ramo in ramo. Sentivo l’aria farsi più fresca, l’odore della resina farsi più intenso e la fatica diventare solida come un macigno. Ma continuavo a salire. Fino a quando sentii un ramo cedere, era…»

«Era il ramo che aveva usato come appoggio il compagno Onopko prima di restare bloccato.»

«Insomma, compagno Radčenko, ti ho chiesto di non interrompermi!»

«Già, già.»

«Dicevo…»

«Dicevi che il compagno Onopko era bloccato su un ramo mentre tu continuavi a scappare saltellando come uno scoiattolo. Ah, compagno Salenko, quanto sembravi buffo visto dal basso!»

«Insomma, sto cercando di rimettere insieme i ricordi. Così non mi aiuti, compagno Radčenko.»

«Io ricordo benissimo come si sono svolti i fatti. Il compagno Onopko era bloccato su un ramo, tu, compagno Salenko, sembravi uno stambecco che scalava una montagna e noi, in basso, guardavamo la scena con le lacrime agli occhi.» Ora sembrava quasi divertito.

«Ti vedo molto preso dal racconto, compagno Radčenko.»

«Già, già, compagno Salenko. Quel giorno piansi dal ridere.» Ed era vero. «Però una cosa te la concedo. Non mi sovviene come riuscì a togliersi da quell’impiccio ed a scendere dall’albero.»

Il compagno Dmitrij Leonidovič Salenko ebbe un attimo di smarrimento. Neanche lui rammentava la modalità del salvataggio, il punto chiave del racconto.

«Ho un vuoto, compagno Radčenko. Non ricordo proprio.»

«Già, già.» fece un inutile cenno di intesa col capo ed il discorso terminò così.

Adesso iniziava a fare decisamente fresco. Da quando erano salpati da Chanty-Mansijk, avevano percorso diversi chilometri e superato diverse città. Erano passati sotto il nuovo ponte di Novosibirsk, avevano scorto in lontananza le miniere di carbone della piccola Megion, ed avevano superato da poco i territori di Nižnevartovsk.

«Ci vorranno ancora due ore prima di vedere le luci di Surgut» disse Dmitrij.

«Già, già» rispose laconico Oleg.

«Riposa pure un po’, ci penserò io alla navigazione.»

«Sei sicuro, compagno Salenko?» chiese senza alcun desiderio di vedere negata la suo domanda.

«Sì, sì, compagno Radčenko. Dormi orsù, prima che cambi idea.»

Non se lo fece ripetere, alzò il colletto, abbasso il berretto e salutò l’amico.

«Allora buonanotte, compagno Salenko.»

«Buonanotte. Ti sveglierò io.»

Le fredde acqua del fiume ‘Ob spingevano con cautela l’imbarcazione tra i miasmi vaporosi. L’estate era ancora lontana, ma i primi scampoli di primavera riscaldavano sufficientemente la notte. Tuttavia, un brivido freddo si insinuò attraversò le ossa del compagno Salenko ed egli non poté fare a meno di rabbrividire per un lungo attimo e serrare istintivamente i denti. Da una tasca interna della giubbotto trasse fuori una vecchia foto ingiallita e la guardò. Cristalli di acqua si condensarono ai lati degli occhi, ma non una singola lacrima bagnò le sue gote rugose. Accarezzò la foto e la rimise al caldo. Gettò un occhio al compagno addormentato e tornò attento a scrutare oltre la prua della barca. Nonostante la pesante copertura e la massiccia barba, rivedeva chiaramente in lui i lineamenti dell’amico d’infanzia. Lo stesso naso invadente, le stesse sopracciglia cattive e lo stesso labbro sporgente da cane insicuro. Era contento che avesse accettato di venire con lui in quest’ultimo viaggio in compagnia del loro comune amico e fratello.

Un sorriso asciutto lo sorprese nella semi-oscurità in cui era immerso. Tese una mano verso una sacca posta ai suoi piedi e si mise alla ricerca di qualcosa.

«Liquirizia» bisbigliò da solo, in piedi, il compagno Salenko. «Abbiamo convinto il compagno Onopko a scendere da quel ramo offrendogli della liquirizia.» Adesso rideva nervosamente, tanto da svegliare il compagno Radčenko.

«Che diavolo ti è preso, compagno Salenko? Sei stato ammaliato da una sirena proprio in mezzo all’Ob?»

«La liquirizia, compagno Radčenko, la liquirizia!» rispose allegramente Dmitrij. «No, lascia stare. Non è niente. Torna pure a riposare gli occhi, ché siamo vicini. Dormi, non ti curare di me.»

«Già, già. è il consiglio più saggio che tu potessi darmi, compagno Salenko.»

E detto questo, richiuse gli occhi con fare solenne.

«Già, compagno Radčenko. Già.»

In lontananza si intravedeva già il ponte di Okrug; prese una caramella all’anice e fischiettò melanconicamente un motivetto dei tempi passati.
 
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Scared!!

di Biaf

Il sole era al tramonto. Un dolce venticello le accarezzava il viso e le muoveva con leggerezza i lunghi capelli biondi. I suoi occhi azzurri si perdevano sul mare, calmo e magnifico, con quelle piccole onde che con i loro rumori parevano produrre una melodia armoniosa e distaccata dal fremito che lei aveva dentro. Lui era in ritardo e lei non ne poteva più di aspettare: voleva vederlo, voleva finalmente vivere quell'appuntamento che attendeva da anni con lui. Proprio lui le aveva chiesto di uscire e ora si azzardava anche a tardare, lei pensò che avrebbe dovuto avere una buona ragione per un ritardo di venti minuti netti. In qualunque caso lei lo rimase ad aspettare e sarebbe rimasta per altri quaranta minuti.

Improvvisamente il suo sguardo venne attirato da una chiazza scura nel mare. La grande chiazza si avvicinava costantemente verso la riva. La ragazza cominciò ad allarmarsi e fece due passi indietro, rischiando anche di inciampare. Fu in quel momento che lo vide uscire dall'acqua: un essere verde e tozzo, totalmente coperto di alghe, ma anche se coperti, si scorgevano molto chiaramente i suoi occhi rossi. Il mostro si stava incamminando verso la fanciulla, puntando le sue braccia verso essa.

“GROAAAAAAAAAAAAAARRRRR!!!” urlò il mostro minaccioso e in risposta la ragazza gridò di paura e tentò la fuga, ma una fune si alzò dalla sabbia e la fece cadere. La ragazza vide che la corda era stata legata precedentemente alla banchina del porto, l'altra estremità si trovava in mano all'essere. Sembrava avesse anche calcolato l'angolo esatto in cui la ragazza si sarebbe voltata per fuggire, ma la cosa non pareva molto complessa, dato che vi era una sola scalinata per tornare in paese.

La ragazza ora guardava il mostro dritto negli occhi, paralizzata dal terrore.

“Yahaha!”

Si sentì una risata balorda, ma non si capiva da dove arrivasse poiché era soffocata.

“Yahahahahahahahaha!”

Di nuovo quella risata, che nonostante tutto la ragazza credeva di aver già sentito da qualche parte.

“SCARED!!!! YAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHA!!!”

Ora ne era sicura: era proprio quella risata!

L'essere si portò le mani alla testa e la staccò, rivelando che in realtà quella era una maschera di plastica, coperta di alghe per farla sembrare realistica. Sotto la maschera vi era il viso di un ragazzino di quattordici anni circa, un tipico viso da birbantello, con i capelli rasati a due millimetri, gli occhi neri, un naso leggermente largo e le orecchie a sventola.

“Mi stavi aspettando, Shyla?” se la rise nuovamente il ragazzo.

La ragazza si rialzò in lacrime e con una nota d'ira nei suoi occhi.

“G-Gordon...” balbettò Shyla. “P-perché l'hai fatto?”

“Eh dai! Lo sai che è questa la mia vera passione!” rispose Gordon con un sorriso che si dilungava per tutto il viso. “Avresti dovuto immaginarlo, dato che ti piaccio, no? Yahaha!!!”

“Dunque hai giocato solo con i miei sentimenti... tutto quello che mi hai detto non era vero?” chiese la ragazza viola in volto.

“Ovviamente!” rispose con naturalezza il ragazzo. “Sai, quando è possibile spaventare con stile io lo faccio. Non mi accontento sempre di un BU! da dietro al muro. Quando si presenta l'occasione io pianifico lo spavento perfetto. Non sai quanto ho gioito nel sapere che ti piaccio: era il movente perfetto per trascinarti nelle fauci della paura, non potevo non approfittare di questo, non potevo non giocare su questa tua condizione mentale e sentimentale. Ora sono davvero soddisfatto: sono riuscito a spaventare tutta la classe, il tuo nome verrà eliminato dalla lista! Yahahahahaha!!!”

Shyla nel frattempo si era avvicinata a Gordon e quando egli finì il suo discorso vittorioso e delirante le rifilò un ceffone il cui eco risuonò per tutta la spiaggia verso il mare infinito. Ma a quanto pare non era soddisfatta: cominciò a picchiarlo con tutte le sue forze e smise solo quando le braccia le dolevano dalla fatica e se ne andò lasciando lì Gordon, disteso e dolorante, che ancora, nonostante le botte ricevute, se la rideva.

******



Il giorno dopo, quando arrivò a scuola, Gordon scoprì che la notizia era già trapelata e fu vittima degli sguardi glaciali di tutte le ragazze e anche di qualche ragazzo che non apprezza i suoi continui tentativi di spaventare il mondo, senza un apparente motivo per di più. Però, il ragazzo, aveva anche una ristretta cerchia di fan, che anche essi furono spaventati a loro tempo, ma la presero con filosofia e si facevano grandi risate ogni qualvolta Gordon riusciva a far sobbalzare qualcuno con uno dei suoi trucchi non sempre banali.

Shyla quando lo vide arrivare voltò lo sguardo e al ragazzo parve di vedere qualche lacrima rigarle il viso dunque non andò a prenderla in giro per evitare di essere picchiato ancora e soprattutto perché, oltre ai vari spaventi, non gli piaceva discutere e litigare con gli altri.

In classe vi era il solito chiacchiericcio che prendeva vita la mattina prima dell'inizio delle lezioni e come al solito si scherzava fra compagni, talvolta esagerando con le mani. Improvvisamente il turbinio si stoppò e gli sguardi di tutti vennero attirati da una presenza che aveva appena attraversata la porta.

“Salve.” disse un ragazzo alto e con i capelli neri e lunghi fino alle spalle, un po arruffati sulla fronte giusto per far intravedere un paio di occhiali rettangolari. Portava un particolare foulard arancione con dei ghirigori rossi e aveva uno spesso orologio nero al polso sinistro.

“Mi sa che hai sbagliato classe...” disse qualcuno.

Il ragazzo estrasse un biglietto e lesse ad alta voce: “Classe terza, sezione B; mi pare sia questa, no?”.

“Sì, è questa. Ma tu chi sei?”

“Mi chiamo Kevin McKinnon e, a quanto pare, sarò il vostro nuovo compagno di classe. Tanto piacere!” sorrise il ragazzo.

“Naaah!” giunse un lamento dal fondo. Era Gordon. “Cavolo! Ora che avevo finito di spaventare tutta la classe ne arriva uno nuovo?”

“E che ci vuoi fare?” disse Shyla. “Si vede che il destino non vuole dartela vinta!”

“Stai zitta, Amante Delle Alghe! Yahaha!” disse Gordon e lei si rintanò nuovamente nel suo angolo.

“Che intendi con spaventare tutta la classe?” chiese Kevin curioso.

“Oh, in pratica... Io sono il Re degli Spaventi e sono riuscito a spaventare tutte le persone che ho conosciuto fino ad ora. Avevo appena finito di spaventare tutta la classe, ma a quanto pare dovrò riaprire la lista e mettere il tuo nome.” spiegò con fare megalomane Gordon. “Aspettati un infarto!” concluse sogghignando.

“Hahahahahahahahaha!!!” rise Kevin sorprendendo tutti, non sembrava un gran burlone!

“Che ti ridi?” domandò Gordon aggrottando le sopracciglia.

“Sei un tipo buffo, ma soprattutto, sfortunato!” rispose il nuovo compagno.

“E perché sarei sfortunato?”

“Perché non riuscirai a completare la tua lista, dato che io non sono spaventabile!”

“Non sei spaventabile? Ma che ti inventi?”

“Vedi, io non ho paura di nulla. Niente mi fa sobbalzare, niente mi fa venire i brividi, niente mi fa paura!”

“Sì, certo. Dicono tutti così.” disse scettico Gordon. “Non lo sai che tutti hanno una fobia? Tutti sono costretti ad avere paura di qualcosa, è una legge astrale!”

“Astrale?”

“Beh, sì, diciamo che è stata scritta da qualcosa o qualcuno più in alto di noi.”

“Ripeto: sei proprio buffo!”

“Ripeto: aspettati un infarto!”

“Sono proprio curioso di vedere come farai a mettermi paura, non che ci riuscirai ovviamente!”

“Cos'è, una sfida?” chiese Gordon eccitato come mai prima di allora.

“Sì!” rispose secco Kevin.

“Challenge accepted!” esclamò il Re degli Spaventi puntando il pugno destro contro quello che, di sicuro, sarebbe diventato il suo più acerrimo rivale.

******



Quella sera Gordon, rinchiuso in camera sua, cominciò a pensare ad un metodo per spaventare Kevin. Non voleva fare qualcosa di semplice, voleva che un arrogante di quel livello fosse punito in grande stile.

Prese carta e penna e cominciò a disegnare un piano che andava, secondo dopo secondo, arricchendosi di nuovi dettagli. Stette sveglio tutta la notte per decidere cosa tenere e cosa eliminare e quel giorno saltò la scuola per procurarsi il materiale che gli necessitava.

Gordon aveva già deciso quando dar vita al suo tentativo: la proiezione di un film durante l'ora di storia nell'aula video, che sarebbe avvenuta tre giorni dopo. Il ragazzo pensò che fosse meglio intrufolarsi solo la sera prima a scuola per preparare il tutto e fare le prove generali. Per lui addentrarsi di nascosto a scuola era semplice, lo aveva già fatto diverse volte e anche con carichi pesanti: non rischiava di esser visto.

Nei giorni seguenti, in classe, Gordon rispondeva ai provocatori “Allora, non mi spaventi?” di Kevin con un semplice “Vedrai presto!”, però dando l'impressione di non aver alcun piano in mente. Con questa finta insicurezza che mostrava, una buona fetta della classe sperava che Kevin gli stesse dando per davvero una gatta da pelare e si schierò dalla parte del nuovo arrivato, vedendolo come un uomo destinato a diventare eroe. Ma Gordon se la rideva e non poco: immaginava già tutta la classe spaurita da ciò che aveva premeditato, difatti sarebbero stati tutti coinvolti, poiché il Re degli Spaventi aveva già previsto da che parte si sarebbero schierati, dunque li avrebbe zittiti tutti.

La sera della vigilia Gordon si introdusse nell'edificio scolastico, carico di tre grandi sacchi neri, senza alcuna difficoltà e sistemò ogni singolo pezzo nella posizione adatta e non se ne andò fino a quando non verificò per tre volte che tutto funzionasse correttamente, dopodiché torno a casa e si addormentò respirando già l'aria della vittoria.

La mattina Gordon arrivò a scuola con uno sguardo che non nascondeva la sua soddisfazione per il lavoro svolto la sera precedente e la classe si accorse di quel suo viso fin troppo rallegrato, ma nessuno immaginava quello che stava per accadere, anzi molti sostennero che il giorno prima o la mattina stessa avesse spaventato qualcun altro e che fosse stato contento per quello.

Kevin, dal canto suo, non ci fece caso e seguì le lezioni come suo solito senza dare ascolto alle voci degli altri.

Dopo tre ore d'ansia, arrivò il turno di storia. La classe si diresse verso l'aula video e ognuno si sedette al suo posto. I posti erano stati già predefiniti dall'insegnante e questo fu un grande aiuto per la realizzazione del piano di Gordon, che si sedette in prima fila nel posto all'estrema sinistra. Guardò indietro e vide Kevin giusto al centro, il posto ideale per mostrare a tutti la sua faccia impaurita.

Gordon, a circa un quarto della proiezione, quando tutti erano concentrati sul film, fece scattare il suo meccanismo: prese di nascosto due radiocomandi e fece partire due macchinine radiocomandate, poste la notte prima in posizione speculare e nascoste accuratamente. Le macchinine erano adornate in cima da due spesse lame e andarono a scontrarsi nello stesso momento sullo stesso punto del filo della spina ed andarono a tagliarla, facendo spegnere la televisione e lasciando la stanza al buio. Questo era il punto più delicato del piano: bisognava usare i telecomandi con lo stesso tempismo per garantire un taglio netto, oltretutto le macchinine facevano, anche se piccolo, un rumore meccanico che venne coperto come previsto dalle urla di un film di guerra.

Una volta al buio, prima che la classe si rendesse conto di quel che avvenne, Gordon si alzò e tirò un filo di diamante, usato per la pesca, che aveva attaccato proprio lì vicino, andando a sciogliere i nodi di alcuni sacchi incollati pesantemente al soffitto e in precedenza dipinti del colore dello stesso, in modo da dargli un minimo di mimesi. I nodi erano tenuti stretti dal filo di diamante tramite un complesso meccanismo che il Re degli Spaventi studiò nel corso della sua vita, una volta tirato via il filo i sacchi si aprirono grazie al peso del contenuto. Cominciarono a cadere dall'alto delle piccole ossa di pollo, rubate giornalmente dal macellaio, che causarono parecchio rumore e andarono a piovere sulle teste dei compagni, ormai spaventati e urlanti. Ma non era finita: da sotto l'armadio, mentre tutti erano in subbuglio e la professoressa, impedita dalle ossa, non riusciva a raggiungere la presa della luce, Gordon trasse fuori lo scheletro della classe di scienze e lo avvolse a Kevin con una velocità da manuale e si posizionò dietro di esso accendendo una torcia e urlò nel suo orecchio con voce malvagia:

“SCARED!”

La classe con quest'ultimo avvenimento sobbalzò di nuovo e tutti si voltarono verso la fonte di quella luce. Tutti lo videro, tutti videro Kevin impassibile di fronte a tutto ciò che era successo, tutti lo videro ridere e tutti lo sentirono dire:

“Questo è tutto? Non mi sono nemmeno chiesto cosa stesse succedendo quando il televisore è saltato...”

A quel punto l'insegnante arrivò alla presa della luce e la accese, l'atmosfera era rotta e il resto della classe urlò di gioia alla reazione di Kevin.

“Ti ho registrato con una videocamera notturna...” disse Gordon. “Ora vedremo la tua reazione durante tutto il processo”.

“Fà pure!”

Gordon guardò il video: nessuna reazione da parte di Kevin, aveva fallito! Il resto della classe se la rise nuovamente e il Re spodestato cominciò ad urlare a tutti di stare zitti e che non avrebbero dovuto gioire del fatto che furono spaventati una seconda volta, ma per gli altri pareva non avere importanza, era troppa la soddisfazione per il fallimento di Gordon, oltre tutto arrivò anche una severa punizione da parte della professoressa per il ragazzo, cosa che aveva previsto, ma che con una disfatta simile gli bruciò molto di più.

*****



Nei giorni seguenti, Gordon, studiò altri metodi per riuscire nella sua missione, ma ormai il fallimento precedente lo rendeva insicuro dei suoi mezzi. Ogni volta che si trovava di fronte a Kevin, questi lo provocava con ghigni soddisfatti causando in Gordon una tempesta furiosa. Cosa avrebbe dato per fargli scomparire quel sorriso ebete!

Ma l'amante degli spaventi non sapeva davvero come toccarlo, arrivò a pensare di andare a tentativi e di coglierlo di sorpresa nei momenti più disparati, accontentandosi anche di un semplice BU!, ma tutto questo lo fece sentire un verme in cerca della soluzione più semplice e di dubbia riuscita per di più. Decise di provarci ancora con qualcosa di plateale, ma arrivò ad adottare prima la soluzione più logica a cui aveva pensato: studiare il suo avversario per qualche tempo, ma non osservandolo costantemente in classe, bensì pedinandolo e cercando di scoprire il suo carattere al di fuori della scuola spiandolo persino quando si trovava in casa.

Ovviamente non poteva rischiare di farsi vedere, dunque adottò la tattica del travestimento, cosa che gli riusciva egregiamente. Ogni giorno si sarebbe travestito da qualche cosa di diverso, e avrebbe fatto finta di svolgere un'attività, anche questa diversa per ogni giornata, in modo da non destare sospetti.

Una settimana dopo dal tentativo nell'aula video cominciò il pedinamento. Per il primo giorno si travestì da signore anziano con tanto di giornale e libro. Lungo il tragitto verso casa sua, Kevin, non si fermò mai. Camminava tranquillamente guardando ogni tanto il cielo e l'orologio.

Dopo una camminata di quindici minuti circa, l'ignaro pedinato arrivò ad una bella villetta che si affacciava su un parco. Gordon esultò per cotanta fortuna: un parco era davvero utile per i suoi scopi, poteva fingere qualsiasi attività mentre spiava il rivale. Oltretutto il parco era sempre pieno di gente, dunque aveva un minimo di copertura.

Il pedinatore travestito da vecchietto si sedette su una panchina abbastanza nascosta dalla quale però poteva vedere benissimo la villa e cominciò a far finta di leggere il giornale. Dopo qualche secondo vide, attraverso una grande porta-finestra, Kevin apparire in una stanza al secondo piano. Probabilmente era camera sua. Il padrone di casa aprì uno spiraglio di quella porta e spalancò la piccola finestra che vi era a fianco. Gordon pensò che fosse impazzito: faceva molto freddo quel pomeriggio di ottobre. Il finto anziano vide poi il rivale accendere il televisore e alzare considerevolmente il volume. La cosa strana, però, era il fatto che Kevin non guardò nemmeno di striscio il televisore, bensì si mise a studiare, con addosso una spessa coperta per tenersi al caldo.

Gordon si domandava come potesse riuscire a studiare con il televisore ad un volume così alto e con il fracasso che facevano i bambini al parco. Fatto sta che Kevin non si mosse da quella posizione per circa tre ore, ovvero quando venne chiamato da sua madre per la cena. Lasciò il televisore acceso e le finestre aperte, assentandosi per un ora circa.

Quando il ragazzo tornò in camera fuori era buio, ormai Gordon era coperto perfettamente nella sua posizione e smise di fingere la lettura, osservando attentamente le mosse del rivale. Questi d'istinto accese la luce dall'interruttore appena vicino all'ingresso e si rimise a studiare per altre due ore, al termine delle quali si mise a letto con finestre aperte, televisione e luce accese.

Gordon pensava che fosse pazzo per davvero, tuttavia rimase a spiare per un'altra ora, fino a quando la madre di Kevin non entrò in camera e spense la televisione, chiuse le finestre ed infine spense la luce. Lasciò aperta solo la porta della camera.

A quel punto il pedinatore si tolse il travestimento e andò via, pensando che ormai non vi era più nulla da vedere. Non ci aveva capito poi molto da quel pomeriggio, ma fece affidamento sui giorni seguenti.

Gordon ripeté il processo per quasi un mese e per tutti quei giorni il rivale fece sempre le stesse cose del primo giorno. Il pedinatore cominciò ad avere dei sospetti dopo due settimane di appostamento, ma alla fine dell'esperienza quei sospetti divennero certezze. Aveva scoperto il punto debole del nemico e si apprestava ad infliggergli la fatidica punizione, gli serviva solo l'occasione adatta, che come un lampo si presentò con un avviso scolastico il giorno dopo. Difatti, a seguito della condotta dell'intera scolaresca, di lì alla fine dell'anno scolastico, ogni studente, a turno, sarebbe rimasto a pulire un'ala della scuola da solo. Le ali della scuola erano quattro, quindi ogni giorno quattro studenti sarebbero stati divisi per la scuola a pulire.

A Gordon, che non aveva mai avuto così tanta fortuna in vita sua, non restava che addentrarsi nell'edificio nel giorno in cui Kevin avrebbe dovuto pulire e attuare il suo semplice piano.

*****



Il Re degli Spaventi dovette aspettare altre due settimane per portare a termine la sua missione. Venne il tanto aspettato giovedì e un'ora dopo la giornata scolastica, Gordon, si introdusse nuovamente di nascosto a scuola e si diresse verso l'ufficio del custode, che a quell'ora annaffiava sempre le piante, e rubò uno dei tre mazzi di chiavi. Individuò una classe che Kevin non aveva ancora sistemato e ne abbassò le tapparelle, che avevano un comodo sistema meccanico per la chiusura e l'apertura, le sigillò con dei lucchetti e andò a staccare la corrente dall'interruttore generale, chiudendolo poi con un lucchetto di cui solo lui aveva la chiave, dopodiché in fretta e silenzio tornò in quell'aula e mise dell'olio nei cardini della porta, in modo che non cigolasse al movimento, poi ci si nascose dietro aspettando l'arrivo del rivale.

Fortunatamente Kevin era ancora lontano da quell'aula, dunque Gordon aveva avuto il tempo di fare tutto alla perfezione e di riprendere fiato. Accese la sua videocamera notturna e aspettò al buio.

Il rivale arrivò e, come aveva previsto Gordon, tentò di accendere la luce, ma la corrente non c'era.

“Maledizione!” si sentì imprecare.

Il Re degli Spaventi sentì i passi di Kevin avvicinarsi alle finestre e solo quando lo sentì imprecare nuovamente chiuse la porta lentamente senza alcun rumore e girò la chiave.

I passi di Kevin andarono frettolosamente alla porta, si sentì tirare più volte verso il basso la maniglia.

“Merda! Merda!” pianse il recluso. “Che diavolo succede? Non è che quello stupido custode pensava che avessi già finito e ha chiuso tutto?”

Cominciarono a sentirsi varie botte contro la porta e grida di aiuto mentre Gordon, vincitore, registrava tutto.

“AIUTO! TIRATEMI FUORI DI QUI!!!” urlò Kevin in preda al panico e piangente.

A quel punto Gordon si sentì soddisfatto e ruppe il silenzio con il suo solito:

“SCARED!”.

Ma stavolta lo disse con una voce crudele e fredda, con un moto di risata spietata.

Dopo aver detto il suo solito motto accese una torcia puntandosela in faccia e rivelando il suo volto divertito e cattivo. Poi la puntò verso il rivale e lo vide in lacrime e tremante.

“T-tu!” disse lui.

“Yahahahahahahaha!”

“C-come hai f-fatto? C-come s-sapev-vi?”

“Mentre tu ti divertivi a provocarmi a scuola, io mi divertivo a pedinarti e a studiarti a casa!”

“T-tu mi hai spiato? C-come ti sei permesso?”

“Stà zitto!” ordinò Gordon. “Questa è una guerra e tutto è concesso!”

“Sei un folle!” insultò Kevin. “Ma come hai capito le mie paure?”

“Beh sei piuttosto monotono: arrivi a casa e appena vai in camera apri tutto e accendi la TV, poi ti metti a studiare. A fine giornata vai a nanna tenendo tutto acceso e aperto. All'inizio tutto ciò non mi pareva avere senso, poi ho cominciato a formulare un'ipotesi e nell'ultima settimana di pedinamento l'ho confermata.” spiegò Gordon, con fare da maestro.

“E quale sarebbe questa ipotesi?” domandò Kevin incredulo.

“Che tu hai paura della solitudine, del buio e degli spazi chiusi!” sentenziò il Re degli Spaventi con un largo sorriso freddo. “Ma la tua paura prende vita solo quando tutti e tre gli elementi sono presenti”.

“Bastardo! Hai fatto leva su una cosa così grave, non sai che è un problema serio?” pianse Kevin.

“E che sarà mai? Per un minutino non muori mica!” rise Gordon. “Comunque, ormai ho vinto e ho registrato tutto. Domani dichiarerò la mia vittoria a tutti così la smetteranno di vederti come un eroe di guerra e saranno costretti a considerarmi il migliore!”

“Tutto questo per una stronzata simile... tu sei malato!”

“Può darsi, fatto sta che il malato ne è uscito vincente e questo è ciò che conta!”.

“F-fammi uscire di qui!”

“Va bene, tanto ormai ho ottenuto ciò che volevo, posso anche andarmene. Effettivamente devo attaccare anche la corrente per riaprire le tapparelle.” detto questo, Gordon, inserì nuovamente la chiave nella toppa e mentre la girava questa si ruppe.

“C-che è successo?” chiese Kevin sperando che tutto ciò non fosse vero.

“Si... si è rotta... la chiave...” rispose Gordon allibito.

Insieme cominciarono ad urlare chiedendo aiuto, ma nessuno venne in loro soccorso. Gordon guardò l'orologio, erano le 18:30 circa, a quell'ora il custode stava sicuramente annaffiando la metà di giardino più distante. Avrebbero dovuto aspettare per forza rinchiusi lì dentro.

Nell'attesa i due stettero in silenzio a fissare la torcia. Improvvisamente fu Kevin a parlare.

“Perché ti piace spaventare la gente?” chiese con imbarazzo.

“Diciamo che è una vendetta contro il mondo...”

“Una vendetta contro il mondo? In che senso?” chiese Kevin perplesso.

“Beh, anche se non mi va di raccontarlo, te lo dico.” disse Gordon più imbarazzato che mai. “In pratica, quando andavo in prima elementare, mi trovai sul banco una moltitudine di formiche e appena le vidi mi spaventai molto. E' una cosa stupida, ma mi fece paura. Dunque tutti risero di me e non mi andava a genio che solo io venivo preso in giro per essermi spaventato con una simile cavolata. Quindi, da quel giorno, cominciai a spaventare tutti quelli che conoscevo. Cominciai con mia madre, le feci uno scherzo che vidi in televisione: mi misi sotto al letto e aspettai che si avvicinasse, una volta che arrivò le afferrai una caviglia e lei si spaventò tantissimo. Mi sentii bene e da li cominciai a spaventare chiunque”.

“L'ho sempre detto” esordì Kevin. “Sei buffo!”.

“Và al diavolo!”

I due si guardarono e cominciarono a ridere come idioti. Stava nascendo una bella intesa, nei minuti seguenti parlarono ancora e non si trovarono affatto male.

“Senti” disse Kevin. “Anche se mi ha fatto male, ripensandoci trovo il tuo piano incredibile. Davvero stupefacente! Sono rimasto ammirato, anche dal tuo primo tentativo. Che ne dici se io e te diventiamo soci? Ti va di spaventare insieme la gente? Così anche io potrei distaccarmi dalle mie paure!”

Gordon ci pensò un attimo, non aveva mai agito con qualcun altro, aveva sempre fatto tutto da solo. Poi ripensò al fatto che Kevin non aveva quasi paura di nulla, gli sembrava un'ottima cosa.

“Spaventare la plebaglia insieme, eh?” disse. “Non mi sembra male! Benvenuto a bordo, Kevin il Freddo!”

“Perché il Freddo?”

“Perché non sapevo che altro aggettivo darti!”

“E tu chi sei?”

“Beh, il Re, ovviamente!”

“Già, sei proprio il Re degli Spaventi!”.

A quel punto a Gordon venne in mente una cosa.

“Senti, ormai siamo soci. Non mi sembra il caso di far vedere la registrazione del tuo spavento agli altri!”

“Te ne sarei grato!” sorrise Kevin. “Ci penserò io a dire che sei riuscito a spaventarmi. Ora un'altra cosa fondamentale: dobbiamo inventarci una scusa per quando ci tireranno fuori di qui!”

“Cavolo è vero!”

E fu così che cominciarono a pensare a mille scuse possibili rafforzando ogni minuto di più quell'amicizia e creando un legame stabile che, una volta fuori da quella situazione, il mondo intero avrebbe dovuto temere.

Era appena nata la Spaventevole Alleanza e nessuno si sarebbe più salvato.
 
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La casa sulla collina

di gGiova

La casa sorgeva su un lieve rialzo, proprio all'estremo limite del villaggio. Una leggera pioggia di neve si riversava sul tetto, colorando il triste legno di un bianco puro.

L’immagine mi causò una forte fitta alla testa, facendomi svegliare di soprassalto; sbattei la testa contro qualcosa di molto duro e il dolore alla testa aumentò. Solo dopo qualche minuto mi accorsi di essere cieco: Intorno a me era tutto nero, oscuro e buio, non un solo spiraglio di luce, non una superfice colorata. All’improvviso un dolore profondo nel piede sinistro: fu solo quando un soffio di vento gelido mi sfiorò l’osso che mi accorsi che aveva un foro; la consapevolezza arrivò velocemente e lanciai un urlo, dimenandomi nella mia tomba.

Mi fermai immediatamente quando sentii lontana una musica aumentare d’intensità e poi scomparire; Dov’ero? D’istinto spinsi con forza sopra di me e una luce accecante mi colpì sul viso.

A occhi chiusi mi sollevai facendo leva sulla gamba destra, sana; nel tentativo di estrarre l’altra scivolai e lanciai un secondo urlo, più potente, quando un sasso penetrò nel piede.

Che cosa avevo fatto di male? E soprattutto, che cosa mi era successo? Lacrimando aprii gli occhi e mi guardai attorno, niente di quello scenario mi era familiare: ero in fondo ad un crepaccio profondo almeno dieci metri; ero circondato da pietre – sicuramente la mia tomba fino a qualche minuto prima – ed a qualche metro da me c’era il rottame di una Jeep, in fiamme. La targa dichiarava l’auto come acquistata nell’Ontario, ma non ricordavo di esserci mai stato né il paesaggio attorno a me lo ricordava, ma una cosa era certa: faceva un freddo inconcepibile e rabbrividii accorgendomi che ero coperto solo da luridi Jeans e un golf bucherellato, sotto una pioggia di neve.

«Ehi, laggiù! Serve aiuto?»

Mi girai di scatto, spaventato dalla voce arrivata all’improvviso: venti metri più in là, in cima al crepaccio, un uomo mi guardava; dietro di lui era parcheggiata una Land Rover nera, macchiata dalla neve che continuava a cadere lentamente.

Sopraffatto dall’emozione mi sollevai dimenticando il piede ferito e mi accasciai di nuovo a terra mugolando. «Mio Dio… resta fermo, vengo a prenderti!» disse lo straniero, e iniziò a scendere verso il fondo, camminando lentamente sul tratto meno ripido.

Non sapevo chi ero, dove mi trovavo, né cosa mi era successo, ma avevo bisogno di aiuto. Mi lasciai prendere di peso senza proferire parola e iniziai a osservare il mio salvatore: aveva una folta barba bianca, un naso tondo e un’espressione gentile; mi ricordava un personaggio che amavo, ma che al momento non ricordavo bene.

L’uomo ripercorse la salita molto più lentamente di prima e quando mi ritrovai a osservare il crepaccio dall’alto tirai un sospiro di sollievo. «Ce l’abbiamo fatta», disse lo straniero caricandomi sulla sua auto, facendo attenzione a non farmi urtare il piede sinistro da nessuna parte, per poi chiudere la porta. Osservai il paesaggio fuori dal finestrino: che mi trovavo in Canada o comunque in una regione fredda era ormai ovvio, ma il paesaggio era troppo selvaggio per l’Ontario.

L’uomo entrò in auto e accese il motore, mi osservò preoccupato e disse: «Come ti chiami, ragazzo?»

Mi ritrovai in grande difficoltà: conoscevo i nomi degli stati, dei materiali, le marche automobilistiche e perfino le loro targhe ma non sapevo dire qual era il mio nome, e mentre lo straniero attendeva una risposta mi chiesi se sapevo parlare; aprii la bocca lentamente, come per essere pronto ad attutire un colpo:

«N…Non lo so!»

Lui fece partire l’auto, che sbuffò lamentosa per il freddo prima di partire. «Come non lo sai?»

Mi sforzai di ricordare, qualsiasi nome poteva essere il mio; riflettei per almeno venti secondi mentre l’uomo percorreva una strada impervia.

«Non lo so.. » Lui mi guardò con apprensione.

«Io mi chiamo Geremia Gilliam» disse rassegnato «e che ti ricordi o no il tuo nome, quella ferita va curata» disse lui indicando il mio piede, ormai pulsante sotto lo scarpone. Risposi stupidamente: «Lo farai tu?»

Geremia svoltò in un tratto che passava di fianco ad un muro di roccia verticale. «Certo che no, io sono un semplice cacciatore, al massimo le ferite le infliggo», rise. «Ti sto portando all’ospedale più vicino … i centri medici dello Yutan non saranno il massimo, ma con un po’ di fortuna e impegno dovresti risollevarti »

Mi chiesi se nell’ospedale più vicino sapessero anche ricaricarti la memoria; il dolore al piede neanche mi toccava più, tanto ero concentrato: dovevo capire chi ero e che cosa mi era capitato; almeno adesso sapevo di essere in Yutan, e quell’uomo somigliava sempre di più ad un allevatore di renne.

In quel momento spalancai gli occhi, sorpreso: stavamo percorrendo una strada piana e alla nostra destra c’era un piccolo paesino, con tanta gente infreddolita che svolgeva i lavori giornalieri. Ma la mia attenzione non era rivolta al centro città, ma ad una abitazione più a nord: la casa sorgeva su un lieve rialzo, proprio all'estremo limite del villaggio. Un candido manto di neve era posato sul tetto e colorava il triste legno di un bianco puro.

«Fermo!» urlai senza pensare; Geremia tirò spaventato il freno a mano e l’auto inchiodò violentemente riempendo di fumo l’aria nel raggio di due metri.

Gilliam si girò impaurito. «Che è successo?!»

«Quella casa la riconosco.. », dissi aprendo la portiera.

Geremia mi prese per la spalla. «Dove vuoi andare con una sola gamba sana? Andiamo all’ospedale, avrai tutto il tempo che vuoi al ritorno per venire qui»

Lo guardai e dissi: «No, devo andare adesso!». Appoggiai la gamba sana a terra, fuori dall’auto. «Ho bisogno di sapere adesso».

Lui mi guardò afflitto e mi lasciò la spalla. «Lascia almeno che ti aiuti, non puoi raggiungere quella casa da solo».

Io annuii, mi calmai e chiusi la portiera; Geremia accese la Land Rover e si avviò a passo lento verso la piccola stradina che attraversava il paese.

Iniziai a osservare le persone fuori dal finestrino: non appena mi videro iniziarono a parlare animatamente tra di loro, un paio puntarono il dito verso di me e altri mi guardarono male; un uomo mise il telefono all’orecchio e iniziò a parlare velocemente, mentre una folla di curiosi ascoltava. Mi sentii mal voluto, e non sapevo neanche perché; Geremia non sembrava aver notato niente e arrivò senza dire una parola alla collina, dove non era possibile proseguire in macchina.

«Sei sicuro?», mi chiese mentre aprivo la portiera e iniziavo a scendere; non ero sicuro di niente, soprattutto dopo l’accoglienza degli abitanti, ma dovevo capire. «Sì».

«Aspetta, ti do una mano», e uscì frettolosamente dalla macchina, affondando gli scarponi nella neve; arrivò da me e mi prese per la vita, portandomi fuori dall’auto senza appoggiare il piede ferito.

La casa era nel punto più alto del villaggio, leggermente fuori da esso; sembrava elevarsi rispetto al resto delle abitazioni, sia per posizione, sia per decorazioni esterne. A differenza delle altre case questa sembrava fatta con tronchi di legno pregiato, e ai lati delle finestre c’erano dei simboli intagliati.

La collina era sormontabile attraverso un sentiero, liberato dalla neve sicuramente da poche ore; arrivammo in cima, a pochi metri dalla casa e Geremia parlò di nuovo dopo cinque minuti di silenzio: «Da dove si entrerà?»

In effetti arrivando all’abitazione dal sentiero principale sembrava non esserci un’ entrata, ma senza neanche pensare risposi. «è sul retro, andiamo».

L’uomo mi osservò con aria interrogativa e riprese ad accompagnarmi; in effetti sul lato della casa opposto alla strada c’era una porta splendidamente decorata con ispirazione nordica, in legno dipinto.

«E tu come lo sapevi?»

Già, come lo sapevo? La verità era che avevo percorso la stradina intorno alla casa come quella di casa mia; quella era casa mia? Vivevo con qualcuno, avrei trovato qualcuno all’interno? Perché quella gente mi guardava male? Cosa avevo fatto?

Geremia bussò, risvegliandomi dai miei pensieri. Lo guardai con ansia ma lui aveva lo sguardo fisso sulla porta, che si aprì lentamente e comparse un uomo: lunghi capelli bianchi raccolti in un codino e una veste di pelliccia davano al vecchio davanti a noi un’ aria incredibilmente saggia; lui spostò lo sguardo su di me e alla vista dei suoi occhi grigi entrai in trance.

«Finiscila di trattarmi come un bambino!»

«Stupido, lo farei se mostrassi un po’ di maturità!». Il vecchio mi guardò con aria schifata. «Guardati, trent’anni e ti comporti come i bambinetti giù al villaggio…»

Lo guardai con odio. «Come puoi dire questo? Ho fatto tanto per te!»

«Non conta una buona azione per fare un uomo!» sputacchiò. «Un giorno morirò, e allora a chi darò il mio titolo? Tu non sei in grado di essere il Capo villaggio!»

Il vecchio fece segno di entrare, tenendo la bocca chiusa. Geremia mi aiutò ad arrivare al salotto, che era degno di un re celtico: ai muri c’erano tantissimi trofei di caccia e sul pavimento faceva bella mostra di sé una pelle di tigre bianca, coperta in parte da poltrone d’importazione.

Mi sedetti su una delle poltrone e osservai il capo villaggio: quell’uomo lo avevo già conosciuto, e come dimostrava quel flashback annidatosi nella mia mente pure bene.

Ero suo erede come capo villaggio, e la notizia stranamente non mi sorprese. Probabilmente nel profondo lo sapevo già. Allora che rapporti avevo con quell’uomo, che ora mi scrutava con un’ espressione indefinibile? Eravamo parenti?

Geremia guardò prima me e poi il vecchio con imbarazzo, eravamo lì da cinque minuti nel silenzio più totale; si grattò la nuca e mi indicò una cornice sopra il caminetto. «Guarda che decorazioni!» disse, con l’evidente tono di chi vuole trovare qualcosa di cui parlare. Nella cornice c’era uno splendido fucile da caccia, con il calcio splendidamente decorato; anche la canna e il centro erano intagliati e più che un’ arma da fuoco vera e propria sembrava di vedere un’ arma minoica, creata per il solo scopo di decorare l’ambiente; ma alla vista di quell’oggetto la sua mente tornò a volare, ancora più nitida di prima:

«Ma quella non è l’auto del capo villaggio? »

Percorsi la discesa verso il centro cittadino a tutta velocità, graffiando le portiere della Jeep contro rami e massi innevati. L’auto volò per un attimo prima di atterrare sulla strada principale; qualcuno urlò. Un uomo gridò alla gente di spostarsi mentre percorrevo la strada come una freccia. Davanti a me comparse una bimba, con splendidi occhi azzurri e capelli biondi; il suo sorriso si spense ad un millimetro dalla mia Jeep.

«CHARLOTTE, NO!!» l’urlo del padre straziò l’intero villaggio mentre schizzi rosso scuro inondarono il parabrezza; ansimai e accelerai, guardando nello specchietto retrovisore il padre singhiozzante, una folla di gente che cercava di tirarlo via e lo sceriffo, che aveva in mano un fucile puntato verso di me.

Spalancai gli occhi; mi guardai attorno e mi sentii in trappola. Era già un miracolo che non mi avessero preso al mio arrivo, ma dovevo andarmene, e alla svelta. Cosa dire a Geremia? Lo guardai mentre osservava il freddo paesaggio canadese fuori dalla finestra. Non potevo fidarmi di lui abbastanza da digli la verità. Avevo ucciso una bambina, e non sapevo neanche io perché: l’unica cosa che potevo fare era andarmene da quel posto e iniziare una nuova vita da qualche altra parte; dopotutto quella gente era solo un lontano ricordo per me, nessuno che mi sarebbe mancato.

«Andiamo, per favore».

Geremia si girò e mi guardò con incredulità; mi aveva accompagnato fino a lì, e ora volevo andarmene? Ma non poteva sapere quanto era pericoloso quel posto per me.

«Sicuro? Abbiamo fatto tanto per arrivare qui…»

«Sicurissimo» conclusi io con fermezza. «Per favore».

Gilliam sospirò e fece per farmi alzare; in quel momento il vecchio si alzò e mi spinse nuovamente sulla poltrona con violenza, sbalzando Geremia di qualche metro: lui lo guardò incredulo mentre, senza dire una parola, si riaccomodò sulla sua poltroncina, in attesa.

Lo guardai con paura: la sua espressione tradiva il suo silenzio, e indicava un’ attesa trepidante; i suoi occhi erano ridotti a due fessure e guardava prima a me e poi Gilliam, come a volerci bruciare al primo passo.

Aveva capito le mie intenzioni, ed ora ero veramente finito… Poi guardai Geremia, e nella mia mente si mostrò un’ alternativa interessante: potevo attaccare e uccidere il vecchio, bloccare in qualche modo il mio compagno e sparire dalla zona; la colpa di tutto sarebbe ricaduta su di lui… Dopotutto era evidente che escluso il capo villaggio nessuno del posto sapeva che alla guida del mezzo c’ero io. Lo guardai intensamente, e mi accorsi davvero della mia malvagità: ma ero davvero così bastardo da fare tutto questo? Dopotutto lui mi aveva salvato la vita. Ma mi ero già dimostrato capace, avevo ucciso una bambina!

Mi alzai, facendo ben attenzione a spostarmi verso l’interno della casa, per non indurre il vecchio a non credere in un mio ulteriore tentativo di fuga. Geremia corse ad accompagnarmi, e gli indicai il posto che volevo raggiungere: una mensola nel lato sinistro della stanza, su cui c’era una spada in argento dall’aspetto decorativo quanto pericoloso, contenuto in un’ elsa.

Geremia, Geremia… e se gli avessero creduto? Dopotutto lui aveva già fatto notare che era della zona e girava molto, era probabile che qualcuno lo conoscesse! No, non potevo fare così, c’era un unico modo per convincere tutti della sua colpevolezza…

Arrivai al muro; Geremia mi lasciò e sorrise per un attimo, per poi girarsi ad osservare il tramonto che iniziava ad oscurare il paesaggio e la stanza. Il vecchio si alzò silenziosamente e accese la luce con fare tranquillo.

Il momento perfetto. In un solo scatto impugnai la spada e la feci scivolare silenziosamente fuori dall’elsa; la puntai verso il mio “amico”.

«Che tramonti da sogno che ci sono qui» disse con malinconia. «Sai, se osservi bene puoi quasi vedere…»

Non finì mai la frase: con un urlo lo trapassai all’altezza dello stomaco con la spada, da dietro; lui singhiozzò e cadde a terra… il pavimento si coprì di sangue.

Iniziai a ridere mentre estraevo la spada dal corpo di Geremia, mi girai verso il vecchio per gustare la sua espressione terrorizzata; ma non lo era. Il vecchio iniziò a ridere con malvagità, mentre passi sempre più forti si sentivano da fuori, in direzione della casa. Lui si mise a ridere con foga e la sua bocca si aprì; all’improvviso sentii freddo mentre guardavo la sua bocca vuota, priva di lingua, e la mente si aprì come uno scrigno del tesoro:

«Finiscila di trattarmi come un bambino!»

«Stupido, lo farei se mostrassi un po’ di maturità!» il vecchio mi guardò con aria schifata. «Guardati, trent’anni e ti comporti come i bambinetti giù al villaggio…»

Lo guardai con odio. «Come puoi dire questo? Ho fatto tanto per te!»

«Non conta una buona azione per fare un uomo!» sputacchiò. «Un giorno morirò, e allora a chi darò il mio titolo? Tu non sei in grado di essere il Capo villaggio!»

Lo osservai con odio. «Io sarò capo villaggio!»

Lui sbraitò. «NON CREDO, FINO A QUANDO POTRò DIRE IL CONTRARIO!»

Gridai da guerriero e lo buttai a terra; tirai fuori dalla tasca un coltellino di acciaio e gli aprii la bocca. «Questo problema lo risolviamo subito!»

Mi misi una mano in tasca e sentii il freddo acciaio sulla mano.

Mugolò disperato, mentre gli presi la lingua con una mano, e con l’altra preparavo il colpo… La lingua cadde nella mia mano e sangue scuro coprì il vecchio. Lui urlò con disperazione e sentii abbaiare dei cani giù al villaggio; avevo esagerato, dovevo andarmene…

Nell’altra tasca c’era qualcosa di morbido: lo tirai fuori e urlai mentre questa cadeva a terra; la lingua aveva un aspetto macabro. Come avevo fatto a non mettermi ancora le mani in tasca?

Corsi all’impazzata all’uscita e vidi la Jeep parcheggiata a pochi metri: era la mia salvezza. Rientrai dentro e tirai un calcio al vecchio mentre gli prendevo la collana con un mazzo di chiavi dal collo e uscii di nuovo in direzione dell’auto; salii a bordo l’accesi con fretta: partii velocemente in direzione del villaggio, che era l’unico ostacolo da superare per la salvezza.

«Ma quella non è l’auto del capo villaggio?» Sentii dire da un uomo vicino ad un bar.

Feci la discesa verso il centro cittadino a tutta velocità, graffiando le portiere della Jeep contro rami e massi innevati. L’auto volò per un attimo prima di atterrare sulla strada principale; qualcuno urlò. Un uomo gridò alla gente di spostarsi mentre percorrevo la strada come una freccia. Davanti a me comparse una bimba, con splendidi occhi azzurri e capelli biondi; il suo sorriso si spense ad un millimetro dalla mia Jeep.

«CHARLOTTE, NO!!» l’urlo del padre straziò l’intero villaggio mentre schizzi rosso scuro inondarono il parabrezza; ansimai e accelerai, guardando nello specchietto retrovisore il padre singhiozzante, una folla di gente che cercava di tirarlo via e lo sceriffo, che aveva in mano un fucile puntato verso di me.

D’istinto abbassai la testa; ma il proiettile colpì qualcos’altro, e la macchina iniziò a sbandare con violenza inaudita: «CAZZO DI RUOTA!» imprecai, mentre cercavo inutilmente di riprendere il controllo dell’auto che ora slittava senza sosta su un campo ghiacciato, ormai lontana dal villaggio; potevo ancora farcela!

Poi tutto finì: non riuscii neanche ad urlare mentre vidi la macchina slittare verso quel crepaccio e girarsi in verticale: un rumore di vetri rotti, airbag gonfiati e io spalancai la portiera e saltai fuori. Il fracasso di un colpo ed un’ esplosione, atterrai violentemente su delle rocce e delle pietre mi rotolarono sopra spinte dall’onda d’urto; un sasso mi sbatté direttamente sulla testa, e fu il buio.

La porta si aprì e lo sceriffo, seguito da un drappello di gente armata si diresse verso di me.

Era finita. Lascai cadere la spada a terra e mi buttarono a terra; sentii il freddo delle manette chiudersi come una morsa sui miei polsi, e vidi il capo villaggio: non rideva più, e tutto a un tratto riconobbi quella espressione: delusione. Delusione per come mi ero comportato, per cosa avevo fatto…

«Marcirai in galera per sempre» disse lo sceriffo prendendomi per la spalla. «Fare una cosa del genere… al proprio padre per giunta… ed un omicidio... »

Alcuni uomini tastarono Geremia; «è morto» dissero infine.

«Due omicidi e un tentato!» disse lo sceriffo portandomi fuori, mentre guardavo per l’ultima volta mio padre. «Che schifezza…»

Avevo sbagliato tutto. Dovevo andare all’ospedale e da lì sarei andato in qualche altro posto; quel giorno avevo imparato una lezione che non mi sarebbe mai più servita: non sempre conviene ricordare.
 
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Il buio dentro la mia testa

di Jke

Il sole era al tramonto. Di lì a poco, si sarebbe fatto buio...

Sedeva alla finestra, osservando la sera invadere il viale.

“Accipicchia, che buio!” esclamò Darko.

… no, no così non va!

Potrei continuare a copiare incipit da altri mille libri, il risultato non cambierebbe di una virgola.

Maledetti videogiochi, giorno dopo giorno hanno prosciugato ogni singola goccia della mia linfa creativa, senza che nemmeno avessi il tempo di rendermene conto... ammesso che l’ abbia mai avuta, una vena creativa, a dirla tutta. Figuriamoci poi, dover stendere un testo a comando non mi aiuta per niente!

Vediamo… le uniche storie che lì per lì mi vengono in mente che abbiano una seppur vaga attinenza col tema del buio sono… cavalieri neri che dopo aver corso mille pericoli riescono finalmente a redimersi fino a diventare paladini senza macchia e senza paura, oppure: improbabili team investigativi a là Scooby Doo indagano per scoprire la verità sopra un mistero particolarmente intricato.

Certo, anche partendo da queste basi un po' debolucce si potrebbero ricamare intrecci di tutto rispetto... se avessi anche solo la minima idea di come svilupparli dopo le prime due righe!

Proprio non riesco a capire i miei compagni; sempre a chiedere temi liberi in cui poter esprimere “tutta la loro creatività ed inventiva, senza troppe limitazioni”, neanche fossero scrittori di professione.

Da parte mia, preferisco di gran lunga titoli più simili a: “La lingua italiana nelle opere di Verdi e di Puccini a confronto” o ancora meglio: “Halloween: carnevale fuori stagione o rituale da combattere?”.

Potranno pur sembrare noiosi (e probabilmente, se anche concettualmente non lo fossero, lo diventerebbero dopo essere stati ingoiati e successivamente rigurgitati dalla mia mente), ma almeno permettono di ottenere risultati non dico soddisfacenti, ma perlomeno decenti a chiunque si sia dato la pena di studiare un po', o tenersi un minimo aggiornato temi di attualità. Senza contare che internet è sempre pieno di notizie, informazioni, e spesso addirittura più elaborati già svolti su tracce del genere.

Invidio quasi i miei compagni e la loro fantasia, ma del resto non siamo tutti giornalisti e grandi autori! (Io ad esempio sono più portato in… ewww… uhm… vediamo… altro, insomma!)

Purtroppo stavolta nemmeno Wikipedia mi potrebbe aiutarmi più di tanto, temo dovrò trovare qualcosa di personale.

Proviamo a cercare fra le citazioni (gentilmente offerte da Wikiquote, ovviamente).

“Invece di maledire il buio è meglio accendere una candela”, 老子.

Già... peccato che a me invece non si accenda proprio nulla!

Forse è meglio se ricomincio da capo, stavolta escludendo la narrativa.

Se penso al buio, mi viene in mente... ma certo, il medioevo! Come ho fatto a non pensarci!

Dunque… sì, allora… ecco… Cioè, non che l'argomento non mi piaccia, ma anche in questo caso temo proprio di non avere la competenza necessaria ad un elaborato che diventerebbe sin troppo ampio ed inutilmente complesso, e che oltretutto non risulterebbe poi troppo “in tema”. Peccato.

Potrei davvero buttarla sul personale e raccontare qualche episodio della mia infanzia. I temi personali funzionano sempre!

Ad esempio, non credo dimenticherò mai il mantra che ogni sera ripetevo al genitore di turno prima di andare a dormire, al posto di un ben più classico “buonanotte”, che ci si aspetterebbe da chiunque bambino.

“Tieni un po' la luce accesa”, è quel che ho incessantemente ripetuto per diversi anni prima di tuffarmi nelle coperte, anche quando ormai avevo smesso da tempo di avere paura del buio. Alla lunga, nemmeno importava più se l'ambiente a me circostante era realmente tenebroso o al contrario ben illuminato da luci esterne, con l’abitudine, l'unica cosa che mi interessava davvero era il rispetto dovuto a quella formula ormai consolidata.

Sì, forse ci siamo, potrei essere sulla strada giusta. Continuiamo…

è solo che… mi chiedo solo se anche un lettore esterno, che non sia mai stato partecipe di questi momenti potrebbe trovare interessante un racconto del genere. Probabilmente, non tanto come vorrei. Da capo.

A dire il vero... ecco, devo ammettere che la sola parola, “Buio”, mi porta a fare almeno anche un altro collegamento, sul quale a dire la verità avrei preferito glissare, non fosse che ormai sono praticamente a corto di idee.

Inutile negarlo, anni ed anni di cartoni animati e videogiochi hanno mi hanno portato a creare un legame mentale indissolubile fra la parola “Buio” e “Pokémon”. *

Se solo fosse opportuno, potrei spendere pagine e pagine sull'argomento, anche al punto di realizzare un piccolo saggio.

Partirei dall'introduzione stessa del tipo nella seconda generazione, spiegando come questa sia stata necessaria insieme a quella del tipo Acciaio per contrastare l'allora sbilanciatissimo tipo Psico, che rischiava di rovinare il gioco a causa della troppa potenza, fino ad arrivare alla quinta ed ultima (per ora!) generazione, dove analizzerei tutte le nuove mosse ed i nuovi Pokémon del tipo che questa ha portato.

Immagino potrebbe venirne fuori un pezzo niente male, completo e competente... peccato solo che questo presunto saggio non finirebbe pubblicato su un sito di appassionati, bensì letto da una professoressa di lettere, che con ogni probabilità si chiederebbe ad ogni riga di cosa stia parlando!

Forse, dopo il successo puramente scolastico di altri miei recenti scritti del calibro di “La poesia attraverso i secoli” e “Il senso estetico attraverso i secoli”, potrei rimanere sul classico e sfoderare l'ennesimo, ben collaudato polpettone: “Il buio attraverso i secoli”.

Non male! Cosa significherebbe “Il buio attraverso i secoli”, però? Forse una cronologia sulla percezione, e sulle varie simbologie attribuite al buio dalle varie culture e nelle varie epoche?

Già stendere una cosa simile pur limitandomi al solo medioevo mi riuscirebbe abbastanza difficile, figuriamoci se tentassi persino di espandermi oltre, smisuratamente oltre, in quel mare che è la storia dell'uomo!

E intanto, sono ancora al punto di partenza... possibile che sia così difficile scrivere quella che in fondo potrebbe essere “qualsiasi cosa” su di un argomento dato?

Sono certo che se solo il titolo assegnato fosse stato anche un minimo meno vago, riuscirei a svolgere il mio mediocrissimo saggio breve, articolo di giornale, analisi del testo o qualsiasi altra maledetta tipologia di testo senza difficoltà alcuna!

Se penso che solo qualche anno fa, per trovare l'ispirazione necessaria per temi (anzi, allora si preferiva chiamarli “pensierini”) dai titoli particolarmente fantasiosi mi era sufficiente guardare fuori dalla finestra e dare sfogo alla creatività...

Ne fossi ancora capace, oggi sarebbe proprio la giornata ideale per un tema del genere! In questi giorni di metà novembre, fuori è buio... buio pesto! Sono solo le sei del pomeriggio e fuori non si vede già più nulla. Non invidio proprio chiunque si trovi all’aperto, in questo momento.

Tornando un attimo seri, l'unica cosa nuova che questo paesaggio mi fa venire in mente è la canzone di Tiziano Ferro, (“E fuori è buio”) e sinceramente tremo al solo pensiero di scrivermi un tema sopra! Anche se, che mi è partita in loop mentale quella canzone, difficilmente riuscirò a pensare ad altro.

Temo che ormai non mi restino più molte altre possibilità, la mia mente è già altrove da un pezzo, cercare di stendere qualcosa in queste condizioni è impossibile.

Avrei preferito evitarlo, ma ormai questa brutta è tutto ciò che resta di questo pomeriggio di elucubrazioni mentali.

Spero che la prof. possa perdonarmi, un giorno.

Non mi rimane altro da scrivere, se non:

Tipologia D, tema di ordine generale

Il buio dentro la mia testa: pensieri in ordine sparso.

(*buio è uno dei 17 tipi elementali nei media delle serie Pokémon).
 
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Dolore nel buio

di deynon

Lentamente sentì la coscienza farsi più vivida, la bocca con un gusto pastoso e amaro in bocca, non sgradevole né piacevole, solo acutizzato dai suoi sensi che si risvegliavano.

Poteva sentire il suo respiro pian piano sempre più chiaro, pian piano riguadagnando il controllo di ogni muscolo, del proprio corpo. Il torpore non era ancora svanito completamente e giaceva ancora immobile, ancora legato alla superficie sulla quale riposava... la superficie... stava riguadagnando il tatto... era una superficie morbida e solida.

Il tempo scorreva lento, ogni movimento sembrava occuparne molto di più di quanto oggettivamente impiegasse, i sensi dilatavano la percezione stessa di tutto.

Lentamente si alzò... sulle spalle quasi a sentire il peso del mondo... si mise a sedere sul letto... ora identificava quella superficie morbida... il senso di straniamento e disorientamento stava svanendo... anche se a lui sembravano minuti se non ore, non erano trascorsi che pochi secondi.

Ed ecco... finalmente aprì gli occhi... e nulla cambiò... l'oscurità continuava a regnare sovrana, ma stava recuperando il senso di presenza, ora ricordava finalmente dove si trovava... si era appena risvegliato da un sonno pesante... un sonno che ancora non aveva scacciato del tutto... in bocca un sapore tra l'amarognolo e il dolce... la bocca ancora impastata...

Infilò le ciabatte e lentamente si sollevò in piedi, le mani che sprofondarono per qualche centimetro nel soffice materasso prima di fare presa e permettergli quel movimento.

Senza nessuna luce a fargli da faro richiamò alla memoria la mappa della stanza, così famigliare sebbene con una strana sensazione di distacco... mosse i primi passi, ma parollando, le gambe che ancora non obbedivano appieno ai suoi comandi... rapidamente mosse la mano a sostenersi sulla superficie del mobile lì vicino... sì stupì sia della rapidità del gesto sia di trovare l'oggetto esattamente nella posizione che si aspettava... stava riguadagnando la presa sul mondo che lo circondava.

Si mosse verso la porta, le mani spostate in avanti, muovendosi a spanne, in modo da evitare scontri piacevoli, ricordava la posizione dei mobili e degli oggetti nella stanza ora, ma era comunque meglio procedere con cautela, non aveva fretta.

Raggiunse la porta...le mani si chiusero sulla maniglia e lui la tirò a sé... il panorama non cambiò... ancora un buio fitto lo aspettava e lui si mosse, ancora una volta chiamando alla mente ciò che si sarebbe trovato davanti...voltò l'angolo...sapeva che bastava un passo... lo fece...voltò di nuovo e mosse il piede... ma fu troppo svelto...

il mignolo del piede si scontrò con lo spigolo del battiscopa nell'unico punto in cui la ciabatta era meno spesso e l'impato gli fece vedere nel buio della notte che lo avvolgeva... i suoi occhi si illuminarono di tanti fuochi d'artificio mentre si sforzava di controllarsi... il piede ritratto di scatto e un po' zoppicando, un po' saltelllando cercava di mantenere l'equilibrio... ora era senza dubbio sveglio, ma allo stesso tempo i sensi erano sovrassaturi e questo aveva gli stessi effetti di quando si stava svegliando... aveva perso la relazione col mondo circostante... trattenne parole di disprezzo verso il battiscopa a stento... ma gli costò grande fatica.
 
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